Nomine e tentazioni conformiste: il difficile ma necessario esercizio della discrezionalità
di Mariarosaria Guglielmi
1. Il “difficile” esercizio della discrezionalità
La vicenda della nomina del Procuratore della Repubblica di Napoli ha alimentato nel dibattito associativo un proficuo confronto sul valore, per la giurisdizione, delle esperienze fuori ruolo e sul rapporto magistratura/politica.
Temi affrontati e discussi anche di recente, in occasione della riforma del Testo Unico, alla ricerca di una sintesi che nel confronto interno alla magistratura è stata realizzata e che deve svolgere, anche in questo caso, il suo ruolo di “orientamento” delle scelte discrezionali del Csm, nonché di verifica della loro coerenza rispetto all’elaborazione politica e culturale raggiunta.
Un ruolo di orientamento ma, ritengo, non “sostitutivo” dell’esercizio della discrezionalità.
La discrezionalità è in sé espressione di complessità, per definizione contraria agli automatismi perché volta a ricercare nelle scelte concrete il dirigente più adatto all’ufficio da ricoprire, in relazione alle sue esigenze specifiche, operando una valutazione comparativa fra tutti gli aspiranti e le rispettive esperienze professionali.
Se la complessità della valutazione è l’essenza della discrezionalità, la riconoscibilità dei criteri che l’hanno orientata e dello sforzo di coerenza rispetto ad essi, compiuto nel percorso valutativo e decisionale sul caso concreto, rappresenta una garanzia del suo corretto esercizio.
A noi spetta valutare la trasparenza delle scelte e la loro riconducibilità al modello culturale di dirigente nel quale ci riconosciamo. E, anche attraverso quel confronto dialettico che si esprime in questa “verifica”, dimostrare consapevolezza di tale complessità come delle sue criticità e cadute, per poter rivendicare credibilmente un sistema di autogoverno che – anche impegnandosi per un corretto esercizio delle prerogative di discrezionalità – vuole e deve assumersi fino in fondo la responsabilità del buon governo degli uffici.
Una responsabilità che, nell’interlocuzione con i consiglieri, se da un lato implica il doveroso riconoscimento della loro “autonomia” nelle scelte, dall’altro richiede un confronto costante con i magistrati sulle linee generali dell’azione consiliare, l’attenzione a rendere conto delle scelte concrete attraverso motivazioni trasparenti e un impegno costante nella comunicazione istituzionale.
Solo se l’azione consiliare resta inserita in questo circuito sarà sempre riconoscibile “la cifra politica” delle singole decisioni, rappresentata dal modello di dirigente che nelle scelte possiamo riconoscere, e sarà garantita la loro trasparenza. E quindi la loro legittimità, anche quando sono espressione di un’ampia discrezionalità. Poiché è la “cifra politica” a renderle “accettabili”, anche quando non condivisibili, e a differenziarle da quelle “arbitrarie”, segnando il confine fra ciò che può rientrare in un uso non corretto della discrezionalità rispetto a una selezione per “accordo” o per “appartenenza”.
Rendere comprensibili le scelte, anche attraverso la comunicazione istituzionale, è un antidoto al rischio di autoreferenzialità, al peso improprio che possono assumere nelle decisioni le aspettative dei singoli e le logiche territoriali e di mera appartenenza; rende leggibile il percorso politico che si compie nell’autogoverno; contrasta il rischio di apparire o di essere subalterni alle maggioranze e agli equilibri interni al Consiglio, rinunciando a compiere e a rivendicare quelle scelte di “testimonianza” sempre necessarie rispetto alle decisioni frutto di accordi contingenti o a favore di professionalità inadeguate; dà conto delle dinamiche interne e consente di affrontare e di ricondurre a sintesi le divisioni e la dialettica sulle decisioni concrete.
2. Il valore della discrezionalità nella valutazione delle esperienze fuori ruolo del magistrato che concorre a un incarico direttivo
Due sono gli aspetti più rilevanti emersi nel recente dibattito associativo sull’esercizio della discrezionalità del Consiglio nella nomina dei dirigenti:
1) la rilevanza delle esperienze fuori ruolo per gli incarichi direttivi;
2) le possibili ricadute, nella percezione esterna, del peso improprio assunto nella decisione da tali esperienze, per la loro natura e per l’assenza di un adeguato periodo di “decantazione” nella giurisdizione.
1) La legge indica le esperienze fuori ruolo tra gli indicatori dell’attitudine direttiva, ma non indica il “peso” che deve essere loro attribuito.
La sede per individuare il peso che nella comparazione possono assumere le esperienze organizzative fuori ruolo è quella della normativa secondaria e della valutazione discrezionale: in questo ambito è possibile graduarlo in ragione della loro rilevanza rispetto all’incarico che si deve conferire, alla complessità, alle caratteristiche e alla natura delle problematiche organizzative con le quali l’aspirante si è confrontato nelle funzioni extragiudiziarie.
L’indicazione – che pure inizialmente era venuta anche dal dibattito interno alla magistratura in occasione della riforma del Testo Unico – di sancire sempre e comunque il carattere subvalente di queste esperienze nella comparazione con quelle maturate nella giurisdizione non solo è incompatibile con il dato normativo primario ma – ritengo – anche contraria all’oggettivo valore che assumono le conoscenze e le competenze acquisite e sperimentate nelle sedi extragiudiziarie dove i magistrati possono contribuire a creare le condizioni per l’efficacia e la qualità della giurisdizione.
Sul piano culturale, è un’indicazione contraria al modello di una magistratura “non separata”, che può mettere in altre istituzioni il suo impegno a servizio dei valori della giurisdizione ed essere in grado di riportare al suo interno una capacità di visione delle complesse dinamiche e problematiche con le quali la giurisdizione deve confrontarsi.
Tenere ferma questa impostazione vuol dire poter distinguere tra fuori ruolo rilevanti sotto il profilo attitudinale per le funzioni direttive, per la natura dell’attività svolta, le conoscenze e le competenze acquisite utili per la giurisdizione e quelli che tali non sono; vuol dire poter differenziare nella valutazione attitudinale le esperienze fuori ruolo che, per la durata dell’incarico (o degli incarichi), portano ad una “carriera parallela” e al distacco anche culturale dalla giurisdizione da quelle che rappresentano una fase di un più ampio percorso professionale che si è articolato nella giurisdizione, percorso che, soprattutto in relazione a questa, può essere apprezzato ai fini dell’incarico nella comparazione.
Significa quindi lasciare aperto tutto lo spazio perché nella comparazione si valuti prevalente un’esperienza giurisdizionale che appare forte e qualificata, come quella di un magistrato che nella giurisdizione ha maturato esperienze anche organizzative o sperimentato positivamente le sue capacità di direzione degli uffici giudiziari. Ma, al tempo stesso, non introdurre una presunzione generale e assoluta di irrilevanza o di subvalenza di esperienze fuori ruolo ritenute significative per la giurisdizione che, viceversa, potrebbero essere valorizzate, sulla base delle concrete esigenze dell’ufficio e dei risultati della specifica comparazione, allo scopo di individuare il dirigente più adatto all’ufficio da conferire.
Una presunzione che confligge peraltro con la positiva esperienza dei tanti dirigenti che hanno saputo mettere a frutto nel loro incarico competenze e conoscenze organizzative e ordinamentali maturate fuori ruolo.
2) Sul secondo aspetto, è necessario evitare semplificazioni, facendosi carico di spiegare, se rilevate, le ragioni di “inopportunità” legate alla provenienza da incarichi fiduciari e il rischio di accreditare la percezione del carattere “premiale” di carriere parallele e della vicinanza agli ambienti politici- istituzionali o di “vantaggi” acquisiti nella partecipazione alle scelte politiche di governo della magistratura.
Il tema è serio, e oggi si presenta problematico sotto vari aspetti.
Dovremmo per questo sentirci stimolati a confrontarci anche su tutte le implicazioni culturali di posizioni di chiusura e dei giudizi di disvalore rispetto all’esperienza politica o “vicina” alla politica, emerse anche nel recente dibattito associativo, che vedono un ineliminabile rischio di “contaminazione” per la giurisdizione o comunque di ricadute sulla sua immagine di imparzialità e di diffidenza verso incarichi di stretta collaborazione istituzionale e fiduciari, a prescindere dal modo concreto in cui sono stati interpretati.
Alcune – riassumibili nell’effetto “rinuncia” agli incarichi ministeriali e alla presenza nei luoghi esterni di primaria importanza per la giurisdizione – meritano a mio avviso un’attenta riflessione. Altre richiedono un più generale e approfondito confronto per acquisire maggiore consapevolezza dei rischi connessi alla sostanziale accettazione solo di forme di vicinanza alla politica apparentemente neutre, e non anche di scelte che passano attraverso percorsi trasparenti.
Ma oggi occorre anche essere particolarmente vigili e critici rispetto alla tentazione di arrivare all’impegno in politica attraverso forme di investitura “diretta”, assumendo di avere una (più) forte “legittimazione” in quanto magistrati e in virtù del consenso che ci viene tributato per il riconosciuto impegno nella giurisdizione: un percorso che non è senza ricadute sulla percezione esterna dell’immagine di imparzialità e, questa volta, per l’intera magistratura.
Ciò premesso, ritengo che la valutazione sui profili di inopportunità nell’assegnazione di un incarico direttivo a chi proviene da incarichi fiduciari – che emergono soprattutto quando l’importanza dell’ufficio comporta una particolare rilevanza esterna del ruolo da ricoprire – è anch’essa una valutazione complessa. È l’espressione di un bilanciamento di esigenze contrapposte, che comunque si ferma alla percezione esterna della sussistenza delle condizioni per una piena legittimazione del dirigente e rimane cosa ben diversa dalla presunzione di una mancanza di indipendenza soggettiva – prerequisito per l’esercizio delle funzioni giurisdizionali – fondata su cadute e carenze riscontrabili in fatti specifici.
Ed è una valutazione che – in assenza di una previsione normativa specifica – resta nell’ambito dell’apprezzamento discrezionale: un ambito difficile, che consente però di dare il giusto rilievo al modo nel quale l’incarico è stato svolto. Anche in positivo. È utile ricordare che abbiamo avuto esempi di magistrati che all’esperienza fuori ruolo hanno rinunciato quando il loro compito sarebbe stato collaborare alla grande riforma ordinamentale voluta dal Ministro Castelli.
Il disegno di legge sui rapporti fra magistrati e politica che vuole introdurre una sorta di presunzione assoluta di inidoneità temporanea a svolgere incarichi direttivi prima di un significativo periodo di decantazione nella giurisdizione, al di là del giudizio sulla soluzione specifica prospettata, traduce indubbiamente un forte senso di sfiducia tanto nell’autogoverno quanto nella politica: l‘autogoverno incapace di fare un buon uso della sua discrezionalità nella scelta del dirigente “migliore”, e sempre eterodiretto verso le scelte più gradite alla politica; la politica ridotta ad esercizio del potere fine a sé stesso, che logora chi non ce l’ha e corrompe chi gli si avvicina.
Se, nella consapevolezza di tutte le criticità legate al fenomeno delle carriere parallele, del rischio di condizionamenti anche occulti e di ricadute sull’immagine di imparzialità, non vogliamo rinunciare all’idea di una politica “alta” e di un autogoverno responsabile ed indipendente, e salvare il senso dell’impegno che anche i magistrati hanno portato nelle esperienze politiche e negli incarichi di collaborazione istituzionale e che hanno restituito alla giurisdizione, dobbiamo riflettere sulle più generali implicazioni culturali che questa impostazione comporta e, soprattutto, sulle ragioni che l’hanno prodotta.
E oggi, rispetto alla soluzione delle problematiche sollevate in questi casi, dobbiamo conservare l’ambizione ad essere capaci nell’autogoverno di decisioni consapevoli e di assumerci la responsabilità di un confronto aperto sulle ragioni delle scelte e sulle loro implicazioni. Dobbiamo quindi esigere che, anche in relazione a questi profili di opportunità, attraverso l’esercizio trasparente della discrezionalità e la possibilità di chiedere conto del modo in cui viene esercitata, l’autogoverno si assuma pienamente la responsabilità della valutazione di tutti gli elementi che concorrono alla individuazione del dirigente più adatto all’ufficio.
3. Considerazioni finali: trasparenza e responsabilità
Ciò che dobbiamo sempre pretendere dal Consiglio non è l’infallibilità ma l’impegno trasparente e riconoscibile per il corretto esercizio della discrezionalità nelle scelte concrete. E una consapevole assunzione di responsabilità rispetto alle conseguenze per gli uffici.
Ciò che dobbiamo pretendere da noi stessi è la capacità di farla valere, senza temere il confronto interno, e il giudizio critico ed autocritico.
Solo questo ci consente di presentarci come i credibili difensori del governo autonomo della magistratura e delle sue prerogative di discrezionalità messe al servizio della giurisdizione.
Trasparenza e responsabilità sono alla base del rapporto fiduciario fra la magistratura e il suo sistema di governo autonomo.
Un rapporto che oggi appare fortemente indebolito e che rischia di interrompersi, aprendo quel pericoloso varco dove si perde il senso di appartenenza di ciascun magistrato all’istituzione consiliare e, con esso, la consapevolezza del suo valore di “istituzione-presidio” per la tutela dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura.
Fuori dal sistema di governo autonomo possiamo trovare solo i “portavoce” degli interessi e delle aspettative di ciascuno, delle rivendicazioni della categoria e delle sue sottocategorie (dirigenti e non, giovani e anziani, magistrati di uffici “superiori” e quelli di più basso grado). E una magistratura non più pienamente consapevole della complessità della giurisdizione ma attraversata da pulsioni contraddittorie, non facilmente governabili, che solo nella dimensione e nel linguaggio della “corporazione” può ritrovare una qualche ragione di coesione.
Riattivare oggi il percorso circolare di fiducia fra la magistratura e il suo sistema di governo autonomo vuol dire affrontare i nodi non più eludibili sulle criticità che caratterizzano l’esercizio della discrezionalità e avviare una riflessione anche sulle diverse opzioni culturali emerse rispetto alla soluzione di problematiche specifiche, evidenziate da ultimo nel dibattito sulla nomina del Procuratore della Repubblica di Napoli.
A cominciare dal rapporto fra magistratura e politica. Un tema che da sempre rappresenta un aspetto qualificante dell’elaborazione di Magistratura democratica e del suo contributo di riflessione e di consapevolezza critica al dibattito pubblico e a quello della magistratura associata.
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La discrezionalità, la rappresentanza, le norme: interrogativi attorno a una proposta radicale
di Riccardo De Vito
1. Come ben osservato dalla Segretaria generale, il dibattito sulla nomina del Procuratore della Repubblica di Napoli ha fatto scaturire la necessità di dare ulteriore linfa al confronto tra posizioni diverse e di mettere a punto una riflessione approfondita e dialettica su alcune criticità non più eludibili dell’esercizio della discrezionalità da parte del Consiglio e, più in generale, sul rapporto fra magistratura e politica.
La nomina in questione ha posto e pone questioni scottanti, tanto più per il nostro gruppo, Magistratura democratica.
Abbiamo sempre difeso – intendiamo continuare a farlo anche con questi approfondimenti – l’intangibilità della discrezionalità del Consiglio superiore, unico baluardo contro pericolosi scivolamenti verso forme di eterodirezione.
Ha fatto bene Mariarosaria Guglielmi a ricordarlo con argomenti non scalfibili. Questa deve essere la nostra linea del Piave.
2. Allo stesso tempo credo che faccia parte integrante della nostra cultura politica la rivendicazione di un agire dei consiglieri ispirato ai principi di rappresentanza, responsabilità, trasparenza. Un agire, pertanto, coerente con le linee programmatiche e con gli indirizzi elaborati nei luoghi collettivi dell’associazionismo e in grado di esplicitare, anche sulla base di quegli orientamenti, le ragioni delle singole scelte, tutte legittimamente oggetto di critica e confronto pubblico.
Rappresentanza a monte, dunque, trasparenza e responsabilità a valle: sono questi gli argini di cui disponiamo per far in modo che la legittima discrezionalità non tracimi e si trasformi in arbitrio.
Il dibattito maturato attorno alla nomina del vertice della Procura partenopea non ha scontato visibili difetti di trasparenza.
È innegabile, viceversa, l’emersione di un problema attinente alla traducibilità dei nostri orientamenti politici in materia di fuori ruolo – la cd. “decantazione” – in azione politica concreta e in assunzione di scelte conformi alla normativa primaria e secondaria in tema di selezione della dirigenza. Dico dei nostri orientamenti politici, dal momento che nella mozione conclusiva dell’ultimo congresso di Magistratura democratica, approvata all’unanimità il 6 novembre 2016, si è affermato che «nella valutazione dell’idoneità ad assumere funzioni dirigenziali, lo svolgimento di attività giudiziaria non può soccombere all’attività extragiudiziaria e, tanto meno, all’attività fuori ruolo», che «il Consiglio superiore deve introdurre precisi parametri di valutazione in tal senso» e che «a tutela dell’immagine di indipendenza della magistratura, chi ha svolto a lungo attività fuori ruolo non deve assumere incarichi dirigenziali se non dopo essere tornato per un congruo periodo a svolgere attività giudiziaria ordinaria».
Ancora di più, l’assemblea di Area − svoltasi a Roma il 26 e il 27 novembre 2016 − si concludeva con una mozione che specificava come «a tutela dell’immagine di indipendenza della magistratura non si debba poter attribuire prevalenza, in sede comparativa, all’esperienza che un magistrato abbia maturato ricoprendo un incarico fuori ruolo di scelta prettamente politica o che faccia apparire l’aspirante vicino alla politica». In casi come questi – continuava la mozione – era necessaria «ai fini di un’idonea valutazione comparativa, un congruo periodo di attività negli Uffici, successivo alla cessazione dell’incarico».
3. Si tratta senza dubbio di passaggi delicati e occorre aver chiaro che sono in gioco opzioni culturali di fondo sul valore delle esperienze dei fuori ruolo e sul tema cruciale dei rapporti tra magistratura e politica.
Proprio nell’ottica di quel dibattito che l’articolo di Mariarosaria Guglielmi intende suscitare, pertanto, credo sia arrivato il momento di interrogarci a fondo sulla possibile introduzione, anche a livello di normazione primaria, di una regola precauzionale volta a evitare il passaggio diretto e senza soluzioni di continuità da ruoli apicali dei ministeri (penso, come nel caso di Napoli, quanto meno ai capi di dipartimento) a ruoli apicali della giurisdizione.
Si tratterebbe, all’evidenza, di una regola idonea ad operare in via astratta e che dovrebbe prescindere da una valutazione in concreto dell’indipendenza del collega fuori ruolo, esattamente come le regole in materia di incompatibilità e di ultradecennalità prescindono dalle responsabilità e dalle condotte di chi versa in situazioni di incompatibilità o di ultradecennalità.
Una tale norma, che a quanto pare non riusciamo a osservare come limite operante a livello di orientamento politico, consentirebbe di evitare che l’operato del dirigente possa essere letto come il frutto e il portato della sua precedente esperienza in un ruolo di particolare vicinanza all’esecutivo. Su questo terreno, non vi è dubbio che il caso di Napoli sia particolarmente indicativo dei potenziali pericoli di una tale lettura e le cronache di questi giorni lo dimostrano.
L’adozione di una norma precauzionale, inoltre, avrebbe un ulteriore effetto positivo, consistente nell’allontanamento del grave rischio di definitiva demonizzazione dei fuori ruolo e nella salvaguardia della feconda esportazione dei principi e delle esperienze della giurisdizione in altri settori dello Stato.
Di una cosa, infatti, credo si possa essere tutti convinti: i rapporti tra magistratura e politica non si possono leggere nella chiave di una caricaturale e svilente contrapposizione tra entità separate.
La Repubblica è una. Lo sosteniamo quando eleviamo l’art. 3 capoverso della Costituzione a faro della nostra attività di giudici e dobbiamo ribadirlo nel rivendicare il valore delle esperienze fuori ruolo presso il ministero – anche in posizione apicale –, il diritto dei magistrati a partecipare al dibattito pubblico e politico, il loro diritto di elettorato passivo.
Sono principi e diritti che tendono all’arricchimento sia della società sia della magistratura, prevenendo il pericolo che quest’ultima diventi, come ha recentemente osservato Sabino Cassese, «ancor più autoreferenziale, parochial (come dicono gli inglesi), corporativa».
Mi rendo conto che l’opzione in favore di una norma di tal genere integri una proposta radicale, ma proverei a tracciarne i potenziali punti di forza anche sotto un altro profilo, che attiene a quella che a molti di noi è apparsa un’incongruenza tra certi irrigidimenti che hanno caratterizzato le posizioni dell’Associazione nazionale magistrati (a trazione Area, per così dire) in tema di rientro in ruolo dei magistrati provenienti da esperienze politiche elettive e la totale obliterazione degli stessi accorgimenti nel momento in cui si discute del rientro da fuori ruolo particolarmente prossimi all’esecutivo e espressione di cooptazione fiduciaria. Ma se tale obliterazione si regge proprio sulla più volte richiamata assenza di una norma primaria, in grado di risolvere a monte e con criteri predeterminati l’esercizio della discrezionalità, allora appare evidente che una proposta di modifica legislativa in tale senso possa recuperare la sua efficacia su un duplice piano: da un lato evitare che una certa nonchalance possa indurre a sottovalutare i pericoli connessi al passaggio da funzioni apicali ministeriali a funzioni apicali giurisdizionali; dall’altro offrire una soluzione che potrebbe consentire di non sacrificare, attraverso divieti assoluti di rientro in ruolo, il diritto costituzionale di elettorato passivo dei magistrati e il valore di certi percorsi politici trasparenti (da magistrato di sorveglianza, il ricordo non può che correre a Elvio Fassone).
4. Non si può negare, come detto, che l’interrogativo sull’adozione di quello che finisce per essere un automatismo ponga la necessità di confrontarsi con alcuni problemi seri, acutamente evidenziati nel dibattito attorno alla nomina in questione.
Il primo, e il più serio, è legato al valore e all’utilità di una norma di bilanciamento adottata una volta per tutte; una norma automatica che, come tale, svuota l’esercizio della discrezionalità comparativa sotto tale aspetto. In altri termini, la domanda alla quale occorre rispondere è: come si concilia una regola precauzionale astratta e automatica con la necessità di individuare di volta in volta il dirigente più adatto, il dirigente migliore? Come evitare il rischio di sacrificare schiene dritte e dirigenti validi che hanno svolto incarichi fuori ruolo ad alto tasso di politicità?
Qui i dubbi si moltiplicano. La risposta, a mio avviso, non può che correre lungo il filo del miglior costituzionalismo: i limiti astratti si scrivono di necessità a monte e servono a prevenire il peggiore dei mondi possibili, quello che andrebbe a premiare la condotta di chi – come è stato osservato nel corso del dibattito – ha dato prova di piegarsi in maniera poco dignitosa alla propaganda governativa. Questo è il vantaggio dei limiti normativi, a fronte del quale si pongono sacrifici, messi in conto e accettati come tali. Sacrifici utili, tuttavia, a sottrarsi al sospetto che il peggiore dei mondi possibili sia solo quello degli altri, di chi collabora con determinati ministri, nell’ambito di determinati governi e inverando modelli di magistrati diversi dal nostro. A evitare l’idea che nelle nostre fila militi sempre un migliore al di sopra di ogni sospetto.
Proprio in quest’ambito di ragionamenti, del resto, non appare inutile sottolineare che nel nostro ordinamento abbiamo già regole di questo tenore. L’art. 35 della legge 195 del 1958 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento del Consiglio superiore della Magistratura) stabilisce che «ai magistrati componenti elettivi del Consiglio superiore non possono essere conferiti gli uffici direttivi di cui all’art. 6, n. 3, della legge 24 maggio 1951, n. 392, salvo che, almeno da un anno, non facciano più parte del Consiglio, o che questo sia venuto a cessare».
Si tratta, anche in questo caso, di norma dettata dal legislatore e che agisce a monte, imponendo che la ricerca del miglior dirigente avvenga al di fuori di un determinato perimetro.
Mi chiedo se l’adozione di un meccanismo simile sia del tutto incongruente rispetto a casi come quello oggetto della decisione sulla Procura di Napoli, sui quali si deposita il peso non soltanto della vicinanza alla politica, ma anche quello di un rapporto più o meno stretto, ma necessariamente continuativo, con il Consiglio superiore e con l’Ufficio di presidenza.
Il modello costituito dall’art. 35, inoltre, consente forse di ragionare su un altro serio argomento avanzato contro la proposta di un meccanismo precauzionale predeterminato; argomento legato all’idea, a volte espressa in termini a dire il vero caricaturali, della quarantena e dell’impossibilità di stabilire a monte quando il periodo di ostativo possa essere reputato congruo.
Se siamo riusciti a fissare un indicatore di ragionevolezza in alcune circostanze, penso che lo stesso risultato si possa raggiungere anche su altri terreni e proprio su questo specifico punto, attinente all’individuazione di possibili parametri oggettivi e qualificati, il dibattito dovrebbe semmai svilupparsi. Niente bandi perenni nei confronti dei fuori ruolo, dunque. E neanche regole demotivanti. L’argomento che un giusto distacco temporale possa demotivare dalla disponibilità a ricoprire incarichi fuori ruolo, poi, potrebbe soltanto indurre a interrogarsi su quali siano le finalità reali di quella disponibilità, più che sull’efficacia deterrente della regola.
5. Ho provato brevemente a esporre i motivi per i quali l’interrogativo sull’adozione di una proposta così radicale andrebbe coltivato, sulla scorta delle irrinunciabili considerazioni contenute nell’articolo di Mariarosaria Guglielmi.
Parlo di interrogativo, perché i dubbi e le domande alle quali ho provato ad abbozzare qualche risposta rimangono tali, ossia dubbi e domande.
Solo un metodo di reale confronto, magari destinato ad essere coronato da un seminario nazionale, può fornire argomenti più solidi e sviscerare l’intera problematica. È nel codice genetico del nostro gruppo, del resto, che pluralismo, partecipazione e discussione costituiscano il metodo migliore per uscire dalle secche delle contrapposizioni dogmatiche.
Su questi temi, tuttavia, e più in genere sul rapporto tra magistratura, politica e democrazia occorre arrivare a proposte razionali, radicali, credibili.
Dobbiamo essere consapevoli che la difesa della discrezionalità e dei principi inerenti a un proficuo rapporto tra magistratura e politica, soprattutto alla luce delle recenti patologie di questo rapporto (il pensiero corre immediatamente alla proroga in servizio del Primo presidente e del Procuratore generale), passa attraverso soluzione che sappiano arginare il populismo, ma anche incanalare il legittimo dissenso in prospettive politiche limpide.
Se non riusciremo in questo obiettivo, prevarranno insostenibili derive volte ad accreditare la magistratura come apparato separato, come unico corpo sano della società, come medicina da somministrare al resto malato della Repubblica.
È una china inaccettabile, che in prospettiva inocula un modello esportabile anche in altri apparati dello Stato e che costituisce un pericolo per l’unità della democrazia repubblicana.
Abbiamo il dovere di arrestare con scelte responsabili queste derive qualunquiste e populiste, le quali, inoltre, quanto più sono gridate e agitate, tanto più rivelano la loro strumentalità a fini elettorali e la loro scarsa propensione a voler davvero cambiare le cose (la fiaba dei carichi esigibili ci sia di insegnamento).
Per questo credo che l’argomentato appello della Segretaria a dare ulteriore corso al dibattito debba essere raccolto e rinforzato.