Credo che valga la pena di fermarsi per un istante e di rileggere alcuni passaggi del saggio L’Iliade o il poema della forza[1], scritto dalla filosofa francese Simone Weil tra il 1938 e il 1939, quando la Seconda Guerra Mondiale era alle porte.
Le drammatiche notizie e immagini che ci giungono ogni ora dall’Ucraina sotto assedio rendono infatti necessario, oltre all’indispensabile approfondimento dei profili storici, geopolitici e strategici[2], anche un momento di riflessione interiore sulla condizione esistenziale in cui la popolazione civile ucraina è stata improvvisamente gettata.
Un piccolo tempo di sospensione in cui evocare la condizione dell’anima umana dentro a un conflitto armato; perché al momento quella condizione, di reificazione assoluta, costituisce l’unica realtà concreta, della stessa concretezza di cui sono fatti i corpi, la loro fragilità e la loro uccidibilità.
La riflessione weiliana sulla guerra ci immerge senza tempo - ieri come oggi e non ieri e non oggi, sempre - in quella situazione, rimuovendo il filtro degli schermi attraverso i quali la guardiamo e che ci danno l’illusione di essere lontani e ancora al sicuro.
Le parole che seguono sono tratte da diversi passaggi del saggio, nell’edizione italiana, e vogliono invece portarci proprio lì dentro; per farci capire che in fondo siamo già tutti lì; dentro quella forza tremenda, che dalla capacità di uccidere acquisisce anche quella di rendere l’uomo una cosa quando è ancora vivo.
La guerra, come già autorevolmente evidenziato[3], comporta il venir meno della “precondizione assiologica” allo Stato di diritto e ai diritti umani; li rende muti, semplicemente inesistenti.
E nonostante una voce infantile, di bambino, si riaffacci di fronte ai reportage dell’aggressione e non possa fare a meno di chiedere ingenuamente: ma è possibile che si lasci fare?, la nostra constatazione di giuristi non può che essere sì, è possibile; lo Stato di diritto non può nulla per fermarlo, perché è venuta meno la sua condizione di esistenza e di azionabilità; il diritto rappresenta una forza solo in senso convenzionale, non appartiene alla natura, come le distruzioni della materia provocate dalle armi; appartiene al consenso e quindi svanisce in un contesto di guerra. La Rule of law lascia posto alla Law of war, che disciplina la condotta delle parti in guerra, i suoi mezzi e i suoi metodi; tutto concedendo alla forza e decretando invece l’indifferenza temporanea al senso di umanità e ai suoi diritti, che proprio perché inerenti a tale senso definiamo umani.
C’è però una parte dello Stato di diritto che non recede mai, nemmeno quando la guerra lo sospende sottomettendolo alla forza; è una parte che si trasforma, dall’ottica del diritto ‒ che è ontologicamente condizionato e cessa nel momento in cui la sua condizione di esistenza vene meno ‒ passa a quella dell’obbligo, che è invece per natura incondizionato e può esistere in ogni contesto, compreso il contesto di guerra, nel quale anzi si affaccia, schiarendo e lasciando apparire dei brevissimi momenti di grazia in cui torna il ricordo della pace, della famiglia, dei legami e l’anima si riconnette al tempo in cui questi legami verranno ripristinati.
Il nostro obbligo incondizionato è oggi verso la popolazione ucraina che sta subendo l’aggressione; obbligo di far pervenire loro aiuti umanitari ‒ farmaci, beni di prima necessità, denaro ‒ nella misura in cui è possibile per ognuno, individualmente e collettivamente; obbligo di accoglienza e assistenza dei profughi, soprattutto dei più deboli, anziani e bambini; obbligo di protestare contro la guerra e di pretendere, con un’attenzione rigorosa, dai nostri rappresentanti politici europei che agiscano per fermarla e mai per implementarla; e un obbligo di solidarietà e di espressa vicinanza verso i coraggiosi cittadini russi, moltissimi giovani, che sfidano la censura e la repressione del dissenso per manifestare contro la leadership del loro Paese.
L’obbligo incondizionato verso l’altro e il senso di dover proteggere la vulnerabilità umana tengono in vita lo Stato di diritto anche nei momenti in cui questo è sospeso e sottomesso alla forza.
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Passaggi tratti da L’iliade o il poema della forza, di Simone Weil
La forza rende chiunque le è sottomesso pari a una cosa. Esercitata fino in fondo fa dell’uomo una cosa nel senso più letterale del termine, poiché lo rende cadavere. C’era qualcuno e, un istante dopo, non c’è più nessuno.
La forza che uccide è una forma sommaria, grossolana della forza. Com’è più varia nei suoi modi di procedere e molto più sorprendente nei suoi effetti l’altra forza, quella che non uccide, quella che non ucciderà per certo. Sta per uccidere: sicuramente lo farà, o forse sta per farlo, oppure rimane solo sospesa sull’essere che essa in ogni istante può uccidere. Comunque essa muta l’uomo in pietra. Dal potere di trasformare un uomo in cosa, facendolo morire, deriva un altro potere, altrimenti prodigioso: quello di trasformare in cosa un uomo che pur è vivo. Egli è vivo, ha un’anima, tuttavia è una cosa. Un essere ben strano: una cosa che ha un’anima; che strana condizione per l’anima. Chi potrà dire quanto ci metterà ad adattarvisi in ogni istante, a torcersi e ripiegarsi su sé stessa? Essa non è fatta per abitare una cosa; quando vi è obbligata non v’è più nulla in essa che non patisca violenza.
Un uomo disarmato e nudo, minacciato da un’arma, diventa cadavere ancora prima di essere toccato. Terminato il combattimento, lo straniero debole e disarmato che supplica il guerriero non necessariamente è condannato a morte; ma un istante d’impazienza del guerriero può bastare a togliergli la vita. Tale condizione è sufficiente a privare la sua carne della proprietà principale della carne vivente.
La forza posseduta da altri domina l’anima al pari della fame estrema, dal momento in cui si afferma come un potere perpetuo di vita e di morte. Ed è un imperio così freddo, così duro come se fosse esercitato dalla materia inerte. Il più debole, ovunque si trovi, anche nel cuore di una città, è altrettanto solo, se non di più, di chi si trova sperduto in mezzo ad un deserto.
Ancora più dilacerante, tanto il contrasto è doloroso, è l’improvvisa evocazione, subito cancellata, di un altro mondo: il mondo lontano, precario e toccante della pace, della famiglia, quel mondo in cui ogni uomo è ciò che conta di più per quelli che lo circondano.
La forza annienta tanto impietosamente, quanto impietosamente inebria chiunque la possiede o crede di possederla. Nessuno la possiede veramente.
Che tutti siano destinati per nascita a patire violenza, è una verità preclusa alle menti degli uomini dall’imperio delle circostanze. Il forte non è mai forte in assoluto, né il debole è debole in assoluto, l’uno e l’altro però lo ignorano. Non si ritengono della stessa specie: né il debole si vede simile al forte, né viene visto tale. Chi possiede la forza procede in un ambiente privo di resistenze, senza che nulla, nella materia umana che lo circonda, possa suscitare tra l’impulso e l’atto, quel breve intervallo in cui abita il pensiero.
Dove il pensiero non ha posto, nemmeno la giustizia o la prudenza ne hanno. Ecco perché questi uomini armati agiscono con durezza e da folli.
Forti del loro potere, non dubitano mai che le conseguenze dei loro atti li obbligheranno a loro volta a piegarsi.
Infatti non considerano la loro stessa forza una quantità limitata, né i loro rapporti con gli altri un equilibrio tra forze diseguali.
Gli uomini che non impongono ai loro atti quel tempo di sospensione da cui solamente procede il rispetto verso i nostri simili, concludono che il destino ha dato loro ogni licenza e ai loro inferiori nessuna.
Da quel momento vanno al di là della forza di cui dispongono: inevitabilmente eccedono, ignorando che essa è limitata. Vengono allora consegnati senza scampo al caso, le cose non obbediscono più. Talvolta il caso li avvantaggia, talvolta li danneggia; eccoli nudi dinanzi alla sventura, senza l’armatura di potenza che proteggeva la loro anima, senza più nulla ormai che li separi dalle lacrime.
Questo castigo, di un rigore geometrico, che punisce automaticamente l’abuso della forza, fu per eccellenza oggetto di meditazione presso i Greci.
Tale nozione è diventata familiare ovunque sia penetrato l’ellenismo. Forse è questa nozione greca a sussistere, con il nome di kharma, in alcuni paesi orientali impregnati di buddismo; ma l’occidente l’ha smarrita e nessuna delle sue lingue ha una parola per esprimerla; le idee di limite, misura, equilibrio, che dovrebbero determinare il comportamento della vita, hanno solo un uso strumentale nella tecnica.
Un uso moderato della forza, che da solo consentirebbe di sottrarsi a tale meccanismo, richiederebbe una virtù sovrumana, rara quanto una costante dignità nella debolezza. Del resto, neppure la moderazione è esente da rischi; infatti il prestigio, che costituisce per più di tre quarti la forza, è dato innanzi tutto dalla superba indifferenza del forte per i deboli, un’indifferenza così contagiosa che si comunica a quelli che ne sono l’oggetto. Ma di norma non è il pensiero politico a consigliare l’eccesso. La tentazione dell’eccesso è quasi irresistibile.
Alla fine scompare dalla mente l’idea stessa che si possa voler sfuggire all’occupazione toccata in sorte, quella di uccidere e di morire.
[1] Edizione italiana, L’Iliade o il poema della forza, traduzione di Francesca Rubini, a cura di Alessandro Di Grazia, Asterios Editore, Trieste 2012.
[2] Questione Giustizia sta pubblicando una serie di interventi di approfondimento sul conflitto in atto tra i quali si richiama, in particolare, Ucraina, porta d’Europa, di Francesco Florit, già Head of prosecution/judiciary Unit, European Union Advisory Mission in Ukraine, https://www.questionegiustizia.it/articolo/ucraina-porta-d-europa
[3] Cfr. Antonio Ruggeri, La pace come bene assoluto, indisponibile e non bilanciabile, il diritto fondamentale a goderne e il dovere di preservarla ad ogni costo, Consulta online, 27.02.2022, https://www.giurcost.org/editoriali/editoriale27022022.pdf; su questa rivista, v. Enrico Scoditti, L’inverno di Kiev e noi, donne e uomini del diritto, https://www.questionegiustizia.it/articolo/l-inverno-di-kiev-e-noi-donne-e-uomini-del-diritto