Il libro di Aniello Nappi sulla sua esperienza di togato eletto al Csm (2010-2014) è di quelli difficili da classificare. Apparso nel dicembre 2014 (Aracne editrice), non sembra aver avuto, almeno sinora, un riscontro adeguato[1]. La ragione è forse nel sottotitolo («idee eretiche», che per definizione isolano l’autore senza porlo al centro d’una discussione) o forse proprio nell’argomento in sé: che scuote le coscienze di noi giuristi (e non solo) dinanzi al baratro di doversi dichiarare pro o contra un’istituzione che, lo si ammetta o no, rappresenta un idolum.
Ennio Flaiano gli avrebbe certamente imposto il titolo Un marziano al Csm, ricordando scanzonatamente che nella nostra cultura, in cui anche i magistrati sono immersi, Calamandrei e Carnelutti inevitabilmente convivono con Totò e Peppino: soltanto la tragedia che evolve in farsa può spiegare gli episodi del procuratore all’extravergine[2] o del presidente “falsario”[3]. E che entrambi i magistrati non abbiano ricevuto le meritate sanzioni disciplinari (il primo per riconosciuta inidoneità del tentativo di corruzione, il secondo neppure incolpato) dice tutto sul sistema che tende a colpire i più giovani, i non schierati (una volta si sarebbe detto “i qualunquisti”), coloro che non hanno ancora tessuto quella fitta trama di amicizie e protezioni – dentro e fuori della magistratura – che sola consente di vivere tranquilli, nonostante il Csm. Ma non è questa una caratteristica esclusiva del Csm: anche nelle professioni, il controllo disciplinare è spesso ispirato alla logica del rispetto e del dispetto.
Sappiamo bene che l’istituzione non va confusa con le persone che, nel tempo, sono chiamate a incarnarla; spesso (sempre più spesso) in modo inadeguato[4]. È bene quindi non perdersi nei rivoli, a volte irresistibilmente grotteschi, delle vicende individuali rappresentate nell’inestinguibile teatro del Csm; ma, per la stessa ragione, non possiamo condividere l’idea (ingiusta e frettolosa) del prefatore Luciano Violante, secondo cui il problema dell’istituzione si identifica in quello dei magistrati segretari, «piccole catene clientelari che rafforzano il consenso elettorale». Non saranno certo una ventina di magistrati-mandarini, fedeli custodi e interpreti degli interna corporis, a far colare a picco l’istituzione sana: essi, semmai, ne sono al pari di altri vittima, sia pure del genere che tende a diventare carnefice del suo stesso simile. Del resto, quante carriere politiche sono nate nei corridoi, peraltro angusti, del Csm? Quanti magistrati hanno abbandonato la maschera del “tecnico” a Palazzo dei Marescialli e, magari senza rinunciare alla toga (e alle valutazioni di professionalità… senza funzioni!), hanno preferito la carriera politica, che dietro quella maschera si nascondeva?
Non è colpa dei magistrati segretari, che pure sono spesso la degenerazione dei magistrati-politici, se il Csm è il luogo ambiguo in cui la politica (spesso, la brutta politica) si mischia con l’istituzione “tecnica”. E il fatto che l’istituzione a ciò solo dedicata non abbia ancora trovato la forza di regolare i passaggi verso e dalla politica non può certo essere ascritto a suo merito.
Il libro di Nappi ci ricorda che il Csm è nato, dopo la tragedia del fascismo, per garantire l’autonomia e l’indipendenza della magistratura e dei singoli magistrati. Questi (ma anche altri pubblici funzionari vennero duramente colpiti dal regime) dovevano essere difesi principalmente dall’esecutivo, e quindi dalla politica; ciononostante, il Csm è nato quale organo dichiaratamente politico fin dalla sua composizione e lo stesso Nappi ripete più volte che il vice-presidente deve essere un politico di professione (con ogni implicazione possibile). Senonché, l’esperienza mostra il gigantesco inciucio che ogni quattro anni “istituzionalmente” si materializza allorché il Parlamento viene chiamato a designare i membri laici: perché uno soltanto avrà la caratura del vice-presidente e quell’uno dovrà avere il preventivo gradimento non soltanto dei gruppi parlamentari, ma anche dei gruppi dei magistrati-politici. La magistratura è stata difesa inoculandole il virus della politica, sino a fare del Csm (è la vulgata che ripete anche Violante) un “parlamentino”. Con una fondamentale differenza: mentre gli atti del Parlamento non si impugnano dinanzi al Tar del Lazio, quelli del Csm sì. Immancabilmente. E molto spesso il Tar – un pugno di magistrati che ha in pugno l’istituzione-idolum – annulla, concedendosi anche il lusso di «irridenti riferimenti»[5] perché la vita del Csm, come ricorda Nappi parafrasando il titolo di un celebre film di Bergman, si svolge preferibilmente nel “posto delle deroghe” (cap. I), ove prevale il “potere d’eccezione”[6]. Soltanto i giuristi sanno manipolare, storpiare e violare la legge scritta, e nel caso del Csm la particolarità è che spesso le regole violate (“derogate”, “eccepite”) sono proprio quelle che la stessa istituzione autonomamente si dà, impegnata com’è nella diuturna, incessante produzione di regole e sotto-regole che – ce lo conferma Nappi – costituiscono una prima barriera d’accesso, una selva inestricabile per i nuovi consiglieri i quali di necessità dovranno affidarsi ai prudentes segretari che saranno di conseguente necessità i domini occulti di tante pratiche, decisioni, motivazioni, delibere, raccomandazioni, risoluzioni, linee-guida. Così, ogni Csm nasce sotto il segno e il condizionamento della politica e della magistratura impelagata con la politica (una parte minoritaria e “professionalizzata” dell’ordine giudiziario: tanto da essere non infrequente che i consiglieri togati fruiscano di più mandati!) e la struttura del Csm, come qualsiasi altra struttura burocratica, anzitutto legittima e difende sé stessa.
Nappi osserva giustamente che la giurisdizione civile, con un evidente paradosso, non ha saputo assicurare la ragionevole durata neppure dei processi da irragionevole durata. Questo estremistico rilievo pone il problema delle effettive competenze del Csm, in un sistema che assegna all’istituzione la tutela (anche “burocratica”) dei magistrati e al Ministro della giustizia la responsabilità dei servizi e dei beni strumentali. Settant’anni dopo la Costituzione, ha ancora un senso una protezione della sola magistratura “specie protetta” rispetto a ogni altro “potere” senza implicazioni sull’organizzazione degli uffici e dei servizi e così, in definitiva, sull’esercizio della giurisdizione? Conserva ancora un senso un sistema nel quale – un esempio fra tanti, solo perché sovente se ne deve occupare la suprema Corte[7] – il magistrato “consegna” la sentenza nelle mani del cancelliere ma poi non si preoccupa se essa venga pubblicata e in che termine, o se venga pubblicata più d’una volta: e ciò perché l’uno “dipende” dal Csm (non è proprio così) e l’altro dal Ministero della giustizia, l’uno dipende da un dirigente magistrato e l’altro da un dirigente amministrativo? Quale professionista non risponde in prima persona dell’attività della struttura che lo supporta?
L’idolum, per meritare la venerazione unanime, dev’essere una casa di vetro. Lascia sgomenti ciò che Nappi denunzia circa l’esistenza di un protocollo riservato[8] di cui lui stesso, da consigliere, viene a conoscenza quasi a fine mandato e soltanto perché impegnato in una particolare ricerca documentale. L’istituzione del protocollo risale addirittura al 9 novembre 1981 (trentacinque anni!), ma è nascosta nella selva dei regolamenti, amministrata dalla casta dei segretari-mandarini, e tuttora esso sfugge a qualsiasi regolamentazione e controllo (anche da parte dei consiglieri in carica!). Non nascondo che questa rivelazione è stata, per me, la più impressionante tra le tante vicende interne riferite dall’autore.
Abbiamo detto in apertura che il libro di Nappi è di non facile classificazione. Ma è senz’altro un libro importante, tanto più quanto maggiore sia stato il silenzio che lo ha accompagnato.
Di qui un’ultima riflessione.
Esistono professioni delicate e non facili (diplomatici, prefetti, professori universitari, primari ospedalieri, giornalisti etc.) che non necessitano di un’istituzione di protezione (non se ne discusse neppure nel 1948). È questo un discorso che, per il semplice fatto di venire accennato, oltraggia intollerabilmente il nostro idolum? Molti di certo lo penseranno, ma dovranno al tempo stesso riconoscere che, come ammonisce Nappi, la magistratura ordinaria, ora come ora, dev’essere difesa non dall’esecutivo e in generale dal potere politico, ma semplicemente da sé stessa. Cioè dall’istituzione nata per proteggerla e che rischia invece di trascinarla nel suo proprio fallimento e nella propria completa delegittimazione, anche a fronte della massa degli stessi magistrati.
Nappi non è un distruttore, un alieno, un giapponese che combatte una guerra già finita a sua insaputa: è un magistrato (dal 1972) con un forte senso dell’istituzione e che perciò si preoccupa anche di suggerire rimedi (cap. III, che ancora presenta un titolo tratto dal repertorio cinematografico: Ritorno al futuro). Ma si tratta di rimedi, come quello dei concorsi aperti (chi li gestirà?), concepiti nella logica interna all’istituzione; mentre forse è proprio quella logica che meriterebbe di essere totalmente ripensata. Perché, finito il tempo della protezione dei soli magistrati, che attualmente debbono proteggere loro stessi (non con un apparato dedicato ma) con la professionalità e l’impegno nell’esercizio della giurisdizione, o il Csm si occuperà a tutto tondo di questo esercizio anche regolando i confini con altre istituzioni concorrenti, o non troverà più giustificazione il suo (non) funzionamento. Che peraltro – aspetto che Nappi non accenna, me che ha il suo pacifico rilievo – presenta un costo per la collettività che, in tempi di crisi, rischia di essere presto messo in discussione proprio dalla politica meno compromessa col potere.
[1] Vds. però A. Bevere, Se la lottizzazione diventa magistratura, Il Manifesto, 15 luglio 2015.
[2] A. Nappi, Quattro anni a Palazzo dei Marescialli, Aracne editrice, 2014, p. 81, nota 21.
[3] Quattro anni, cit., pp. 144-146.
[4] Sintomatica la vicenda Brigandì, che conobbe anche un passaggio al Tar Lazio: Quattro anni, cit., pp. 93 ss.
[5] Quattro anni, cit., p. 78; vds. anche pp. 84 ss.
[6] Quattro anni, cit., pp. 63 ss.
[7] Vds., da ultimo e per riferimenti, F. Auletta, La “sciagurata consuetudine di apporre una doppia data in calce alle sentenze civili”: dalle Sezioni Unite cure peggiori del male, in Corr. giur., 2017, pp. 81 ss.
[8] Quattro anni, cit., pp. 161 ss.