Si è svolta dall’11 al 13 aprile, in Danimarca, una Conferenza di Alto livello per l’approvazione della Dichiarazione di Copenaghen da parte degli Stati firmatari della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (presenti le delegazioni di 47 Paesi, tra cui 22 ministri).
La Dichiarazione − che sarà ufficialmente adottata nella sessione di maggio dal Comitato dei Ministri quale organo del Consiglio d’Europa – si colloca nell’ambito del processo di riforma/miglioramento della Corte europea che ha avuto inizio ad Interlaken (nel 2010), ed è proseguito con le Conferenze di Izmir (2011), Brighton (2012) e Bruxelles (2015). Le omonime dichiarazioni hanno riguardato aspetti importanti per il funzionamento della Corte e il perseguimento di obiettivi futuri, in linea con le diverse problematiche di volta in volta emergenti nel sistema Convenzionale (ad esempio, l’ingente arretrato dei ricorsi pendenti) e offerto suggerimenti anche di tipo procedurale (ad esempio, la motivazione delle decisioni di rigetto dei ricorsi individuali). È dunque positivo che esso prosegua al fine di cristallizzare i risultati ottenuti e spingere verso nuovi punti di arrivo.
La presidenza danese del Consiglio d’Europa ha posto fra le priorità del proprio semestre l’esigenza di una rinnovata discussione sull’avvenire della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Il progetto di coinvolgere gli Stati membri in questa nuova riflessione sul sistema Convenzionale era stato lanciato per la prima volta durante un seminario tenutosi a Kokkendal (novembre 2017), tuttavia il vero e proprio lavoro di “elaborazione” del testo presentato dai danesi, ha avuto inizio a febbraio di quest’anno ed è terminato in aprile, all’esito di un intensa attività di negoziato costellata da quattro importanti incontri delle delegazioni degli Stati presso il Consiglio d’Europa, a Strasburgo.
1. Novità e accenti critici
Come un fil rouge che percorre l’intero testo, la dichiarazione pone la necessità di migliorare il dialogo tra gli Stati membri e la Corte − pervenendo ad una più chiara definizione dei rispettivi ruoli − come condizione imprescindibile per garantire l’effettività − nel lungo periodo − del sistema convenzionale.
Molti commentatori hanno visto con scetticismo l’introduzione di meccanismi potenzialmente idonei a esercitare una forma di pressione sull’operato della Corte, benché in nome di un più aperto dialogo. A questo proposito, vale la pena soffermarsi su uno degli aspetti più innovativi della dichiarazione costituito dal richiamo ad un più ampio ricorso all’intervento di terzo, inteso sia come Stato-terzo che come terzo-esponente della società civile (previsto all’art. 34 Conv.).
La Corte e gli Stati membri vengono, infatti, incoraggiati (punti 33-39) rispettivamente a rendere questo strumento più accessibile e conosciuto; a informare la collettività della pendenza di ricorsi su questioni di principio; a sollecitare forme di coordinamento e cooperazione sugli interventi di terzo anche con l’aiuto degli agenti governativi (punto 40). È stata inoltre introdotta la clausola che ne estende il campo applicativo anche a interventi di tipo “adesivo” alla richiesta di rinvio in Grande Camera presentata da un altro Stato – cosa che l’attuale articolo 43 Conv. non contempla –, rimettendo dunque alla Corte il compito di adattare l’attuale disciplina nel senso indicato. Dal testo iniziale è stato rimosso il “dovere” per la Corte di prendere in considerazione l’opinione dei terzi nell’assessment sulla sussistenza dei requisiti per accedere alla Grande Camera, preferendo invece un più generico riferimento all’utilità del sostegno “esterno” per dare risalto al requisito dell’importanza generale della questione (punto 38). Al netto delle critiche sul pericolo di un utilizzo “politico” di questa facoltà, la previsione di un sostegno tecnico da parte di uno Stato terzo, che possa introdurre argomenti diversi a supporto della necessità di rivedere una decisione che riguarda un tema di ampio respiro, appare elemento di buon senso e non in contrasto con la natura dell’istituto.
Peraltro va detto che altre previsioni di forme d’interazione con gli Stati membri sono state eliminate dal testo finale (ad esempio, la discussione e l’adozione da parte degli Stati membri di “testi” su temi di maggior interesse per lo Stato o l’organizzazione di “incontri” con gli Stati membri per discutere con la Corte sui più rilevanti sviluppi della sua giurisprudenza), mentre si è voluto dare rilievo sottolineato al network delle Corti supreme − creato dalla Corte nel 2015 e che vede attualmente la partecipazione di 64 Corti supreme − come strumento di costante crescita del cd. judicial dialogue tra Corte europea e corti nazionali e di rafforzamento della fiducia reciproca [1].
Infine per promuovere anche un dialogo di taglio più “operativo”, è stato espresso favore per forme di consultazione con i co-agenti rappresentanti degli Stati, la Cancelleria della Corte su metodi di lavoro e nuove procedure per trovare soluzioni adeguate a problematiche specifiche dei singoli Stati.
2. Principio di sussidiarietà e margine di apprezzamento
A partire dalla dichiarazione di Bruxelles (La mise en oeuvre de la Convention europèenne des droits de l’homme, notre responsabilitè partagèe. Dean Spielmann, 26-27 marzo 2015), era stato affermato con più forza il concetto di “responsabilità condivisa” tra la Corte e gli Stati della mise en place della Convenzione. Questo aspetto trova pieno avallo e ulteriore sviluppo nel documento di Copenaghen, che da un lato richiama gli Stati ad una piena valorizzazione del ruolo degli Stati membri nella protezione dei diritti fondamentali, dall’altro pone l’accento sull’importanza di una Corte che sappia essere all’altezza della sua “missione” − ovvero garantire attraverso la sua giurisdizione, l’applicazione e la interpretazione della Convenzione, con prevalenza, in caso di contrasto, del suo decisum (art. 32 Conv.) – assicurando qualità e coerenza delle sue pronunce.
Nel solco dell’auspicato incremento delle forme di dialogo, la Dichiarazione dedica un ampio spazio al principio di sussidiarietà e al concetto di shared responsability, partendo dalla constatazione che gli Stati (o almeno la loro maggioranza) abbiano nel corso degli anni migliorato gli standard di protezione dei diritti e delle libertà individuali (punto 8). Il processo di “incorporazione” negli ordinamenti interni dei principi convenzionali ha fatto grandi passi avanti ed essi vengono più comunemente utilizzati nel linguaggio di giuristi e istituzioni. Gli Stati membri rivendicano − con più enfasi che nelle precedenti dichiarazioni − il loro ruolo e le loro “capacità” di esercitare adeguatamente il compito di primi garanti della protezione dei diritti fondamentali.
Sono dunque fissati alcuni punti (26-32) sull’operatività − nell’attuale contesto − del principio di sussidiarietà, inteso come “guida” per la Corte nella sua attività di supervisione (review). In particolare la formulazione finale del n. 28 – elaborato in questi termini dopo varie riscritture dell’iniziale draft – sembra approdare ad una bilanciata visione del rapporto Stati-Corte, evitando il rischio insito «...nel tentativo di introdurre elementi piuttosto diretti a limitare l’indipendenza della Corte e restringerne il campo di azione, come reazione a talune decisioni sgradite» (G. Raimondi, La dichiarazione di Brighton sul futuro della Corte). Sono stati eliminati i riferimenti alle «circostanze nazionali» degli Stati e alle «tradizioni costituzionali» (presenti nell’originario paragrafo 14 del testo) – dietro giusta richiesta di gran parte degli Stati − quali elementi che la Corte avrebbe dovuto considerare e rispettare nel processo di review, tuttavia si sono voluti fissare con più chiarezza i limiti della Court’s supervision soprattutto nei casi dove il margine di apprezzamento gioca un ruolo più incisivo (artt. 8-11 Conv.) e la Corte – su input di uno o più ricorrenti – sia chiamata a «ripetere» interamente il giudizio di bilanciamento svolto a livello interno.
Nel paragrafo c) del punto 28 viene quindi sottolineato che è compito della Corte verificare se le autorità interne abbiano dato prova di avere compiutamente valutato gli interessi confliggenti facendo buon uso del criterio di proporzionalità − che è al centro di ogni giudizio di bilanciamento – e a sostituire il proprio assessment a quello effettuato dalle autorità interne solo in caso sussistano ragioni impellenti che giustifichino il suo intervento («strong reasons for doing so»).
Come giustamente ricordato dal presidente della Corte nel discorso di apertura dell’anno giudiziario (gennaio 2018), il principio di sussidiarietà opera nondimeno anche prima che un caso sia sottoposto all’attenzione della Corte. Agli Stati è infatti richiesto, in ossequio ai loro obblighi convenzionali, di introdurre rimedi – sia preventivi che di tipo compensatorio – i quali devono essere correttamente esperiti da chi assume di essere vittima di una violazione. Tanto più loro si rivelano adeguati e concreti, più raro sarà l’intervento della Corte [2].
Infine il ruolo pregnante degli Stati in un’ottica di responsabilità condivisa, non può non andare di pari passo con la garanzia di soddisfacenti risultati in punto di esecuzione degli arresti della Corte, ciò anche al fine di scoraggiare la presentazione di ricorsi cd. ripetitivi ovvero riguardanti disfunzioni sistemiche identificate dalla Corte ma non prontamente “risolte” dallo Stato condannato. La Dichiarazione dunque, in linea con quelle precedenti, definisce questa una key obligation e afferma l’impegno degli Stati a rendere una «piena, pronta ed efficace» esecuzione alle decisioni adottate dalla Corte (punti 19-25).
3. Riforma e carichi di lavoro
La dichiarazione è stata definita nel corso della Conferenza di aprile, una dichiarazione pratica e dinamica. Sotto il primo profilo perché contiene un esplicito riconoscimento che la Corte possa contare su risorse finanziarie adeguate al suo compito, invitando gli Stati a elargizioni integrative su base volontaria. Dinamica perché – come visto – invita gli Stati a prendere parte più intensamente al sistema della tutela dei diritti umani, in termini pro-attivi e non semplicemente reattivi alle decisioni della Corte (G. Raimondi, “High level Conference” Speech, 11-13 aprile 2018, Copenhagen).
Nella Dichiarazione (punti 42-54) viene riconosciuto il grande lavoro svolto e gli importanti risultati ottenuti dalla Corte dopo Interlaken, soprattutto avuto riguardo all’abbattimento dell’ingente arretrato e ai positivi effetti delle cd. decisioni “pilota”. Tanti però sono ancora i ricorsi pendenti e casi molto delicati non ancora decisi. Peraltro con il meccanismo del rinvio pregiudiziale previsto dal Prot. 16 (non ancora entrato in vigore), l’impegno della Corte almeno inizialmente aumenterà.
Viene pertanto incoraggiata la “sperimentazione“ di nuovi metodi di lavoro per la trattazione dei ricorsi meno complessi e che pongono questioni meno rilevanti, fissando criteri di priorità e accedendo a procedure semplificate, richiamando altresì l’attenzione sulla necessità di portare a termine prima del 2019, con il coinvolgimento del Comitato dei Ministri della Corte e degli Stati, un’analisi sulle prospettive di riduzione dell’arretrato ancora pendente e di trovare soluzioni appropriate per ogni Paese (punto 54). In proposito l’Italia si era fatta portavoce di una proposta – in parte raccolta nella Dichiarazione − di un più moderato ricorso da parte della Corte alla procedura cd. della “giurisprudenza consolidata” [cd. well-established-case law procedure, art. 28, par. 1 b), Conv., introdotto dal Protocollo 14 e disciplinato dalle disposizioni del Regolamento della Corte].
Nella sua forma originaria e di più diffusa applicazione (cd. fast-track version), essa consiste nell’attribuire a un Comitato composto da tre giudici la decisione di casi ritenuti “ripetitivi” (ad esempio, violazioni del principio di durata ragionevole del processo, che sono state oggetto di plurime sentenze anche di GC). Più problematica è parsa l’estensione (dal 2017) della procedura suddetta (decisioni rimesse a un Comitato e non a una Camera) a ricorsi riguardanti casi non già ripetitivi in senso stretto ma semplicemente idonei a essere decisi con l’applicazione di principi stabiliti anche in una sola precedente pronuncia della Corte contro lo Stato, relativa a una vicenda simile (tre se pronunciate nei confronti di Stati diversi da quello raggiunto dalla comunicazione).
Si è infatti sostenuto – unitamente ad altri Paesi come la Slovacchia e il Portogallo – che questa nuova prassi porti ad una contrazione eccessiva del percorso decisionale – che risulta “segnato” anche da un solo precedente – e renda più gravosa la difesa da parte dello Stato, il quale oltre ai profili di merito, dovrà in primo luogo puntare alla dimostrazione che il caso specifico si distacca da quello integrante il «precedente consolidato» individuato nella comunicazione del ricorso e che pertanto deve essere deciso da una Camera.
Nella Dichiarazione si è dunque scelto di eliminare ogni riferimento − ed apprezzamento − verso questa procedura, intesa in senso ampio, per lo smaltimento dell’arretrato, diversamente dalla procedura di comunicazione semplificata “immediata” che invece coinvolge fin dalla comunicazione entrambe le parti in un dialogo più attivo tra loro e con la Corte e che non presenta i limiti descritti.
Il tentativo italiano di far inserire nella Dichiarazione un “invito” per la Corte a motivare i rigetti delle richieste di rinvio in Grande Camera avanzate dagli Stati, non ha invece avuto successo. Vi è stata in buona sostanza una presa d’atto delle “ragioni” della Corte sulla non doverosità di una motivazione stante la natura del relativo procedimento che vede nel collegio investito della decisione solo un organo di filtro, nella assenza di riferimenti normativi in tal senso e nel dover evitare di creare confusione sulla motivazione della decisione contestata [3].
L’efficienza della Corte e il perfezionamento delle sue performance di lavoro resta dunque un passaggio centrale del processo di riforma, rispetto al quale gli Stati hanno ritenuto di intervenire con proposte e velate critiche di alcune delle “soluzioni” individuate dalla Corte. In questa prospettiva di potenziamento del ruolo della Corte ma anche di attesa di risultati qualitativamente elevati, non poteva non attribuirsi un rilievo altrettanto centrale alla selezione dei giudici suoi membri, i quali dovranno essere scelti tra personalità di altissimo profilo professionale. I punti 55-62 si concentrano sul procedimento di selezione dei candidati richiedendo che esso sia in linea con le direttive stilate dal Comitato dei Ministri e dando altresì rilievo al ruolo dell’Advisory Panel − creato dal CM − per fornire pareri qualificati sui candidati indicati dagli Stati.
Nello spirito di massima apertura al confronto con tutte le parti interessate che ha contraddistinto questa Conferenza di Alto livello, è giusto segnalare che le autorità danesi hanno stimolato fin dalle prime battute del processo di negoziato la più ampia partecipazione delle parti interessate e della comunità nazionale e internazionale, sul corretto presupposto che le organizzazioni della società civile giocano un ruolo cruciale nella diffusione dei valori ispirati alla centralità dei diritti umani. Quale positivo riscontro, nel corso della cerimonia di approvazione della Dichiarazione, le associazioni non governative invitate, fra tutte la rete ENNHRI (European Network of National Human Rights Institutions), hanno espresso apprezzamento per il loro coinvolgimento nel dibattito sul futuro del sistema europeo di tutela dei diritti umani questa importante iniziativa e per il documento approvato, auspicando che anche la fase di implementazione della dichiarazione li veda partecipi.
In conclusione, sembra potersi sostenere che il presunto tentativo d’indebolire il ruolo della Corte nel sistema convenzionale sia stato ampiamente smentito. La Dichiarazione si è fatta veicolo di riconferma politica dell’impegno degli Stati verso la Convenzione e di riconoscimento del ruolo essenziale di una Corte efficiente e indipendente nel sistema della protezione dei diritti dell’uomo.
[1] Lo strumento in questione troverà poi una sua “formalizzazione” con l’entrata in vigore del Protocollo 16, avvenuta con il deposito della legge di ratifica della Francia qualche settimana fa (Vds. F. Buffa, Il Protocollo n. 16 addizionale alla Convenzione Edu è pronto per entrare in vigore, in questa Rivista on-line, 2 maggio 2018, http://questionegiustizia.it/articolo/il-protocollo-n-16-addizionale-alla-convenzione-edu-e-pronto-per-entrare-in-vigore_02-05-2018.php).
[2] Su principio di sussidiarietà e responsabilità degli Stati, il caso Burmych c. Ucraina è stato ritenuto per molti aspetti, il leading case dell’anno 2017.
[3] Per una più dettagliata spiegazione, vds. 2016 the Interlaken Process and the Court, disponibile sul sito della Corte Edu, https://www.echr.coe.int/Documents/2016_Interlaken_Process_ENG.pdf.