Due giugno, festa della Repubblica. La si è spesso celebrata un po’ stancamente: discorsi d’occasione, sfilate, stendardi e bande militari, il rischio della retorica sempre in agguato. Quest’anno la situazione però appare ben diversa. La ricorrenza cade in un momento di crisi istituzionale che davvero non si può sottovalutare perché rischia di divenire crisi della Repubblica, quale la Costituzione la ha disegnata e quale, sia pure con alti e bassi, la abbiamo conosciuta in oltre un settantennio.
La vicenda che ha generato la crisi è fin troppo nota, e nei giorni scorsi tutti i mezzi di comunicazione ne hanno amplissimamente riferito. È dunque appena il caso di ricordare che, dopo lunghe e laboriosissime trattative, nel corso delle quali sono state di volta in volta ipotizzate formule di Governo diverse, due delle forze politiche che hanno ottenuto significativi consensi nella recente competizione elettorale e che sommando i propri eletti potrebbero garantire una maggioranza parlamentare si sono accordate, oltre che su un cosiddetto “contratto di Governo”, anche sul nome di un futuro presidente del Consiglio e poi su quelli dei ministri che avrebbero dovuto formare il Governo. Il presidente della Repubblica, tuttavia, pur avendo accettato di conferire l’incarico di presidente del Consiglio alla persona indicatagli, si è rifiutato di nominare uno dei ministri suggeriti dalle anzidette due forze politiche. Per parte sua il presidente del Consiglio designato non ha ritenuto di proporre un nome diverso, avendo le forze politiche di riferimento espressamente e pubblicamente escluso una simile eventualità, ed ha rinunciato all’incarico conferitogli. Sicché il presidente della Repubblica ha dovuto affidare ad altri il compito di formare il Governo, sia pure con scarse probabilità che questo possa ottenere la fiducia del Parlamento e quindi nella ormai inevitabile prospettiva di nuove elezioni politiche a breve scadenza.
Questa successione di eventi, che segnala l’indubbia difficoltà di risolvere la crisi politica generata dall’esito elettorale, avrebbe potuto di per sé non avere tuttavia nulla di veramente drammatico, perché quel che è avvenuto risponde a precise previsioni della nostra Costituzione, la quale assegna ruoli differenti ai diversi protagonisti della vita istituzionale proprio per bilanciarne i poteri, inducendoli a ricercare punti di accordo ed, ove ciò infine si riveli impossibile, prevedendo il rimedio del ricorso al corpo elettorale.
Viceversa la vicenda ha assunto sin dall’inizio, e soprattutto nella sua fase finale, toni ed accenti così accesi da trasformarla in una contrapposizione frontale tra le forze politiche che aspiravano a formare il Governo ed il Capo dello Stato, al quale sono state indirizzate parole pesanti e di cui è stata persino pubblicamente ipotizzata la messa in stato d’accusa dinanzi al Parlamento, a norma dell’art. 90 della Costituzione. Ciò ha fatto esplodere una già latente, ed assai preoccupante, crisi istituzionale.
Non si tratta qui, evidentemente, di giudicare se il presidente della Repubblica abbia fatto bene o male a rifiutarsi di nominare il ministro propostogli. Di tale decisione è stata data una pubblica ed esauriente motivazione, che si può condividere o meno ma che inequivocabilmente conferma come il medesimo presidente della Repubblica abbia inteso operare nei confini del potere di nomina dei ministri espressamente a lui conferito dall’art. 92 della Costituzione. Quei confini non sono stati specificati con precisione dai Costituenti e quindi, come accade anche per altre disposizioni della nostra Carta, possono darsi al riguardo interpretazioni diverse sulle quali è di certo legittimo discutere. Ma è innegabile che anche la prassi costituzionale porta ad escludere che il Capo dello Stato sia chiamato in simili casi a svolgere una funzione meramente notarile e debba sempre accettare le proposte di nomina formulate dal presidente del Consiglio. Si capisce, poi, che il modo in cui viene di volta in volta interpretato il delicato ruolo di garanzia spettante al presidente della Repubblica dipende anche dalle circostanze e dalla personalità individuale di chi quel ruolo è chiamato a rivestire.
Ipotizzare dunque che, nella descritta vicenda, il presidente della Repubblica si sia reso responsabile di nulla di meno che di alto tradimento o di attentato alla Costituzione appare un’evidente esagerazione, un alzare la voce per suscitare umori ostili al Capo dello Stato, contro il quale non si è esitato a mobilitare la piazza, col rischio di incrinarne l’immagine e l’autorevolezza morale ed istituzionale.
Questa forte drammatizzazione è d’altronde l’esito di una serie di comportamenti che hanno caratterizzato sin dall’inizio la descritta vicenda e che hanno reso estremamente arduo per il Capo dello Stato lo svolgimento delle sue prerogative e di quel compito di “magistratura d’influenza” che la Costituzione gli assegna. Compito ben scolpito dalle parole con cui la Corte costituzionale (sentenza 15 gennaio 2013, n. 1) ha ricordato come al presidente della Repubblica competa, accanto ai poteri formali che la Carta gli attribuisce espressamente, un “potere di persuasione” nei confronti degli altri organi dello Stato anche al fine di saggiare in via preventiva l’opportunità istituzionale dei loro atti. Sennonché l’importanza e la delicatezza di questa funzione non sembra esser stata compresa, né comunque rispettata, dagli altri protagonisti della vicenda, i cui comportamenti – dalla pubblica e preventiva indicazione di quale sarebbe stato il nome del futuro presidente del Consiglio e dei principali ministri, sino alla redazione di un programma di Governo (il già citato “contratto”) prima ancora che fosse individuato il presidente del Consiglio cui, a termini di Costituzione, ne spetterebbe la responsabilità – hanno palesemente avuto l’effetto di condizionare l’esercizio da parte del Capo dello Stato sia del potere di scelta autonoma della persona cui affidare la formazione del Governo sia, più in generale, di quel “potere di persuasione” cui sopra s’è fatto cenno.
Non è difficile scorgere in tutto ciò la tendenza a spostare radicalmente il delicato equilibrio dei poteri istituzionali in favore dell’assoluta prevalenza di una “volontà popolare” che si sarebbe espressa nel voto e che, appunto per questo, non potrebbe né dovrebbe essere in alcun modo condizionata da altri poteri. Di questa tendenza si fanno espressamente portatrici le forze politiche che si ritengono a ciò legittimate dal risultato delle elezioni. Proprio qui si coglie il vero nodo della crisi istituzionale che si va determinando: nella pretesa di modificare, se non sul piano formale almeno su quello materiale, gli assetti costituzionali sui quali si fonda la nostra democrazia. Una democrazia che è certo parlamentare, e non presidenziale, ma nella quale della sovranità popolare non possono farsi esclusive portatrici le forze politiche di volta in volta premiate dal voto, giacché essa si esprime anche attraverso la mediazione delle istituzioni a cominciare dalla presidenza della Repubblica. Ed al presidente della Repubblica la Costituzione affida un ruolo di equilibrio e di garanzia facendone, appunto per questo, il rappresentante non di una parte bensì dell’intera unità nazionale.
Non si tratta, allora, di sacralizzare la figura del Capo dello Stato, il cui comportamento ovviamente può sempre essere criticato, ma, se ne vuole preservare la funzione, è indispensabile non trascinarlo in una pretesa contrapposizione tra “poteri istituzionali” e “volontà popolare”, del tutto improponibile e tuttavia capace di delegittimarne la figura. Un conto è discutere le decisioni dell’arbitro, altro conto è sostenere che egli è in realtà un avversario ed è meglio perciò cercare di escluderlo dal gioco.
Ciò che è in palio in questa storia non è dunque solo la sorte di un Governo e di una legislatura, ma l’assetto dei poteri costituzionali della nostra Repubblica. Forse con scarsa consapevolezza si è cominciato a parlare della nascita in Italia di una “terza Repubblica”. È un’espressione giornalistica che mi sembra alquanto impropria (come del resto probabilmente lo era anche quella, ormai invalsa, di “seconda Repubblica”, all’indomani dei rivolgimenti politici intervenuti al principio degli anni novanta del secolo scorso), ma è significativa di quella spinta a modificare in modo radicale l’equilibrio dei poteri costituzionali di cui si diceva. Una spinta che innegabilmente è capace di far presa sui molti scontenti dell’attuale situazione politico-economica del Paese e sugli amanti della novità, ma che a me pare assai preoccupante per la sua carica oggettivamente eversiva e per i connotati al tempo stesso demagogici e nazionalistici che la caratterizzano. Non è molto che abbiamo accesamente discusso di proposte di modifica (formale) della Costituzione, ed è prevalsa la scelta di non apportarle, nella convinzione che la Costituzione sarà pure qua e là invecchiata ma rappresenta ancora un eccellente strumento di garanzia della vita democratica. Sarebbe ben più pericoloso volerne ora modificare di fatto gli assetti sull’onda di polemiche urlate in televisione e di iniziative di piazza.
Perciò quest’anno occorre proprio fare alla nostra Repubblica tanti, tanti auguri.
Tanti auguri alla Repubblica
Una sentenza, una candidatura, una ricorrenza storica, un’interpellanza parlamentare, un’aggressione, che hanno a che fare con il fascismo, la discriminazione razziale, l’intolleranza, e altri relitti, prima che delitti. Un incrocio recente di vicende e di parole: quelle orientate (alla Costituzione) e quelle disorientate (e pericolose). E tocca a tutti usare le giuste parole ben prima che siano le sentenze a farlo.
Con l’introduzione della valutazione di idoneità psico-attitudinale nel concorso per magistrato ordinario, il Governo ha dato vita ad un intervento normativo che stride e confligge, sotto più aspetti, con la Carta costituzionale e i suoi principi fondamentali: dal principio di separazione dei poteri alla regola del reclutamento dei magistrati per concorso, dal principio di riserva di legge in materia di ordinamento giudiziario al principio-valore di eguaglianza e ragionevolezza, sino alla regola della necessaria copertura finanziaria delle leggi che importano nuovi oneri e spese.
Nel caso di lacuna legislativa, il giudice ha il potere/dovere di dirimere la controversia facendo diretta applicazione della Costituzione, ma si tratta di un evento eccezionale e residuale, perché la selezione del principio prevalente, all’interno del bilanciamento dei principi costituzionali, o la stessa combinazione dei principi, corrispondono a una scelta politica, la quale, in un sistema democratico, dovrebbe restare affidata al titolare della rappresentanza politica, che la esercita nella forma della legge.
Recensione al libro di Gherardo Colombo L’Anticostituzione. Come abbiamo riscritto (in peggio) i principi della nostra società (Garzanti, 2023)
Il costituzionalismo contemporaneo è segnato da una serie di nodi ancora tutti da sciogliere: il depotenziamento della funzione costituzionale di indirizzo fondamentale ed il parallelo potenziamento della funzione di garanzia; quale equilibrio fra la sovranità popolare ed il potere dei giudici di interpretare la legge; l’imparzialità dell’interprete ed i confini della libertà di espressione del magistrato. A quasi cinquanta anni dal congresso di Gardone, il prossimo congresso dell’Associazione Nazionale Magistrati può essere l’occasione per un contributo della magistratura associata alla risoluzione di questi nodi.
Relazione per il Convegno internazionale di studi sul tema Scuola, università e ricerca: diritti, doveri e democrazia nello stato di cultura, Università degli Studi di Salerno (30 novembre 2023)
Il contributo nasce dalle riflessioni dell’autore sul concetto di laicità nell’ordinamento italiano, con particolare riferimento alla giurisprudenza sull’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche e sull’esposizione del crocifisso nei luoghi istituzionali.