Magistratura democratica
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Le tutele decrescenti nel primo decreto attuativo del Jobs act

di Attilio Mari
giudice del Tribunale di Roma
Lo schema di decreto licenziato alla vigilia di Natale persegue, pur se con zoppicante modalità di scrittura, il fine evidente di limitare ulteriormente gli spazi interpretativi dei giudici di merito. Senza preoccuparsi di creare delle potenziali rotture nella coerenza del sistema delle tutele e, di conseguenza, con i valori costituzionalmente garantiti
Le tutele decrescenti nel primo decreto attuativo del Jobs act

All’esito della riunione tenutasi nel pomeriggio della vigilia di Natale, il Consiglio dei ministri (con ampio anticipo rispetto al termine semestrale di scadenza delle deleghe) ha licenziato il primo decreto attuativo della legge 10 dicembre 2014, n.183 e, in particolare, quello attuativo dell’art.1, comma 7, lett.c), nel quale si dettano, quali principi e criteri direttivi, la “previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all'anzianità di servizio, escludendo per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l'anzianità di servizio e limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato, nonché prevedendo termini certi per l'impugnazione del licenziamento”.

Deve subito essere evidenziato che il testo ufficiale dello schema di decreto tramesso alle Commissioni parlamentari (per l’espressione del parere previsto dall’art.1, comma 11, della legge di delegazione) differisce in alcuni punti da quello diffuso all’indomani del Consiglio dei ministri (essendo, in particolare, scomparso l’articolo con il quale veniva creata la nuova tipologia del contratto di “ricollocazione”, confluito nel decreto relativo agli ammortizzatori sociali) in conformità a quella che appare ormai una consolidata quanto cattiva prassi di questo Governo.

Nel merito, note più approfondite sulle novità apportate alla disciplina in materia di licenziamenti andranno evidentemente riservate alla deliberazione definitiva del Consiglio dei ministri ma, in questa sede, alcune osservazioni sulla filosofia che percorre il provvedimento possono già essere delineate.

Tralasciando di formulare particolari considerazioni in ordine al punto relativo alla genericità dei criteri e dei principi previsti dalla legge di delegazione e alla loro conformità rispetto al dettato contenuto nell’art.76 della Costituzione (ricordando che, su tale profilo, la Corte costituzionale, pur avendo affermato sin dalla sentenza n. 3 del 1957 la propria competenza a sindacare “la legge delegante [se questa] non contiene, anche in parte”, i requisiti di cui all'articolo 76, ha infatti sempre inteso, di fatto, l'osservanza di questi ultimi da parte della legge di delega come political question, affidata alla libera valutazione delle Camere), la prima osservazione in negativo da proporre riguarda la tecnica di scrittura delle disposizioni.

Colpisce, in particolare, che lo schema di decreto legislativo, nel ridisegnare l’estensione della tutela del lavoratore nel caso di licenziamento illegittimo (anche nella materia dei licenziamenti collettivi, sulla base del generico riferimento alle fattispecie di licenziamento “economico” contenuto nella delega), anziché intervenire sul testo delle fondamentali leggi vigenti in materia - lo Statuto dei lavoratori, la l.15 luglio 1966, n.604,  la l.23 luglio 1991, n.223 - abbia dettato una nuova disciplina (in particolare, nell’art.3 in riferimento ai licenziamenti individuali e nell’art.10 a quelli collettivi) senza accompagnare tali disposizioni con l’utilizzo di alcuna clausola abrogativa espressa.

Appare quindi evidente che, a seguito di tale scelta di redazione (una cui spiegazione può trarsi dalla ristrettezza dei tempi utilizzati per l’attuazione della delega), deriverà la necessità di valutare quali delle disposizioni previgenti debbano considerarsi effettivamente abrogate, sulla base del criterio dell’incompatibilità contenuto nell’art.15 delle preleggi, con conseguente aggravamento del lavoro dell’interprete; non si comprende, in particolare, per quale motivo il legislatore delegato non abbia ritenuto di intervenire sul testo dell’art.18 dello Statuto dei lavoratori, peraltro già fortemente inciso nel 2012 dalla cosiddetta “riforma Fornero” (alla cui tecnica di scrittura, in particolare, il testo degli artt. 2 e 3 sembrano chiaramente richiamarsi) ovvero, in materia di licenziamenti collettivi, mediante abrogazione espressa dell’art.5, comma 3, della l.n.223 del 1991 (la cui materia è integralmente regolamentata dall’art.10 dello schema di decreto).

Entrando più strettamente nel merito della rilettura del sistema delle tutele, va immediatamente notato che, pur in presenza di un principio desumibile dal tenore letterale della delega, lo schema di decreto prevede una ridefinizione dell’apparato normativo in materia di licenziamenti individuali senza però ricorrere, in alcun modo, al criterio dell’anzianità di servizio come parametro per la tipologia della tutela apprestata al lavoratore; anzianità che rileva solo in ordine alla determinazione della misura dell’indennità risarcitoria, secondo un modello comunque già fatto proprio dalla riforma Fornero (e, tra l’altro, in senso potenzialmente peggiorativo, soprattutto per i più giovani).

Esaminando nel dettaglio il testo, l’art.2 dello schema di decreto contiene la disciplina conseguente alla accertata nullità del licenziamento; sul punto, la disposizione contenuta nel comma 1 corrisponde, in modo pressoché del tutto sovrapponibile, al comma 1 dell’art.18 dello Statuto dei lavoratori e stabilisce che, in tutti i casi di nullità prevista dalla legge (tra cui viene espressamente esemplificata, peraltro, solo quella relativa al licenziamento discriminatorio e in cui devono comunque, evidentemente, comprendersi tutte quelle specifiche già richiamate nel vigente testo dello stesso art.18) ovvero nel caso di accertata inefficacia del recesso per difetto di forma scritta, si applichi la tutela reintegratoria, di cui il comma 2 detta il contenuto riproducendo, praticamente senza mutamenti, il testo del comma 2 dell’art.18 dello Statuto dei lavoratori.

In riferimento alla particolare posizione dei dirigenti (non menzionati nelle disposizioni citate) deve ritenersi che la tutela reintegratoria in ipotesi di licenziamento nullo, prevista dall’art.18, comma 1, dello Statuto, continui ad avere applicazione, non potendosi ravvisare alcuna abrogazione per incompatibilità in considerazione dell’espressa limitazione del campo di applicazione del decreto ai soli quadri, impiegati e operai.

Peraltro, il vero punctum dolens dell’innovazione normativa si rinviene nell’art.3 dello schema di decreto che stabilisce tipologia ed estensione della tutela nell’ipotesi di licenziamento disposto per giustificato motivo (soggettivo o oggettivo) ovvero per giusta causa.

Sotto questo profilo, in relazione alla tecnica di redazione adottata nella riforma Fornero, il legislatore delegato inverte – significativamente – il rapporto regola/eccezione tra tutela risarcitoria e tutela reale; infatti, il testo dell’art.18 risultante dalla riforma del 2012, dettava in primis la disciplina prevista in tutti i casi in cui fosse stata accertata la non ricorrenza del motivo addotto dal datore di lavoro (a seguito di riscontrata carenza del motivo soggettivo o della giusta causa, “per insussistenza del fatto contestato” o per la sua accertata punibilità con una sanzione conservativa) e, in seconda istanza, quella prevista “nelle altre ipotesi” di non ricorrenza del motivo stesso, prevedendo in questi casi l’applicazione della tutela meramente risarcitoria e stabilendo altresì l’applicazione di tale secondo modello alla riscontrata mancanza del giustificato motivo oggettivo, fatta salva la sua “manifesta insussistenza” (con attribuzione alla valutazione discrezionale del giudice in ordine alla tipologia di tutela da applicare).

Il decreto delegato, al contrario, stabilisce nel primo comma dell’art.3 che il modello della tutela risarcitoria deve considerarsi quale modulo di natura generale, dettando al comma 2 i soli e specifici casi in cui deve applicarsi la tutela reintegratoria, peraltro in senso ulteriormente (e fortemente) restrittivo rispetto a quelli previsti dalla riforma del 2012.

Difatti, la tutela reale rimane residualmente applicabile alle sole ipotesi di licenziamenti motivati da giustificato motivo soggettivo o da giusta causa e unicamente quando “sia dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore”, con esclusione della possibilità di qualsiasi valutazione inerente la “sproporzione” del recesso.

A tale proposito, è noto il dibattito dottrinale e giurisprudenziale che ha accompagnato la riforma del 2012, in particolare in relazione all’effettiva estensione della nozione di “insussistenza del fatto contestato” (locuzione che tradiva nei redattori della norma qualche evidente ascendenza penalistica) e alla conseguente applicabilità della tutela reintegratoria anche ai casi in cui il fatto, pur se materialmente commesso, non fosse imputabile al lavoratore ovvero mancasse il necessario elemento soggettivo alla sua base.

Peraltro, anche alla luce delle esigenze di un’interpretazione costituzionalmente orientata, era apparso logico (pur nella presenza di interpretazioni di segno diverso) ritenere che la tutela reintegratoria fosse applicabile anche a queste ultime ipotesi e che, di conseguenza, il “fatto contestato” dovesse essere concepito in tutti i suoi elementi costitutivi (soggettivo, oggettivo e nesso causale) e ciò anche alla luce della disposizione che consentiva di disporre la reintegrazione qualora i contratti collettivi o i codici disciplinari prevedessero l’applicabilità di una sanzione conservativa, anche in ipotesi diverse dalla insussistenza del mero fatto materiale.

Ulteriormente, a tale fattispecie era apparsa riconducibile (in virtù del principio di proporzionalità, immanente al sistema) l’ipotesi in cui il fatto, pur se sussistente, non fosse stato ritenuto tale da integrare un adempimento grave o da minare effettivamente la base fiduciaria del rapporto.

Conseguentemente, anche in riferimento ai poteri discrezionali lasciati al giudice in materia di applicazione della tutela reintegratoria nei casi di “manifesta insussistenza” del giustificato motivo oggettivo, la riforma del 2012 lasciava comunque adeguati spazi di interpretazione sistematica (da qualche commentatori qualificati come “autostrade”) atti ad evitare l’applicazione delle disposizioni in senso palesemente contrario al dettato costituzionale.

Il legislatore delegato è quindi pesantemente intervenuto in questo ambito (avendo evidentemente ben presenti le questioni interpretative originate dalla riforma del 2012) stabilendo, come detto, che la tutela reintegratoria possa essere applicata solo nel caso in cui sia “direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore” e rimanendo comunque estranea al thema decidendum ogni valutazione in ordine alla “proporzionalità” del licenziamento.

Di conseguenza, oltre ad apportare – ai fini dell’applicazione della tutela massima - una rilevantissima innovazione al regime dell’onere della prova rispetto a quanto previsto dall’art.5 della l. n.604 del 1966 (onerando quindi il lavoratore di comprovare il fatto negativo, tra l’altro con una locuzione che, attraverso l’avverbio “direttamente”, sembrerebbe addirittura escludere il ricorso alla prova per presunzioni), appare chiara l’intenzione degli autori della norma di limitare la tutela reintegratoria alla sola ipotesi di accertata carenza dell’elemento oggettivo del fatto.

Esemplificando, sembrerebbe quindi che, fatti salvi i casi di insussistenza materiale del fatto, non vi sarebbe la possibilità di dare luogo alla reintegrazione in caso di accertata carenza dell’elemento soggettivo o di fatto commesso in presenza di un errore non determinato neanche da colpa o magari privo di qualsiasi effettiva rilevanza sulla base delle disposizioni contenute nei contratti collettivi o nei codici disciplinari, così come (per effetto dell’esclusione del giudizio di proporzionalità) non vi sarebbe tale possibilità neanche se il fatto sia stato ritenuto di entità talmente lieve da non concretizzare un giustificato motivo soggettivo ovvero da non fare venire meno la base fiduciaria del rapporto.

La lettura complessiva delle disposizioni sembra quindi denotare l’evidente intenzione di limitare l’ambito dei poteri discrezionali del giudice (in evidente considerazione di quella che i critici degli orientamenti giurisprudenziali sviluppatisi dopo la riforma del 2012 avevano definito una linea “continuista” dei giudici di merito), sul postulato in base al quale la tutela risarcitoria costituisce il modello di carattere generale e attraverso un’individuazione delle ipotesi in cui deve comunque farsi ricorso a quella reintegratoria operata mediante l’abbandono di qualsiasi clausola elastica.

L’evidente aspetto problematico è rappresentato dal fatto che la limitazione della tutela reintegratoria alla sola ipotesi di insussistenza del fatto materiale viene a creare un evidente contrasto (alla luce delle prime esemplificazioni di cui sopra) sia con la Carta costituzionale, anche per la previsione di disposizioni che appaiono contrastanti con principi immanenti al sistema privatistico, che con la normativa di origine sovranazionale.

Contrasto che, in assenza di modifiche del testo all’esito dei pareri della Commissioni parlamentari (ma pochi elementi, in considerazione della contingenza politica, autorizzano a prevedere un cambio di prospettiva) spetterà, ancora una volta, ai giudici di merito evidenziare nelle sedi deputate.

26/01/2015
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