La più recente legislazione, processuale ed ordinamentale, in materia di gestione ed organizzazione delle indagini, esercizio dell’azione penale, rapporti interni agli uffici della procura della Repubblica, si caratterizza per una spiccata accentuazione dei profili di accentramento dei poteri in capo ai vertici organizzativi, con contestuale attenuazione dell’esercizio del cd. potere diffuso in capo ai singoli sostituti. La direzione intrapresa dal legislatore è, insomma, quella che conduce ad un assetto sempre più marcatamente piramidale dell’organizzazione degli uffici di procura, evocativo di un’ambita strutturazione gerarchica della magistratura inquirente.
Si tratta di una precisa scelta di politica giudiziaria che ha trovato giustificazione genetica in sporadici episodi di cattivo governo dei poteri discrezionali e dei metodi operativi, in occasione di complesse indagini circa perniciosi ed ambigui sistemi di potere politico-economico; ma anche in reiterati eccessi di personalizzazione delle iniziative giudiziarie da parte di sostituti procuratori della Repubblica che assecondavano le mai sopite istanze mediatiche volte ad individuare un “cavaliere bianco” a cui affidare la soluzione dei crescenti problemi sociali, imputati ad oscuri ed indefiniti sistemi di potere criminale, per affrontare i quali il magistrato inquirente finiva per dismettere la toga e “scendere” nell’agone politico-elettorale.
Ne è conseguita la progressiva tracimazione delle mai sopite, nostalgiche politiche giudiziarie, volte a concentrare su pochi soggetti i poteri e le responsabilità derivanti dal governo delle indagini e dall’esercizio dell’azione penale, al dichiarato fine di garantire l’uniformità dei metodi di coordinamento e l’attenuazione di interpretazioni soggettive eterodosse.
La citata tendenza di politica giudiziaria ha trovato ulteriore linfa nella ritenuta necessità − fatta propria anche da autorevoli magistrati − di garantire decisioni prevedibili, insieme a tempi celeri, nella gestione degli affari giudiziari, a tutela degli interessi economici coinvolti.
Insomma, per quanto qui d’interesse, i cardini delle politiche giudiziarie ritenute più coerenti con le esigenze della modernità, sono fondate sull’accentramento dei poteri e delle responsabilità in capo a pochi soggetti, chiamati a garantire ortodossia delle interpretazioni, controlli delle eventuali deviazioni, tempi celeri e predefiniti nella gestione degli affari.
Si tratta di esigenze apprezzabili che, tuttavia, sono rimaste l’unico orizzonte delle politiche giudiziarie nella materia. Queste, infatti, hanno, completamente, rinunciato a contemperarle, con i benefici derivanti dall’esercizio diffuso dei poteri coevi alle iniziative inquirenti e requirenti, dimenticando come proprio questa vivacità interpretativa abbia garantito lo sviluppo e l’adeguamento della giurisprudenza alle nuove sfide della modernità. E tacendo della trasparenza ed autorevolezza che viene dalla gestione condivisa e partecipata − piuttosto che verticisticamente isolata − dei sistemi organizzativi e delle indagini più complesse da parte degli uffici di procura.
Nel costipato orizzonte delineato, si iscrive anche una delle novelle introdotte dalla legge n. 103/2017 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario) che, tra l’altro, ha innovato − all’art. 1, comma 30 − la disciplina prevista dagli artt. 407 (cui ha aggiunto il comma 3-bis) e 412 (mediante la sostituzione del primo periodo del comma 1) cpp, in tema di tempistica determinativa del pubblico ministero, all’esito delle indagini preliminari e di conseguente ricorso del procuratore generale presso la Corte di appello, al potere di avocazione, in funzione di compensazione dell’inerzia del primo.
L’obiettivo dichiarato della norma è stato quello di garantire celerità e speditezza alla fase delle indagini preliminari, sul presupposto – implicito, ma chiaramente desumibile dalla ratio dell’intervento normativo – che questo dipendesse non già da occasionali patologie, oggetto dei poteri-doveri di controllo dei capi dell’ufficio inquirente (e, nei casi più gravi, oggetto di valutazione disciplinare), quanto, piuttosto, da fisiologiche e strutturate modalità operative, imputabili ad oggettiva inerzia dei sostituti procuratori della Repubblica. La soluzione al problema, perciò, è stata individuata:
1) nell’indicazione di rigidi termini, entro i quali il riottoso pubblico ministero deve assumere le sue determinazioni in ordine all’esercizio dell’azione penale;
2) nella rivitalizzazione dell’istituto dell’avocazione e, specificamente, di quella cd. per inerzia, in funzione di controllo compensativo dell’omissione dell’inquirente di prime a cure, a favore di quello di seconde cure.
I profili funzionali svelano la scarsa conoscenza del novellatore in ordine alle dinamiche reali degli uffici, atteso come:
1) per un verso l’inerzia sia raramente colpevole, ma piuttosto dipendente da imponenti carichi di lavoro, al punto che erano stati istituzionalizzati (art. 132-bis disp. att. cpp) i criteri di priorità nello smaltimento, volti a garantirne una modalità di loro evasione trasparente;
2) per altro verso le ridotte dotazioni organiche degli uffici della procura generale non sarebbero in condizione di fronteggiare il superiore carico di lavoro, derivante dall’esercizio automatico dell’avocazione.
Le evidenti incongruenze tra obiettivo efficientista, dichiarato dal novellatore e risultato effettivo conseguibile, sono state immediatamente percepite dalla magistratura di merito che ha guardato con preoccupazione agli effetti della riforma. E tali inquietudini erano rese ancora più vivide da diffusi timori di esercizio dell’azione disciplinare, in conseguenza dell’automatica applicazione dell’avocazione, allo scadere dei termini di legge.
Insieme a queste preoccupazioni, altre ne sorgevano in relazione alla sorte di complesse investigazioni − specie di quelle con pluralità di imputati ed iscrizioni differite nel tempo − in cui nei termini prescritti per la definizione delle indagini le informative (pur relative a fonti probatorie tempestivamente raccolte) non erano state depositate ovvero erano state depositate con un tempistica che non ne consentiva un adeguato studio, entro i termini in cui la novella imponeva l’assunzione delle determinazioni definitorie in capo al pubblico ministero. Si avvertiva, insomma, il rischio che la riforma fosse l’ennesimo stimolo a concentrare l’attenzione inquirente sui fenomeni del cd. diritto penale della marginalità − che consentono, di solito, celeri risultati, sinonimo di apparente efficienza statistica − a discapito di più complesse indagini nei confronti della cd. borghesia criminale.
Sebbene la novella in esame prestasse, oggettivamente, il fianco all’inoculazione di pericolose derive culturali nella magistratura inquirente, con significative distorsioni ordinamentali, la normativa secondaria ha neutralizzato siffatti rischi.
L’impatto della novella sul sistema inquirente, infatti, è stato portato ad oggettiva ragionevolezza dagli interventi dapprima della Procura generale della Corte di cassazione (il cui Procuratore ha stilato e trasmesso, ai procuratori generali presso la Corte d’appello, una nota esplicativa, in ordine ai Criteri orientativi e buone prassi in materia di avocazione), nell’esercizio dei suoi poteri volti a garantire il corretto ed uniforme esercizio dell’azione penale; quindi dalla risoluzione assunta dal Csm sulla materia, nella seduta del 16 maggio 2018, in relazione all’incidenza della novella sulle esigenze di buona organizzazione ed efficienza degli uffici giudiziari, oltre che al fine di integrare tali effetti nel contesto ordinamentale, già delineato dal Consiglio con la recente Circolare sull’organizzazione degli uffici di procura.
I due provvedimenti sono espressione di un’uniforme interpretazione della funzione dell’avocazione per inerzia e dei suoi effetti di sistema, insieme ad un ulteriore, lodevole tratto comune: l’essere stati preceduti da intense interlocuzioni con i dirigenti di numerose procure della Repubblica. Entrambi, perciò, sono ricchi di precisi riferimenti alla situazione concreta degli uffici e sono ispirati alla scrupolosa individuazione di soluzioni ed indicazioni, sostenibili e funzionali rispetto a siffatta realtà.
Si tratta, in sostanza, di un riuscito esperimento (non il solo, peraltro, atteso come in maniera analoga aveva proceduto il Csm, in vista della redazione della citata Circolare sull’organizzazione degli uffici di Procura) di procedura partecipata, a garanzia dell’individuazione collettiva di soluzioni ordinamentali, aventi un forte impatto sull’organizzazione degli uffici giudiziari.
Condivisa e pacifica, in particolare, è la natura facoltativa dell’avocazione per inerzia, introdotta dalla novella del 2017, alla luce di un approccio interpretativo pragmatico e ragionevole, alimentato dall’avvertita preoccupazione di mantenere la funzione dell’istituto nell’ambito di una sinergica collaborazione tra uffici di primo e secondo grado, al fine di contribuire all’attuazione del principio di ragionevole durata dei procedimenti, piuttosto che in funzione gerarchico-sanzionatoria.
È stato, perciò, escluso qualsiasi automatismo applicativo dell’avocazione per inerzia, alla scadenza dei termini di cui all’art. 407, comma 3-bis cpp, offrendosi puntuali indicazioni per l’esercizio di una “discrezionalità selettiva”, capace di discernere ipotesi d’inerzia solo apparente, da quelle caratterizzate, invece, da effettiva inattività.
In particolare, entrambi i provvedimenti hanno cura di mettere in relazione sistematica l’avocazione per inerzia, con l’individuazione dei criteri di priorità nella gestione di carichi di lavoro eccessivi. Ma prendono anche in considerazione una serie d’ipotesi in cui l’inerzia dipende da fattori non imputabili alla tardiva iniziativa del pubblico ministero.
In proposito, la risoluzione del Csm offre un efficace riassunto dei casi in cui il maturare del termine prescritto dall’art. 407 comma 3-bis cpp, non comporta la comunicazione al Procuratore generale, per le finalità avocatorie, descritte all’art. 412 cpp:
«…
1) i procedimenti non indicati dalla legge o da provvedimento organizzativo del procuratore della Repubblica come prioritari;
2) i procedimenti nei quali il pubblico ministero è in attesa dell'esito di indagini tempestivamente delegate alla polizia giudiziaria;
3) i procedimenti nei quali il pubblico ministero è in attesa del deposito da parte della polizia giudiziaria delegata – se del caso opportunamente sollecitata – della informativa finale e riepilogativa delle risultanze complessive delle investigazioni;
4) i procedimenti nei quali il pubblico ministero è in attesa del deposito di consulenza tecnica;
5) i procedimenti nei quali è all'esame del pubblico ministero l'informativa finale e riepilogativa delle risultanze complessive delle investigazioni e/o è in fase di redazione la conseguente richiesta di misura cautelare;
6) i procedimenti in cui sia pendente al gip una richiesta di misura cautelare ovvero un procedimento di incidente probatorio;
7) i procedimenti a citazione diretta per i quali il pubblico ministero sia in attesa della fissazione della data di udienza;
8) i procedimenti per i quali, firmata la richiesta di archiviazione, si è in attesa dell’espletamento delle notifiche alla persona offesa, ovvero per i quali, firmato l’avviso ex art. 415-bis cpp, si è in attesa delle notifiche e del completamento della conseguente procedura prevista dalla legge;
9) i procedimenti per i quali, pur risultando esperibile l’avocazione per uno dei reati o dei soggetti iscritti, risultano iscrizioni successive, di altri reati ovvero di altri soggetti, per i quali i relativi termini non siano ancora scaduti, dovendosi rinviare ogni valutazione al momento della scadenza dei termini di legge per l’ultima delle iscrizioni successivamente effettuate in quel procedimento complesso;
…».
Ma non solo.
La risoluzione del Csm − mostrando un’apprezzabile capacità di comprensione delle dinamiche esogene che spesso stanno alla base della mancata puntuale iniziativa del pubblico ministero − ha cura di precisare come siffatta casistica non può prescindere dal preliminare apprezzamento delle concrete, condizioni di lavoro negli uffici requirenti di primo grado «… in termini di rapporto tra mole di procedimenti in carico, e dei connessi adempimenti, anche di segreteria, e delle risorse disponibili, cioè di un fattore che incide, frustrandole, sulle commendevoli finalità sottese alla riforma, intesa a fronteggiare un fenomeno, quello dell’inerzia procedimentale, che in molti casi non dipende dalla maggiore o minore solerzia del magistrato cui il fascicolo è affidato, quanto, piuttosto, dall’efficienza della struttura che lo supporta…». Inoltre, il Csm auspica, a più riprese, l’adozione, da parte del procuratore della Repubblica, di sistemi sollecitatori, volti a prevenire il configurarsi d’ipotesi di avocazione per inerzia, in una complessiva ottica volta a responsabilizzare il dirigente dell’ufficio di primo grado. In particolare, la risoluzione evidenzia come il ricorrere di un’inerzia, giustificante – nei limiti e termini predetti – un’ipotesi di avocazione, «… chiama in causa il ruolo e le competenze del dirigente dell’ufficio, tenuto a garantire il miglior livello organizzativo complessivo e ad intervenire per elidere o, quantomeno, attenuare le conseguenze di eventuali difficoltà individuali sull’efficienza del servizio, prima ancora che quelle del magistrato assegnatario del fascicolo…».
Insomma, il Consiglio è consapevole nella natura patologica e, perciò, eccezionale d’inerzie imputabili al singolo magistrato e sottolinea la necessità di considerare e valorizzare il rallentamento nell’assunzione di scelte definitorie, nel più ampio complesso della situazione e gestione collettiva dell’ufficio. In tutta evidenzia, il Csm si muove in una prospettiva non già punitiva, ma funzionale ad assicurare una effettiva attuazione della novellata avocazione, attraverso una sua «… utilizzazione sostenibile e trasparente che responsabilizzi tutti gli attori del sistema…».
Di grandissimo rilievo – per il valore di messaggio culturale trasmesso agli inquirenti di merito – è il paragrafo in cui la risoluzione esclude qualunque automatismo «… disciplinare, para-disciplinare o di verifica della modalità di conduzione dell’indagine da parte del magistrato inquirente…», sicché la stessa comunicazione al Csm dell’esercizio del potere di avocazione per inerzia è valorizzata quale «… indice rivelatore di una situazione complessiva dell’ufficio che coinvolge, in prima battuta e secondo quanto sopra tratteggiato, la risposta organizzativa del dirigente…». Ed approfondendo il tema, il Csm non esita ad evidenziare come le esigenze di efficienza e celerità, considerate dal legislatore novellante, devono essere contemperate «… con il mantenimento di una assoluta serenità nell’esercizio della funzione giudiziaria da parte dei magistrati, chiamati nel loro complesso e nelle diverse funzioni… omissis… a fornire una risposta responsabile e professionale per la corretta attuazione del nuovo istituto, da valorizzare per una migliore risposta complessiva alle attese di giustizia dei cittadini e, al tempo stesso, da attuare secondo linee di sostenibilità organizzativa, evitando soluzioni meramente burocratiche e difensive…».
Ma la risoluzione in esame coglie, anche, l’occasione per ribadire taluni essenziali principi regolatori dei rapporti tra gli uffici requirenti di primo e secondo grado.
Per un verso, infatti, si sollecitano i procuratori generali a precisare nei progetti organizzativi degli uffici, criteri oggettivi e predeterminati, funzionali alla selezione dei fascicoli avocabili, per altro verso si fa carico ai procuratori della Repubblica di trasmettere ai primi (ex art. 127 disp. att. cpp) informazioni qualificate (auspicabilmente informatizzate) che consentano un esercizio consapevole ed effettivo del potere di avocazione. Il tutto in funzione di anestetizzare eventuali esercizi burocratici dei rispettivi poteri e compiti, coniugando, invece, la standardizzazione delle procedure, con una saggia flessibilità, funzionale ad alimentare prassi virtuose.
L’esclusione della possibilità di applicare magistrati dell’ufficio di primo grado a quello di secondo grado, in funzione del maggiore carico derivante dall’avocazione, in uno con lo sfavore manifestato in ordine all’applicazione del magistrato titolare del fascicolo rimasto “bloccato”, oltre i termini di cui all’art. 407, comma 3-bis cpp, costituiscono ulteriori indici dell’auspicio consiliare ad un uso parco dell’istituto dell’avocazione. Mentre molto netta ed opportuna è la posizione di sfavore verso l’istituto, assunta in relazione ai procedimenti in materia di criminalità organizzata e terrorismo, laddove si evidenzia come l’avocazione «… introduca un elemento di disequilibrio nel sistema che chiama tutti gli attori alla massima responsabilità…», sicché se ne auspica un’applicazione «… riservata ai casi di inerzia effettiva, soprattutto decisionale e che non richieda ulteriori indagini e non risolvibile attraverso interventi diversi, meno invasivi e fondati sulla cooperazione tra uffici requirenti…».
Ed è proprio la collaborazione ed il proficuo, condiviso e partecipato coordinamento tra le attività degli uffici di primo e secondo grado, la chiave attraverso cui il Csm neutralizza metodi operativi ed interpretazioni normative, volte ad assecondare un utilizzo dell’avocazione che degradi in indebite e pericolose «… intromissioni nelle prerogative dell’ufficio requirente di primo grado o, addirittura, ad inocularvi germi di controllo gerarchico…».
Piuttosto, evidenzia il Consiglio, la novella dell’istituto dell’avocazione per inerzia, costituisce l’occasione per ribadire la necessità di unica sinergica cooperazione, alternativa a letture di tipo gerarchico-sanzionatorio dei rapporti tra uffici di primo e secondo grado. Ne deriva, perciò, la sollecitazione ad istituire i più «… opportuni canali di interlocuzione tra procure della Repubblica e procure generali, finalizzati ad individuare le più efficaci modalità di gestione del ritardo nella definizione del procedimento…».
Con la citata risoluzione, dunque, il Csm non solo resiste − nei limiti dei poteri conferitogli − ai tentativi di accentramento gerarchizzante degli uffici inquirenti, ma escludendo effetti vessatori a carico del singolo magistrato, approfitta dell’interlocuzione istituzionale offerta dalla novella normativa, per ribadire le responsabilità organizzative del dirigente dell’ufficio, da iscriversi in una cornice partecipata della gestione di quest’ultimo, in funzione del più sereno esercizio delle funzioni, a garanzia delle autonomie valutative del singolo sostituto nella delicata fase delle indagini, seppure nella cornice temporale che garantisce tempi ragionevoli alle scelte definitorie del pubblico ministero.
Resta, ora, da verificare attraverso quali modalità i progetti organizzativi dei singoli uffici saranno adeguati alle direttive impartite dalla risoluzione ed occorrerà vigilare, affinché tali progetti non finiscano per scaricare − di fatto − sul singolo magistrato le deficienze organizzative o l’incapacità del dirigente di proporre ed attuare modalità gestionali che tengano conto delle difficoltà contingenti in cui può versare il singolo sostituto. Insomma, l’auspicio è che i cardini ispiratori della risoluzione consiliare: la ricerca di modalità efficienti di collaborazione tra gli uffici; l’approccio pragmatico e ragionevole alla gestione delle crisi di efficienza; l’enfasi verso l’utilizzo di criteri discrezionali flessibili; l’utilizzo del parametro della qualità, anche temporale, del servizio giustizia, inteso quale obiettivo dell’ufficio nel suo complesso, invece che quale parametro di giudizio dal singolo magistrato; non vengano frustrati da provvedimenti organizzativi, animati da approcci grettamente burocratici e difensivi dei dirigenti dell’ufficio.
Ma resta anche la preoccupazione per l’esistenza di una normativa primaria che, insieme ad altre, autorizza interpretazioni e disposizioni diverse da quelle sin qui sintetizzate, in funzione di una più marcata strutturazione piramidale nella magistratura inquirente, con forme di gerarchia-sanzionatoria che ne travolgerebbero la funzione costituzionale, incidendo, significativamente, sulla autonomia del singolo magistrato, intimidito ed isolato. Ed a fronte dei repentini mutamenti nella politica parlamentare e dell’apprezzamento diffuso verso forme di autoritarismo, incarnante la volontà popolare, è necessario vigilare per custodire strutture e modelli ordinamentali ed organizzativi capaci di garantire fondamentali spazi di autonomia ed indipendenza della magistratura inquirente.
Ma è necessario anche che i dirigenti siano stimolati − per come apprezzabilmente fa la risoluzione commentata − a programmare e praticare forme di gestione partecipata e condivisa dell’ufficio, che costituiscono il primo vero presidio a garanzia della capacità del sistema ordinamentale di resistere ad ogni tentazione di gerarchizzazione piramidale della magistratura inquirente.
Prima che normative, infatti, le involuzioni sono culturali. E su questo piano, dirigenti illuminati possono – qui ed oggi – proporre concreti modelli antagonisti a quelli che conducono ad una magistratura inquirente, piegata a logiche gerarchizzanti, enfatizzate da tentazioni carrieristiche. Senza gli antidoti offerti da coraggiose prassi organizzative, questi veleni inoculati nel ventre della magistratura ed alimentati dalle più recenti riforme normative della materia, avranno, invece, il sopravvento.