Circa tre anni fa Questione giustizia dedicò un obiettivo al delicato quanto affascinante tema del rapporto tra tempo e diritto, intitolandolo “Il diritto di Crono” (n. 1/2017 della Rivista trimestrale) http://questionegiustizia.it/rivista/2017-1.php.
Vi erano ospitate riflessioni su vari aspetti di questo rapporto e su come lo scorrere inesorabile del tempo, modificando continuamente gli uomini e le cose, rimodelli spesso anche le situazioni giuridiche ed i diritti di cui le relazioni umane sono intessuti.
Le vivaci discussioni di questi giorni sulla prescrizione in materia penale mi hanno indotto in tentazione: la tentazione (forse diabolica) di tornare brevemente sul tema del diritto di Crono e di dedicare qualche osservazione – quantunque io non sia certo un cultore del diritto penale (e qui soprattutto sta la diabolicità della tentazione) – per l’appunto alla questione della prescrizione dei reati, che un (relativamente) recente intervento legislativo ha fatto balzare alla ribalta dell’opinione pubblica ponendola al centro di una contesa politica così aspra da far temere persino per la sorte del Governo in carica.
Come è ben noto la legge n. 3 del 2019, in vigore dal 1 gennaio 2020, ha modificato l’art. 159, comma 2, del codice penale, stabilendo che “Il corso della prescrizione rimane altresì sospeso dalla pronunzia della sentenza di primo grado o del decreto di condanna fino alla data di esecutività della sentenza che definisce il giudizio o dell’irrevocabilità del decreto di condanna”. In tal modo l’operatività della prescrizione penale resta limitata al solo giudizio di primo grado, rendendo in pratica il reato imprescrittibile qualora quel giudizio si sia concluso in tempo utile.
Quel che ha spinto a varare una simile norma è la constatazione del gran numero di processi penali conclusi con la declaratoria di prescrizione del reato e la ben comprensibile insoddisfazione generata da tale situazione. Si era già cercato di porvi rimedio con interventi legislativi di poco precedenti, che avevano previsto possibili periodi di sospensione del corso della prescrizione dopo la condanna di primo o secondo grado, ma si è evidentemente ritenuto che il risultato non fosse adeguato e che occorresse una medicina più radicale,
I critici di questa nuova regola hanno obiettato che si verrebbe così a legittimare un processo di durata infinita, non appena varcato il traguardo del primo grado, e che ne risulterebbe perciò violato il principio costituzionale della ragionevole durata del processo.
Credo anche io che sia discutibile la scelta di limitare l’operatività della prescrizione penale al solo primo grado di giudizio, ma per una ragione almeno in parte diversa. La necessità di evitare che i processi abbiano una durata irragionevole è indubbia, ma non mi pare che sia logico trarne argomento in tema di prescrizione, soprattutto se si muove dall’assunto, ormai ben radicato anche nella giurisprudenza costituzionale, secondo cui nel nostro sistema giuridico l’istituto della prescrizione ha natura sostanziale e non processuale, giacché essa opera sul reato estinguendolo dopo il decorso di un determinato lasso di tempo oltre il quale vengono meno le ragioni per punirlo, e non si riduce invece a stabilire una scadenza entro la quale il processo debba esser condotto a termine. Certamente occorre trovare rimedi all’eccessiva durata dei giudizi, non credo che questi possano consistere però nel far cessare i processi a causa della endemica prescrizione dei reati al cui accertamento quei medesimi processi dovrebbero tendere.
Il processo deve esser condotto nel modo più spedito possibile indipendentemente dal fatto che il reato per il quale si procede si prescriva o meno. Ipotizzare che, eliminato il rischio della prescrizione dopo il primo grado, i giudici dei gradi successivi se la prenderanno con comodo, disinteressandosi della durata del giudizio, mi sembra faccia torto alla diligenza ed alla professionalità di quei medesimi giudici. D’altro canto, se può effettivamente accadere che la sopravvenuta prescrizione del reato di fatto abbrevi la durata del giudizio, rendendo superflue attività processuali ormai inutili, non mi sembra che il risultato sia accettabile, quasi che l’obiettivo del processo penale fosse quello di concludersi tempestivamente a prescindere dal modo in cui si conclude. Per non dire, poi, che l’evidenza pratica suggerisce non di rado il contrario: cioè che la prospettiva di conseguire la prescrizione induce spesso l’imputato a proporre impugnazioni destinate unicamente a prolungare i tempi del processo, o più in generale incoraggia atteggiamenti difensivi di tipo ostruzionistico che ne rallentano il corso (si pensi, ad esempio, alla richiesta di rinnovazione di atti istruttori a seguito della modificata composizione del collegio giudicante anche quando nulla ragionevolmente fa supporre che ne possa scaturire una qualche rilevante novità: questione di cui si è occupata di recente anche la Corte costituzionale con la sentenza 29 maggio 2019, n. 132). La malattia dei processi che si protraggono troppo a lungo va certamente curata, ma con altri mezzi.
Messa allora da canto la questione della ragionevole durata del processo, credo convenga anzitutto riflettere sul fatto che la prescrizione opera diversamente in ambito civile ed in ambito penale. Si tratta pur sempre dell’effetto che il trascorrere del tempo produce su una situazione giuridica sino a renderla inoperante. Ma la ragion d’essere appare almeno in parte diversa. Nel diritto civile il fenomeno della prescrizione può giustificarsi da due punti di vista, il primo dei quali è però recessivo rispetto al secondo. Dal punto di vista del debitore la prescrizione risponde all’esigenza di non restare per un tempo infinito sottoposto ad un vincolo che, proprio per la sua durata indeterminata, potrebbe risultare ingiustificato. Sta perciò al debitore farla valere, in via di eccezione, e tuttavia egli non ne ha la padronanza. Il punto di vista dominante è infatti quello del titolare del diritto: è l’inerzia del creditore a giustificare, in ultima analisi, la prescrizione, fondando la presunzione che egli sia disinteressato all’esercizio del suo diritto e creando perciò nella controparte l’aspettativa di non dovere più rispondere della relativa obbligazione. Prova ne sia che, fin quando il diritto non può essere esercitato, il termine di prescrizione non inizia ad operare e, quando esso prende poi a decorrere, è in facoltà del creditore interromperlo con atti che implichino l’intenzione di esercitare il diritto, protraendone così la vigenza nel tempo senza che l’obbligato possa impedirlo. La regola civilistica in base alla quale, in pendenza dell’azione giudiziaria, la prescrizione è sospesa sino alla definizione del giudizio non è che l’ovvio corollario di questa impostazione. Fin quando il creditore mantiene viva la sua iniziativa giudiziaria il tempo non può erodere il suo diritto.
In ambito penale una spiegazione di questo genere non sarebbe invece proponibile. La pretesa punitiva dello Stato non è nella disponibilità di chi è chiamato a farla valere. La Costituzione configura come obbligatorio l’esercizio dell’azione penale, e quindi l’inerzia o il ritardo del pubblico ministero nel perseguire il reo non potrebbe mai assumere il significato di un disinteresse o di un abbandono della pretesa. Il fondamento della prescrizione penale va quindi ricercato altrove, non nell’atteggiamento e nelle scelte unilaterali del titolare della pretesa punitiva, bensì sul versante di colui nei cui confronti l’azione è esercitata, cioè dell’imputato (o prima ancora indagato). Se la sanzione penale deve essere proporzionale alla lesione che il reato ha inferto al tessuto sociale, e se deve avere non solo una valenza deterrente ma soprattutto una funzione rieducativa per il reo, non è indifferente il lasso di tempo che intercorre tra la commissione dell’illecito e la sua punizione. Non lo è dal punto di vista del reintegro del tessuto sociale lacerato dal reato, perché l’evidenza di quella lacerazione naturalmente è destinata a ridursi col passare degli anni e con l’affievolirsi del suo ricordo nella memoria collettiva; e lo è ancor meno dal punto di vista della funzione rieducativa della pena, la quale è diversamente avvertita da chi la subisce a seconda della maggiore o minore immediatezza con cui essa viene comminata rispetto al fatto che ne ha provocato l’applicazione. Il tempo – già lo si è ricordato prima – cambia inesorabilmente gli uomini e le cose, sicché irrogare una pena a distanza di molto tempo dall’illecito che si vuole sanzionare significa applicarla ad una persona assai mutata (ed in un contesto sociale assai diverso). Naturalmente è inevitabile che, in qualche misura, ciò accada, ed è perciò logico che la prescrizione penale sia diversamente calibrata a seconda che il reato sia più o meno grave e, quindi, sia capace di produrre echi e ricadute sociali di minore o maggiore intensità, e postuli una minore o maggiore inclinazione antisociale del reo, sino al punto da rendere imprescrittibili i delitti più efferati. Ma, a parte queste situazioni estreme, resta che la punizione di un reato perde di giustificazione se si dilata oltre una certa misura l’intervallo temporale tra la commissione del reato medesimo e l’irrogazione della pena.
Questa mi pare sia, allora, la vera ragione per dissentire dalla nuova normativa che limita gli effetti della prescrizione al primo grado di giudizio. L’andamento del giudizio e la sua articolazione in gradi diversi risponde ad una sua logica che poco ha a che fare con il fondamento della prescrizione penale. Quel che conta è che la distanza tra la commissione del reato e l’irrogazione della sanzione non apra un abisso temporale ingiustificabile. Che questo si verifichi nell’uno o nell’altro grado del giudizio dovrebbe risultare del tutto indifferente.