Magistratura democratica
Giurisprudenza e documenti

Procreazione e doveri di informazione *

di Leonardo Lenti
già professore ordinario di diritto privato, Università di Torino

Il convenuto per dichiarazione giudiziale di paternità chiede in via riconvenzionale il risarcimento del danno per essere stato privato del rapporto con il figlio: la madre ha il dovere di informarlo, o il padre ha il diritto e l'onere di attivarsi per informarsi?

1. Il caso

La sentenza qui commentata (Cass., sez. III, 5 maggio 2020, n. 8459) accoglie la richiesta di dichiarazione giudiziale di paternità di un figlio ormai adulto – il tempo del suo concepimento è dunque lontano – cui il convenuto si è opposto con decisione, proponendo numerosi argomenti processuali e sostanziali, giustamente non accolti. Dalla scarna narrazione dei fatti risulta che la domanda è stata presentata quando il preteso padre era vicino alla fine, tanto che è morto in corso di causa e questa è stata continuata dall'erede. Fin qui nulla che susciti un particolare interesse. Ma il collegio di difesa del preteso padre, nell'opporsi alla dichiarazione, ha avuto un'idea indubbiamente originale[1]: chiedere in via riconvenzionale il risarcimento del danno per la lesione del diritto fondamentale dell'uomo alla paternità e alla relazione con il figlio. Dato di fatto essenziale, sul quale la richiesta si basa, è che il preteso padre asserisce di non essere stato informato dalla madre e comunque di non aver avuto alcuna notizia della nascita del figlio; questa, dunque, gli sarebbe stata occultata, ma manca ogni prova in proposito. Inoltre l'attore, dopo aver chiesto in primo grado l'ammissione di prove sul fatto che la madre lo aveva informato, vi aveva invece poi rinunciato, con il consenso della difesa del convenuto. Dunque né l'informazione, né la mancanza di informazione risultano provate.

La nota di commento che segue riguarda solo tale questione, oggetto del quinto motivo d'impugnazione, e tralascia le questioni processuali, oggetto dei primi tre motivi; come pure quelle riguardanti la liceità dell'utilizzazione dei vetrini conservati nella struttura ospedaliera ove era stato ricoverato, contenenti materiale organico del convenuto defunto usato per la prova genetica, oggetto del quarto motivo.

La richiesta di risarcimento del danno è «fondata sull'illecito occultamento della esistenza di un figlio, condotta secondo il ricorrente da imputarsi in concorso allo stesso figlio naturale e alla madre e che avrebbe pregiudicato il diritto alla genitorialità del padre naturale impedendogli di instaurare un rapporto educativo e affettivo con la prole» (§ 5 della sentenza). La sentenza impugnata ne ha motivato il rigetto con la mancanza di qualsiasi prova, pur indiziaria, sul fatto che tale supposto occultamento, già di per sé non provato, gli avesse fatto perdere l'occasione di svolgere la funzione paterna; ovvero, in altre parole, che l'uomo avrebbe svolto tale funzione, se solo avesse saputo; vi ha poi aggiunto l'incompatibilità logica tra tale richiesta e la condotta processuale del convenuto, che si è vigorosamente opposto alla dichiarazione giudiziale.

 

2. Il principio di diritto accolto dalla Corte

Nel «procedere alla ricostruzione della struttura della fattispecie» (così al § 5.4) il primo punto che la Corte esamina è se il supposto occultamento leda il diritto all'autodeterminazione, se effettuare o meno il riconoscimento. È noto che questo non è più da tempo, almeno dal 1975, un atto negoziale costituente libera espressione di autonomia privata: ciò perché in tutti i casi in cui è ammesso, anche la dichiarazione giudiziale è ammessa, sicché si può ben dire che il figlio ha diritto alla costituzione del rapporto[2]. Pertanto non aver avuto la possibilità riconoscere, perché lasciato all'oscuro, non lede alcun diritto all'autodeterminazione, proprio perché nel caso di specie tale diritto non sussiste.

Anche la sentenza esclude sia leso il diritto all'autodeterminazione, ma con un argomento diverso: siccome l'obbligo di mantenere il figlio sorge in ogni caso fin dalla sua nascita, il diritto di riconoscerlo non sarebbe altro che «una mera manifestazione formale "confermativa" di una preesistente situazione giuridica da cui deriva il "dovere" di riconoscimento» (§ 5.5). È un argomentare che non coglie nel segno: è proprio questa regola, anzi, a dimostrare che non vi è un legame tra l'obbligo di mantenimento e la costituzione del rapporto giuridico di filiazione mediante il riconoscimento. Com'è noto, e come risulta dall'ampio elenco di giurisprudenza di legittimità contenuto della sentenza (§ 5.5), l'obbligo di mantenimento ne prescinde.

Il secondo punto esaminato è se l'esigenza di sapere della nascita leda il diritto all'identità personale, considerato in sé e per sé, che la sentenza àncora nell'art. 2 e (sic!) nell'art. 30 c. 4° Cost.; e precisamente quell'aspetto che si concreta nel realizzare la propria personalità «anche attraverso la filiazione, sia sotto il profilo della trasmissione del proprio patrimonio genetico, sia sotto l'aspetto maggiormente qualificante più propriamente relazionale» consistente nella «scelta volontariamente assunta» di impegnarsi nell'allevamento di un figlio (§ 5.6).

Quanto al diritto di trasmettere il proprio patrimonio genetico, è chiaro che un linguaggio simile ben si adatta ai casi di lesione della capacità generativa dovuta soprattutto ad atti medici o a incidenti stradali, materia tipica della III sez. della Corte. Ma nel campo endofamiliare, dove non si tratta di difesa contro lesioni provenienti da terzi, non è esattamente così [3]. Già solo l'esistenza dell'art. 9 c. 3° l. 40, che esclude ogni relazione parentale tra il nato e il datore di gameti, imporrebbe un linguaggio quanto meno più sorvegliato.

Quanto poi al diritto «più propriamente relazionale», cioè l'impegno di dedicarsi ad allevare un figlio, troverebbe un limite nel solito passe-partout dell'interesse del minore (art. 250 cc. 3° e 4° c.c.). Se però il figlio è maggiorenne (sic!) occorre il suo assenso al riconoscimento (art. 250 c. 2° c.c.); quest'ultima regola indica una chiara soccombenza del diritto del genitore rispetto al diritto del figlio di non averlo come genitore legale. Dunque quello del genitore è un diritto che incontra limiti e dev'essere bilanciato con altri diritti: tale bilanciamento a volte è fatto direttamente dalla legge, come nel caso del c. 2°, altre volte è demandato dalla prudente valutazione del giudice, come nel caso dei cc. 3° e 4°.

Senza darsi carico di tutto ciò, la Corte prosegue proclamando apoditticamente una sorta di principio di diritto, pur non qualificandolo formalmente come tale: «l'omessa informazione dell'avvenuto concepimento, da parte della donna, consapevole della paternità, pure in assenza di una specifica prescrizione normativa impositiva di tale obbligo di condotta (non rinvenibile nelle norme che legittimano al riconoscimento il padre naturale od in quelle del D.P.R. n. 396 del 2000, che prescrivono l'obbligo di denuncia della nascita), può allora tradursi in una condotta "non jure" – ove non risulti giustificata da un oggettivo apprezzabile interesse del nascituro –, in quanto in astratto suscettibile di determinare un pregiudizio all'interesse del padre naturale ad affermare la propria identità genitoriale, qualificabile come "danno ingiusto", e che viene ad integrare, nel ricorso dell'elemento soggettivo del dolo o della colpa, la fattispecie della responsabilità civile di cui all'art. 2043 c.c.» (§ 5.7). In linea di principio l'omessa informazione sarebbe dunque un illecito civile.

Da quest'asserto, al fine del giudizio conclusivo della controversia, non nasce nulla: con argomentazione perfettamente condivisibile e tutta interna al sistema della responsabilità civile, la Corte nega il risarcimento per la mancanza dell'elemento soggettivo: il convenuto non ha dato la prova di «indizi idonei a consentire il riconoscimento di una effettiva perdita di occasione, non essendo emersi dalla istruttoria elementi tali da presumere la ricerca e l'intenzione del T. di realizzare l'aspirazione alla genitorialità». Aggiunge la constatazione che non ha dato neppure la prova di essersi attivato «per conoscere dal partner le possibili evoluzioni dell'atto sessuale», una condotta che secondo la Corte sarebbe atta a esprimere un effettivo interesse alla propria genitorialità (§ 6). Che la mera ricerca di informazioni manifesti un tale interesse mi sembra un'affermazione un po' ardita, perché per lo più nei fatti esprime molto meno: esprime soltanto il buon gusto dell'uomo di informarsi sulla condizione della donna con la quale ha avuto rapporti intimi e magari il tentativo – non certo raro – di persuaderla a interrompere la gravidanza. 

Comunque sia, peccato che la Corte senta la necessità di rafforzare queste affermazioni richiamando due precedenti della sez. I. Il richiamo è però completamente errato, perché questi non la contengono affatto: in entrambi i casi è pacifico che l'uomo era informato della gravidanza e aveva rifiutato consapevolmente di riconoscere il figlio[4].

 

3. Procreazione, differenze di genere e discriminazioni

La sentenza non si preoccupa di verificare come una proclamazione così assoluta e generale sull'ingiustizia del danno – contenuta nel § 5.7 e riportata sopra – si inserisca nel delicato sistema del diritto familiare[5]: se vi trovi degli ostacoli e in particolare se debba essere bilanciata con altri diritti e interessi, e di quale rango questi siano. Tutto ciò alla Corte non sembra interessare, chiusa nel suo atteggiamento mentale da art. 2043 c.c. e null'altro.

E questi altri diritti e interessi potenzialmente contrapposti ci sono; e sono ben evidenti e importanti. 

È fondamentale ricordare che in questa materia la piena e perfetta eguaglianza di genere non può avere accoglienza, perché nella procreazione le funzioni biologiche dell'uomo e della donna sono diverse per natura. Non è certo una scoperta, ma è importante sottolinearla: i trattamenti differenziati tra uomo e donna in questo campo non possono essere qualificati come discriminazioni, visto che regolano diversamente situazioni che sono, appunto, diverse.

Finché la tecnologia non ci darà l'utero artificiale, il "potere di far nascere" è solo femminile[6]. La legge riconosce questo ovvio dato di natura: infatti nella fase della gestazione e al momento del parto e della prima decisione sul destino del nato dà una configurazione ben diversa per l'uomo e per la donna alle regole che hanno fondamento nel principio della procreazione responsabile.

Quando la gestazione è ancora in corso la donna ha la facoltà di decidere, per propria scelta autonoma, se condurre a termine la gestazione o interromperla, secondo le regole della l. 194/1978 sull’interruzione volontaria della gravidanza. La legge non consente all’uomo di opporsi alla sua decisione, né per impedirle l’interruzione né per imporgliela[7].

Al momento della nascita, la donna ha il destino della posizione giuridica del figlio nelle proprie mani, seppur solo fino al momento della formazione dell'atto di nascita: qualunque donna può dichiarare – con scelta insindacabile – di voler restare anonima, con la conseguenza che si forma l'atto di nascita di figlio d'ignoti. L'eventuale riconoscimento del padre biologico è guardato con estremo sospetto: se sposato, dev'essere comunicato al tribunale per i minorenni, affinché accerti l'effettiva discendenza biologica (art. 74 l. n. 184); dato che il sospetto è quello della compravendita del neonato[8].

Per giustificare entrambe queste disparità, che garantiscono il libero arbitrio della donna, è sufficiente, e decisivo, il fatto naturale che la gravidanza è portata dalla donna, sicché incide soltanto sulla sua vita biologica e sulla sua salute. A ciò si aggiunga che al fondo della scelta del legislatore vi è anche la constatazione che nei fatti, nonostante i proclami di eguaglianza, la cura dei figli incide tuttora molto più a fondo sulla vita della madre che su quella del padre. Inoltre solo per la donna è ipotizzabile un rapporto sessuale atto a procreare imposto con la violenza, cioè del tutto contro la sua volontà.

Va poi anche ricordato che l'astratta possibilità di dichiarare giudizialmente la maternità non ha occasione di concretizzarsi, poiché il neonato figli d'ignoti è dichiarato immediatamente adottabile.

La donna dunque, valendosi di queste facoltà, può evitare le conseguenze procreative del rapporto sessuale: quella arrivare al parto, prima, e quella avere un figlio da allevare, poi.

All'uomo, invece, non è data la possibilità evitare le conseguenze procreative del rapporto sessuale: anche se non effettua il riconoscimento, è comunque soggetto a subire la costituzione del rapporto di filiazione anche la sua volontà, in esito all'eventuale successiva dichiarazione giudiziale di paternità.

Fino alla formazione dell'atto di nascita, dunque, l'uomo è in stato di soggezione rispetto al diritto potestativo della donna di interrompere la gravidanza e di partorire nell'anonimato.

Con la formazione dell'atto di nascita di figlio della donna che lo ha partorito, la situazione si modifica: il diritto del padre diventa configurabile, ma resta comunque soggetto al bilanciamento con altri diritti, di rango fondamentale anch'essi, tra i quali non vi è soltanto il generico passe-partout dell'interesse del minore.

 

4. Dovere della donna di informare o dovere dell'uomo di informarsi?

L'affermazione della Corte secondo la quale che l'omessa informazione dell'avvenuto concepimento da parte della donna, se consapevole della paternità, sarebbe «non iure», non ha alcun appiglio normativo, come riconosce la Corte stessa, che non sia a tal punto generico da apparire una grave forzatura.

Il primo punto essenziale che entra qui in gioco è se una donna abbia la facoltà di scegliere in modo libero e consapevole di avere un figlio esclusivamente proprio, senza doverlo condividere con un padre, salvo quest'ultimo ponga in essere adeguate iniziative che abbiano il fine ultimo di costituire un rapporto, sia giuridico sia di fatto. 

È fuor di dubbio che l'ordinamento italiano ponga un accento sul principio di bigenitorialità molto più forte di altri paesi a noi vicini. Tale principio risulta, oltre che in proclami di principio posti nelle norme di legge, anche in orientamenti giurisprudenziali consolidati. 

Anzitutto la l. 40 non ammette la donna sola alla procreazione medicalmente assistita, diversamente dal resto dei paesi europei a noi culturalmente più vicini, sicché la donna che volesse accedervi dovrebbe andare all'estero; e questa è una delle cause, e non l'ultima, del cd. turismo procreativo, che per la restrittività della l. 40 si è sviluppato negli anni. 

La legge n. 184 accoglie in linea di principio il principio di bigenitorialità. Tuttavia ammette l'adozione piena anche per una persona singola, se corrisponde all'interesse dell'adottando, quando la coppia si separa durante l'affidamento preadottivo (art. 25 c. 5°); e soprattutto ammette l'adozione da parte di una persona singola nei casi di cui all'art. 44. c. 1° lett. a, c e d, l'ultimo dei quali è sempre più frequentemente ricorrente, al punto che il suo impiego effettivo rende ormai irrealistica la qualifica legislativa di "caso particolare".

La giurisprudenza sul riconoscimento tardivo indica da oltre due decenni un massiccio favore per la sua ammissione comunque sia, postulando che per il figlio sia pressoché sempre meglio avere due genitori legali invece che uno solo. Ciò senza curarsi in modo serio ed effettivo dell'impatto che nei singoli casi concreti il riconoscimento tardivo può avere sulla vita del figlio, dunque senza gran che curarsi di identificare e proteggere l'interesse del minore nella specificità del caso concreto, e non già solo in astratto[9]

Un fattore sicuramente importante a fondamento di questa giurisprudenza si trova nell'orientamento della Corte europea dei diritti dell'uomo: questa valorizza con forza e ribadisce con costanza il diritto del genitore – avente rango di diritto fondamentale della persona – alla costituzione del rapporto, oltre che alla sua conservazione: il puerocentrismo declamato continuamente dalla Corte a mio avviso è sempre meno corrispondente al suo effettivo operato, man mano che la sua giurisprudenza si evolve. Da questa emerge infatti una differenza di attenzione tutt'altro che marginale: l'interesse del minore è per lo più trattato in modo molto astratto e stereotipato (proprio ciò che la Corte rimprovera a tante sentenze italiane!), mentre l'interesse del genitore è trattato in modo approfondito e concreto, con molta attenzione alle peculiarità del singolo caso, e non in via astratta e generale[10]. Altrettanta attenzione alle peculiarità del singolo caso si ha quando il minore ha raggiunto la capacità di discernimento ed esprime la propria opinione con sufficiente consapevolezza: la Corte afferma con costanza che se ne deve tenere il massimo conto, fino quasi ad attribuirle un peso decisivo.

Il principio di bigenitorialità non è dunque esclusivo: anch'esso è soggetto a bilanciamento.

Gli indici normativi e giurisprudenziali accennati mi sembrano, anche per questo, largamente insufficienti per dedurne un dovere della donna di informare il supposto padre della gravidanza e della nascita; dovere per di più sanzionato come fatto illecito di cui all'art. 2043.

È indubbio che il supposto padre ha il diritto di porre in essere ogni iniziativa opportuna per giungere all'eventuale costituzione del rapporto, giuridico e fattuale. Tale diritto al contempo è anche, e soprattutto, un onere: ha l'onere di attivarsi per sapere delle eventuali conseguenze del rapporto sessuale avuto; e deve fornire la prova di essersi attivato. Ma non solo: occorre anche che l'iniziativa di informarsi abbia il fine di giungere a costituire il rapporto giuridico e fattuale con il figlio, e non semplicemente quello di sapere dell'eventuale esito procreativo del rapporto sessuale avuto; e deve fornirne la prova. È infatti notorio – come accennato sopra – che molto spesso la ricerca dell'informazione ha un fine ben diverso: tentar di convincere la donna a interrompere la gravidanza.

In sintesi: la donna non può impedire in modo deliberatamente preordinato la relazione del figlio con il supposto padre, qualora questo si adoperi per darle una veste giuridica e fattuale, in applicazione delle regole dell'art. 250 cc. 2°, 3° e 4°.

Ma dinanzi all'inerzia del supposto padre, al suo disinteresse, mi sembra ragionevole che a nulla la donna sia tenuta.

Ed è poi questa, a ben vedere il risultato finale cui giunge la sentenza in esame, nonostante la scivolone – così mi sembra si possa dire – di quella sorta di principio di diritto riportato sopra, che si legge nel § 5.7 della sentenza.

Ancora qualche osservazione prima di chiudere.

La prima è solo una puntualizzazione che non riguarda specificamente la sentenza in esame: è indubbio che un figlio ormai adulto da tempo, come nel caso di specie, abbia il diritto di ottenere la dichiarazione giudiziale. Ma non sempre ha anche il diritto di ottenere il risarcimento del danno per le occasioni perdute, dovute al fatto di essere cresciuto senza un padre[11]: a tal fine occorre infatti che dimostri l'illiceità della condotta del padre, elemento indispensabile della quale è che questi avesse avuto notizia della nascita, ma ciononostante si fosse disinteressato del figlio.

La seconda: valutare il comportamento processuale del convenuto come indice di indisponibilità a costituire un effettivo rapporto familiare con il figlio credo non colga nel segno, anche se ha poco rilievo perché non sembra costituire una vera e propria ratio decidendi. A mio avviso, infatti, le due situazioni seguenti sono del tutto diverse: da un lato quella di chi è posto dinanzi al dilemma se svolgere o meno la funzione paterna al momento della nascita e dei primi tempi di vita del figlio, quando vi è davvero lo spazio per costruire una relazione affettiva familiare; dall'altro lato quella di chi manifesta, opponendosi alla dichiarazione giudiziale, di non essere disponibile costruire un rapporto fattuale con un figlio ormai da tempo adulto, che riporta l'attenzione su una vicenda accaduta decenni prima e che di solito non ha altro motivo se non un interesse puramente economico, come sembra sia nella vicenda decisa dalla sentenza in esame.


[1] Ha scritto così una nuova pagina nel gustoso elenco delle tecniche, processuali o sostanziali, adottate dai presunti padri per contrastare la dichiarazione giudiziale. La più surreale resta comunque l'asserzione del convenuto secondo la quale averlo per padre è contrario all'interesse del figlio, un frutto perverso – e neppure il principale – di Corte cost. 20 luglio 1990, n. 341, che aveva imposto di valutare se ammettere l'azione fosse conforme all'interesse del minore; e ora, caduto l'art. 274 c.c. grazie a Corte cost. 10 febbraio 2006, n. 50, se dichiarare la paternità sia conforme all'interesse del minore. Per un'analisi critica (controcorrente) di Corte cost. 341/1990 rinvio a L. Lenti, La filiazione: novità, questioni aperte, principi, in Trattato di diritto di famiglia. Le riforme 2012-2018, diretto da P. Zatti, vol. II, La filiazione, a cura di L. Lenti e M. Mantovani, Giuffrè Francis Levebvre, Milano, 2019, 23 ss.

[2] La dichiarazione giudiziale, in mancanza di riconoscimento, presenta una somiglianza funzionale con due azioni in giudizio, quella per l'esecuzione in forma specifica del contratto preliminare inadempiuto (art. 2932 c.c.) e quella per la costituzione della servitù coattiva, in mancanza di accordo (art. 1032 c.c.).

[3] La Corte, al § 5.5 afferma invece che questo non sarebbe un illecito endofamiliare, visto che qui si è «in difetto di costituzione di un nucleo familiare e di convivenza tra i genitori naturali». L'affermazione – pur irrilevante ai fini della decisione – è palesemente erronea. È ovvio il rapporto tra genitore e figlio è sempre e comunque un rapporto familiare: basti pensare al figlio ormai adulto che, com'è naturale, non convive più con i genitori. La giurisprudenza della Corte di Strasburgo lo ha più volte chiarito, come pure la Corte di cassazione a proposito del risarcimento del danno non patrimoniale ai familiari del danneggiato diretto: la convivenza è un fattore certamente importante, ma non è strettamente indispensabile, affinché si abbia una famiglia, tanto più se si tratta della relazione tra genitore e figlio e non di quella di coppia.

[4] Le sentenze erroneamente citate sono Cass., 10 aprile 2012, n. 5652, e Cass., 22 novembre 2013, n. 26205.

[5] Raccomando in proposito la lettura del bel volume di C. Favilli, La responsabilità adeguata alla famiglia, Giappichelli, Torino, 2015.

[6] La locuzione è ispirata al lapidario titolo del volume dedicato alla procreazione assistita, con sguardo dichiaratamente femminista, di C. Shalev, Birth power, che purtroppo nella traduzione italiana ha ricevuto il titolo, anonimo e burocratico, di Nascere per contratto, Giuffrè, Milano, 1992.

[7] Corte cost. 31 marzo 1988, n. 389, ha giudicato che tale esclusione sia una scelta la quale, non apparendo irragionevole, è sottratta al suo sindacato ed è di competenza esclusiva del legislatore.

[8] Limitare la comunicazione al caso della persona sposata, ragionevole qualche decennio fa, mi sembra sia ormai inadeguato.

[9] La giurisprudenza più attenta a scendere nella specificità del caso concreto per valutare l'effettivo interesse di quel determinato minore, e non di un minore astratto, ha vissuto solo una breve stagione, tra gli anni '80 e '90 secolo scorso: vd. Cass., 13 novembre 1986, n. 6649, seguita poi da poche pronunce conformi (Cass., 24 gennaio 1991, n. 687, Cass., 21 agosto 1993, n. 8861).

[10] Segnalo due sentenze che più di altre, a mio modo di vedere, declamano retoricamente la solita priorità dell'interesse del minore, ma vanno con passo deciso in direzione esattamente opposta: Schneider c. Germania, 2011, e Strand Lobben c. Norvegia, 2019 (Grande Camera). Sull'attenzione della Corte ai diritti dei genitori, che sempre più va emergendo nelle sue sentenze, rinvio a L. Lenti, L'interesse del minore nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo: espansione e trasformismo, in Nuova giur. civ. comm., 2016, 148.

[11] La giurisprudenza è ormai costante, a partire da Cass., 7 giugno 2000, n. 7713.

[*]

La chiusura della biblioteca del Dipartimento di giurisprudenza dell'Università di Torino – dovuta al Covid-19 – mi impedisce di fornire un apparato bibliografico più adeguato: me ne scuso con i lettori.

22/07/2020
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