1. Nell’aprile dell’anno in corso, esattamente mentre il paese attraversava la fase più dura dell’emergenza sanitaria, ha visto la luce, per i tipi di Cacucci, la terza edizione del volume, a cura di Maria Acierno, Pietro Curzio e Alberto Giusti, dal titolo “La Cassazione civile – Lezioni dei magistrati della Corte suprema italiana”.
La storia di questo libro è riassunta nella presentazione dei tre curatori: si tratta, in origine, della raccolta delle lezioni che vengono impartite ai nuovi giudici di Cassazione dopo l’assunzione delle funzioni. La finalità didattica si è però sviluppata, fino a giungere ad un significativo apporto culturale, che certamente trascende l’obiettivo originario. Il libro, già nelle precedenti edizioni, è divenuto un punto di riferimento per chi voglia studiare la Suprema corte e il suo procedimento. Se posso portare una testimonianza personale, il volume fa da tempo parte della bibliografia essenziale per quanti, fra i miei laureandi, affrontano argomenti collegati alla Cassazione.
La nuova edizione si presenta notevolmente arricchita e schiera, accanto a quelli redatti direttamene dai tre curatori, i contributi dell’attuale Primo presidente, Giovanni Mammone, e – seguendo l’ordine dell’indice – di Renato Rordorf, Raffaele Frasca, Franco De Stefano, Carlo De Chiara, Pasquale D’Ascola, Adriana Doronzo, Camilla Di Iasi, Antonello Cosentino, Luigi Cavallaro, Giovanni Amoroso, Mario Rosario Morelli, Laura Mancini, Enzo Vincenti, Antonella Ciriello, Ileana Fedele e Maria Rosaria San Giorgio.
I temi che vi vengono esaminati attengono non soltanto alla struttura degli atti e dei motivi proponibili dinanzi al giudice di legittimità, ovvero alla tipologia dei provvedimenti della Corte (vale a dire, i temi classici toccati da ogni trattazione in materia), ma si estendono ad aspetti problematici, quali il rilievo del fatto, la “forza” del precedente (fra virgolette, come nel testo) e i rapporti con le corti sovranazionali e a profili di carattere maggiormente pratico, ma non per questo meno importanti, come il processo telematico e l’ufficio del massimario e del ruolo. Per i curiosi di storia e di arte, poche ma brillanti pagine, affidate alla penna di Pietro Curzio, accompagnano il lettore all’interno del palazzo della Corte.
E’ poi perfino superfluo sottolineare come il libro sia ricchissimo di riferimenti alla giurisprudenza della Cassazione, che viene costantemente commentata nel suo procedere diacronico, sicché esso costituisce (fra l’altro) una straordinaria fonte informativa.
2. Tutti i contributi racchiusi nel volume meriterebbero un singolo commento. Mi pare preferibile, però, attraversarli globalmente, seguendo tre itinerari: il rapporto del giudice di legittimità con i fatti, la nomofilachia e il pluralismo interno alla Corte. Non si tratta, in realtà, di percorsi autonomi, ma di un unico sviluppo, perché le questioni e gli spunti dell’uno coinvolgono necessariamente quelli degli altri: esaminarli in qualche modo separatamente risponde soprattutto a un’esigenza di ordine espositivo.
Nei diversi capitoli del libro ho percepito un atteggiamento dei magistrati di legittimità che definirei sereno, senza il timore di sporcarsi le mani. Il fatto c’è e non potrebbe non esserci, anche se la Cassazione non è chiamata a esporre un racconto nuovo e diverso da quello che le proviene dai giudici di merito. La Corte, però, legge il fatto, ne prende le mosse, lo maneggia con consapevolezza, non si rinchiude in un atteggiamento falsamente astratto.
Al tema del fatto non è dedicato solo il contributo di apertura, di grande spessore, elaborato da Renato Rordorf: in realtà, il profilo emerge con forza quando Raffaele Frasca si occupa del contenuto del ricorso, o quando Alberto Giusti delinea i contorni del principio di autosufficienza, o ancora (ma l’elenco non finisce certo qui) quando Camilla Di Iasi propone i criteri che delimitano il vizio di motivazione.
In tutte queste pagine, l’approccio al fatto viene visto come un passaggio non soltanto inevitabile, ma prezioso ai fini di un corretto esercizio sia della funzione di terza istanza, sia di quella più strettamente nomofilattica. Ne traggo una lezione per la cultura giuridica italiana, che troppo spesso trascura il fatto e la sua concretezza, a differenza di quanto accade nel mondo anglosassone, dove si studia a fondo il fatto e il modo di indagarlo.
3. Da questi rilievi al tema della nomofilachia il passo è breve.
La prospettiva del volume (e in specie quella del contributo specifico affidato a Giovanni Amoroso e Mario Rosario Morelli) è nitidamente collocata in un quadro di rigoroso rispetto delle funzioni affidate alla Corte, con una importante sottolineatura del profilo della certezza del diritto, fondata sul principio costituzionale di uguaglianza, che viene garantita dalla continuità della giurisprudenza di legittimità. La Cassazione non intende in alcun modo sostituirsi al legislatore, precorrendone i tempi, né invadere spazi che gli equilibri della carta repubblicana assegnano ad altri poteri. Sarebbe difficile non sottoscrivere, parola per parola, questa esposizione.
Tutto ciò non esime, però, dall’interrogarsi sulla capacità di sviluppo del diritto vivente. L’invalsa terminologia di overruling è assunta con distacco e cautela e normalmente nel volume non se ne fa uso. E’ chiaro però che, quando si parla di nomofilachia e di corte del precedente, non si intende cadere in una sorta di originalismo, neppure se animato dalla volontà di esprimere il senso genuino della Costituzione. Altro è forzare la norma e altro è, da quella norma, trarre sempre nuovi significati, che la sensibilità culturale e sociale, nel tempo, ad essa riconduce.
Una sottolineatura specifica va data al rapporto con le corti sovranazionali: al momento, in sostanza, di una nomofilachia che potrei definire condivisa. Sono lontani gli anni in cui la Cassazione italiana viaggiava in coda alle classifiche europee dei rinvii pregiudiziali alla Corte di giustizia (segno certo di una collaborazione riluttante), ovvero restava sorda alle interpretazioni di Lussemburgo, riuscendo nell’intento di conseguire una condanna dello Stato italiano per inadempimento al trattato a motivo della condotta del proprio supremo organo giurisdizionale. Il saggio di Enzo Vincenti è un’eloquente dimostrazione di come oggi la Corte dialoghi proficuamente con Lussemburgo e Strasburgo e insieme a loro costruisca una nomofilachia europea.
4. I profili della continuità ovvero dell’evoluzione della giurisprudenza di legittimità sono accompagnati, nei vari capitoli del libro, da considerazioni spesso problematiche e, talora, anche apertamente critiche nei confronti degli orientamenti della Cassazione: e non soltanto di quelli passati e superati, ma, in alcuni casi, con precisi distinguo anche nei confronti di quelli attuali.
E’ questo l’aspetto che prima ho definito pluralismo e che, a mio avviso, costituisce uno dei pregi del volume.
Chi guarda la Cassazione dall’esterno la concepisce (e non di rado la vorrebbe) come un monolite compatto, che fissa linee assolutamente intangibili, a cui gli operatori della giustizia (dai giudici di merito agli avvocati) potrebbero guardare con la sicurezza con cui si sfoglia un manuale pratico di istruzioni per l’uso. I diversi contributi raccolti nel libro mettono in luce le legittime, ma non allineate, vedute di magistrati di esperienza e prestigio, che non rinunciano alla loro personalità e alla loro cultura nel concorrere, attraverso la definizione dei casi, alla formazione di quella giurisprudenza “conformante”, a cui allude l’art. 360-bis del codice di rito.
Dalla lettura del libro emerge netta, a mio parere, l’immagine della Cassazione come di un corpo vivo, che elabora e sviluppa tendenze, anche attraverso ripensamenti e contrasti. Il che non significa abbandonare i cittadini nel mare aperto di una giurisprudenza volubile e capricciosa, ma, anzi, equivale ad accompagnarli verso una piena tutela, che non si arresta davanti a formule stereotipate, ma si rinnova ed evolve con riguardo alle esigenze sociali concrete.
5. Il riferimento alla concretezza ci riporta al tema del rapporto fra fatto e diritto dinanzi al giudice di legittimità: a conferma che la tripartizione dei percorsi non è dovuta che a un’esigenza di ordine.
Mi sono piaciute particolarmente le parole conclusive del saggio di Rordorf, laddove si legge (e trascrivo brevemente) che «occorre ricercare costantemente un giusto punto di equilibrio tra la salvaguardia rigorosa dei limiti propri del giudizio di cassazione e l’ansia di giustizia del caso concreto». E’ un ansia che non va rimossa, soggiunge l’autore, se si vuole evitare che il giudice si trasformi in un burocrate, ma che si deve pur sempre rapportare alla consapevolezza che ogni decisione di legittimità è potenzialmente vocata a fungere da precedente per molti altri casi, seppure del tutto diversi da quello che ha originato la decisione.
A ben guardare, la tensione fra la fissità del diritto e la mutevolezza del fatto concreto, con la difficoltà di dare giustizia come si vorrebbe in presenza di norme che non lo permettono pienamente, non appartiene solo ai magistrati della Cassazione, anche se indubbiamente essi si trovano in prima linea su questo fronte. E’ la tensione di ogni giurista degno di questo nome, quale che sia il ruolo che le circostanze gli hanno assegnato: giudice, avvocato, professore, funzionario.
Per questo, la lettura del volume, molto oltre il profilo della stretta e pure non trascurabile utilità pratica, è consigliabile a tutti i giuristi, perché mette in luce temi e interrogativi, che aiutano a riflettere sull’ambiguità (per richiamare la notissima espressione di Michele Taruffo), non solo del vertice dell’apparato giudiziario, ma anche del mai definito rapporto fra il diritto e la vita.