Una sera di gennaio, a Milano, in un cinema Beltrade affollato come un autobus nelle ore di punta, ho visto il nuovo lungometraggio di Enrico Maisto, La convocazione.
Ho nei confronti di Enrico una sorta di debolezza empatica, dovuta al fatto di aver giocato con lui bambino in una vecchia casa di montagna affittata insieme ai suoi genitori molti anni fa, ma questo non mi impedisce di cercare di essere il più possibile obiettivo nei suoi confronti e nei confronti dei risultati del suo lavoro di regista.
Dopo la prima esperienza di Comandante, film in cui egli affrontava con grande attenzione e curiosità intellettuale gli “anni di piombo” visti attraverso gli occhi del padre e dell’amico di famiglia (il comandante del titolo), Enrico, alla sua seconda esperienza, incontra e fa incontrare agli spettatori le persone chiamate dalla Corte d’assise di appello di Milano per comporre la giuria popolare dei processi che la stessa corte dovrà tenere nei mesi successivi alla convocazione ed alla conseguente nomina.
Che la presidente di questa corte sia la sua mamma (Anna Conforti) è circostanza significativa ma, narrativamente e filmicamente parlando, irrilevante: in questa sua nuova fatica registica Enrico prende le distanze in modo più netto ed inequivocabile dal tessuto familiare che pure lo ha prodotto e coltivato: con uno sguardo lungo e professionalmente consapevole, pur indugiando (come è inevitabile) sulle parole della presidente che spiega ai convocati in cosa consisterà il loro impegno nella corte, sposta ben presto il suo occhio attento sulle parole, sui sussurri, sui non detti, sulle espressioni dei quivis de populo chiamati nell’aula della Corte d’assise di Milano, cogliendone gli aspetti più significativi ed elaborando un tessuto narrativo di grande spessore ed interesse.
Ma il film/documentario di Enrico non è soltanto una buona prova registica ed un interessante documento narrativo: è qualcosa di più importante e significativo.
A me ha ricordato una sorta di “cerimonia” nel senso più nobile e completo che diamo a questa parola.
Enrico passa con assoluta naturalezza dalla narrazione del registro intimo e quotidiano dei convocati a quello solenne del giuramento finale in un crescendo emotivo intenso e tuttavia regolare, scandito da una sorta di orologio interiore con battiti regolari e inevitabili.
È, quello descritto dal film, un concetto di “cerimonia” intesa come percorso simbolico ed etico che consente al quivis de populo di assumere, piano piano, le vesti del sacerdote/giudice e di poter poi officiare l’epifania del processo.
Ma, nello stesso tempo, con una inversione di prospettiva tanto interessante quanto vera, consente all’officiante/giudice di spogliarsi del proprio aspetto simbolico per scendere tra la comunità (ecclesia) dei “credenti/non credenti” e, in qualche modo, di farsi persona tra le persone, attraverso una interazione etica e sociale che permette alla Legge di diventare Giustizia, ed alla Giustizia (intesa come comune verità e buon senso) di assurgere alla forza di Legge.
E così il “comune buon senso” degli aspiranti giudici popolari si converte, lentamente ed inesorabilmente, in dubbio etico; dubbio che diventa, piano piano, il seme della futura possibilità di giudizio, attraverso il rito finale del giuramento.
Insomma, come dice la frase di Piero Calamandrei all’inizio del film, la giustizia, in un certo senso, è come la fede: solo chi ci crede può veramente officiarla.
In tempi così oscuri e difficili, un film che ci ricorda la ragione del nostro impegno e delle nostre fatiche quotidiane.