Con la sentenza in commento la suprema Corte ha sancito che «nel delitto di coltivazione di sostanze stupefacenti, l’astratta offensività del fatto, correlata all’aumento di occasioni di lesione della salute pubblica derivante dall’incremento della provvista di stupefacente esistente e dalle sue possibilità di circolazione, attiene al piano della tipizzazione legale della condotta di rilevanza penale, la quale deve essere esclusa in caso di inidoneità della sostanza prodotta a raggiungere la soglia di capacità drogante minima. Nondimeno, trattandosi di reato di pericolo è, altresì, necessario che il giudice valuti se, in concreto, vi sia una effettiva possibilità di lesione del suddetto interesse. La quale può essere esclusa ove non vi sia pericolo di diffusione della sostanza prodotto a producibile e, con esso, la moltiplicazione delle occasioni di lesione della salute pubblica, attraverso la circolazione della droga e di alimentarne il mercato».
Nel caso di specie, l’imputato è stato condannato, all’esito del giudizio abbreviato, alla pena di 8 mesi di reclusione e 2.000 euro di multa in relazione al delitto di cui all’art. 73, comma 5 dPR 309/90, per avere coltivato, all’interno della propria abitazione, sei piantine di cannabis dell’altezza di circa 90 cm, contenenti complessivamente un quantitativo di THC di 1,070 gr. Con il medesimo provvedimento, l’imputato è stato assolto per la detenzione di una pianta di cannabis già essiccata del peso di circa sette grammi, nonché di 2,5 grammi di sostanza stupefacente del tipo marijuana: ciò sul presupposto che tale sostanza fosse destinata ad un uso esclusivamente personale. La sentenza di primo grado è stata confermata in grado di appello, con una pronuncia che ha ribadito che la condotta ascritta all’imputato, considerato il quantitativo di marijuana ottenibile (pari a due volte la soglia consentita per la detenzione personale), dovesse ritenersi idonea ad offendere concretamente l’interesse tutelato dalla norma incriminatrice, attraverso il pericolo di un’ulteriore diffusione dello stupefacente prodotto.
Nel gravame presentato alla Corte di cassazione avverso la sentenza di appello, l’imputato ha dedotto l’inosservanza e l’erronea applicazione dell’art. 73 dPR 309/90 e l’illogicità della motivazione in quanto, nel motivare la condanna, i giudici di merito, pur avendolo assolto per la detenzione di stupefacenti a fini di spaccio, lo hanno condannato per la coltivazione di sei piante di marijuana di cui era stata accertata la destinazione ad un uso personale: secondo la prospettazione difensiva, in tale condotta non poteva che ritenersi mancante una concreta capacità di minacciare la salute pubblica.
La Corte ha ritenuto fondato tale motivo, sancendo il principio anticipato in apertura. Nel motivare la decisione, i giudici di legittimità hanno ripercorso i diversi orientamenti sviluppatisi in merito alla questione della rilevanza penale da attribuire a condotte di coltivazione di sostanze stupefacenti che siano finalizzate ad un consumo esclusivamente personale del coltivatore, partendo dal dato normativo che merita, in questa sede, ricordare: la condotta di coltivazione, anche dopo l’intervento legislativo realizzato nel 2006 (dl 30 dicembre 2005 n. 272, conv. L. 21 febbraio 2006, n. 49), non è richiamata né nell’art. 73, comma 1-bis né nell’art. 75, comma 1, ma solo nel comma 1 dell’art. 73 dPR 309/90. In questo modo, il legislatore sembra avere consapevolmente attribuito a tale condotta una rilevanza penale a prescindere dalla dimensione della piantagione e del principio attivo ricavabile dalle piante: ha, così, finito con l’aderire alla tesi – già sostenuta dalla giurisprudenza di legittimità prima della riforma del 2006 – secondo cui la condotta di coltivazione di stupefacenti è intrinsecamente più grave rispetto a quella di mera detenzione, perché comunque diretta ad aumentare il quantitativo di droga circolante sul territorio, tanto da meritare un trattamento sanzionatorio diverso e più grave. Ne deriva la rilevanza sempre penale della condotta di coltivazione e l’esclusione di qualsivoglia spazio per un intervento sanzionatorio solo amministrativo, per in presenza di coltivazioni di modestissime dimensioni.
La dottrina [1] ha, fin da subito, messo in luce il profilo di criticità di una simile, rigorosa, impostazione legislativa, che finiva per equiparare alle condotte di coltivazione su larga scala di sostanze stupefacenti quelle domestiche di poche piantine, destinate a consentire il ricavo di modesti quantitativi di principio attivo, con un conseguente ridottissimo – o pressoché nullo – rischio per la salute pubblica. La strada tracciata dai commentatori per temperare tale rigore, pur senza porsi in contrasto con la rilevata intenzione del legislatore, mirava a distinguere la coltivazione intesa in senso tecnico-agrario dalla modesta attività di coltivazione cd. domestica: in quest’ultimo caso, poteva essere sostenuto che si fosse al di fuori della nozione di coltivazione presa in esame negli artt. 26-28 dPR 309/90, includendo estensivamente la condotta in un’ipotesi di detenzione colpita solo con sanzioni amministrative a norma dell’art. 75 dello stesso dPR qualora fossero difettati elementi che potessero far ritenere dimostrata una destinazione del ricavato della coltivazione ad uso non esclusivamente personale.
La giurisprudenza, dal canto suo, ha risposto a tale impostazione legislativa interrogandosi sulla nozione di «offensività in concreto» da rintracciarsi nelle condotte di coltivazione di stupefacenti di modesta entità: la pronuncia in commento, al riguardo, ha ricostruito i diversi orientamenti formatisi sul punto, per poi aderire a quello meno “rigoroso” sviluppatosi anche in seguito ai più recenti arresti della giurisprudenza costituzionale.
Un primo orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità, muovendo dal mancato inserimento delle condotte di coltivazione – così come quelle di fabbricazione – tra quelle contemplate dall’art. 75 dPR 309/90, ritiene le stesse sempre penalmente rilevanti: tale lettura ermeneutica viene temperata dalla suprema Corte con una interpretazione costituzionalmente orientata del dato normativo, sicché la condotta di coltivazione viene ritenuta di rilevanza penale solo in quanto concretamente offensiva [2]. Tale linea interpretativa, tuttavia, ha aderito ad una impostazione particolarmente restrittiva della nozione di offensività, arrivando ad affermare che l’offensività della condotta deve essere esclusa solo qualora la sostanza ricavabile dalla coltivazione risulti priva della capacità ad esercitare, anche in misura minima, l’effetto psicotropo evocato dall’art. 14 del dPR 309/90 [3]. In altre parole, secondo tale orientamento, la rilevanza penale della coltivazione viene ancorata alla mera «conformità della pianta al tipo botanico previsto ed alla sua attitudine a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente, indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza» [4].
La sentenza che si annota mette in luce la criticità di tale filone ermeneutico: la conclusione a cui si giunge nel delineare una simile lettura restrittiva alla nozione di offensività – affermano i giudici di legittimità – finisce per sovrapporre indebitamente due piani, ossia quello della tipicità e quello dell’offensività della condotta, che dovrebbero, invece, rimanere distinti; al riguardo, rimarcano che l’assenza di un qualsivoglia effetto drogante nella sostanza prodotta o coltivata non esclude tanto l’offensività, quanto la tipicità della condotta, come già messo in luce dalla Corte costituzionale con la pronuncia n. 109 del 2016.
Pertanto, proseguono i giudici nella sentenza in commento, appare preferibile aderire ad un differente orientamento, pur già espresso da svariate pronunce della Corte suprema [5], il quale, muovendo anch’esso dalla premessa della necessaria offensività del fatto, giunge al seguente esito interpretativo: ai fini dell’accertamento dell’offensività della condotta non può ritenersi sufficiente la verifica circa la conformità della pianta al tipo botanico vietato, dovendosi, invece, accertare in concreto l’effettiva capacità delle piante coltivate a produrre un effetto drogante. Sulla base di tale premessa, si arriva a sostenere che l’offensività in concreto della condotta deve essere intesa, oltre che come effettiva capacità della sostanza a produrre un effetto drogante, anche come concreto pericolo di aumento di disponibilità dello stupefacente, o di diffusione dello stesso sul territorio. Nelle pronunce in cui si è aderito a tale orientamento ermeneutico si è coerentemente ritenuto che l’inoffensività in concreto ricorra quando la condotta sia così trascurabile «da rendere sostanzialmente irrilevante l’aumento di disponibilità della droga e non prospettabile alcun pericolo di ulteriore diffusione di essa». Ciò porta a ritenere insufficiente, per considerare concretamente offensiva una condotta di coltivazione, la valutazione del solo dato quantitativo di principio attivo ricavabile dalle singole piante, dovendosi invece accertare «l’estensione e il livello di strutturazione della coltivazione», in modo da apprezzare in concreto se da essa possa derivare o meno una produzione potenzialmente idonea ad incrementare il mercato. Ne discende che il mero raggiungimento di una soglia drogante non è, di per sé, sufficiente a considerare offensiva una condotta di coltivazione di sostanze stupefacenti.
La sentenza in commento, nell’aderire a tale orientamento interpretativo in punto «offensività della condotta», ha ritenuto quest’ultimo maggiormente coerente con le linee tracciate dalla Corte costituzionale [6] che, in diverse pronunce, ha rimarcato la necessità di mantenere distinti il piano della tipizzazione legale della condotta di coltivazione dal piano della concreta valutazione giudiziale; i giudici di legittimità hanno, pertanto, concluso osservando che laddove la condotta tipica di coltivazione di una pianta conforme al tipo botanico abbia raggiunto la soglia drogante, ai fini dell’accertamento dell’offensività dell’azione risulta, comunque, necessario valutare se sia stato messo effettivamente in pericolo il bene giuridico protetto: nel caso in cui sia accertato che la condotta tipica di coltivazione sia del tutto inidonea a determinare la possibile diffusione della sostanza producibile, in regione del conclamato uso esclusivamente personale e della minima entità della coltivazione, non potrà che concludersi per la completa inoffensività della condotta.
Muovendo da tali considerazioni, nella sentenza che si annota i giudici hanno accolto il motivo addotto dall’imputato: dal momento che, nel caso di specie, le risultanze istruttorie avevano portato la Corte territoriale ad accertare che l’attività di coltivazione portata avanti dall’imputato era pacificamente diretta al consumo personale, doveva concludersi che tale condotta non fosse in grado, in concreto, di recare alcuna lesione della salute pubblica (il concetto di «salute pubblica», come già argomentato dalla Corte costituzionale nella pronuncia sopra citata, deve essere inteso come «la risultante della sommatoria della salute dei singoli individui»), la quale non avrebbe potuto essere concretamente vulnerata da una coltivazione di sostanza stupefacente finalizzata al consumo esclusivo di una sola persona. La Corte ha, altresì, specificato che, in una simile condotta di coltivazione di poche piante destinate ad un uso personale, non poteva essere ravvisata una qualche idoneità a favorire la circolazione della droga e di alimentare il mercato.
[1] C.A. Zaina, La nuova disciplina penale delle sostanze stupefacenti, Bologna, 2006. Amato, Giur. Merito, fasc. 7-8, 2008, pa. 1811 B.
[2] Cfr. Cass. Sez. 4 n. 25674 del 17 febbraio 2011, che ha espressamente sancito che la condotta inoffensiva impedisce, ai sensi dell’art. 49 cp l’integrazione del reato di cui all’art. 73, comma 1, dPR 309/90.
[3] Cfr. Cass. Sez. 3, n. 23881 del 23 febbraio 2016 e Sez. 4, n. 44136 del 27 ottobre 2015.
[4] Cfr., ex multis, Cass. Sez. 4, n. 53337 del 23 novembre 2016; Cass. Sez. 6, n. 49476 del 4 dicembre 2015 e Cass. Sez. 6, n. 3037 dell’8 settembre 2015.
[5] Cfr., tra le altre, Cass. Sez. 6 n, 8058 del 17 febbraio 2016; Cass. Sez. 6, n. 2548 del 17 dicembre 2015; Cass. Sez. 6, n. 5254 del 10 novembre 2015.
[6] Vds. la già citata pronuncia 109 del 2016.