Magistratura democratica
Magistratura e società

Tocqueville, il carcere, la democrazia

di Michele Miravalle
assegnista di ricerca in Filosofia del diritto, Dipartimento di Giurisprudenza, Università degli Studi di Torino

La recensione al libro di Francesco Gallino Tocqueville, il carcere, la democrazia (Il Mulino, 2020)

In due volumi, nel 1835 e nel 1840, Tocqueville pubblica la Démocratie en Amerique, destinato a diventare un architrave del pensiero politico occidentale, che per decenni ha saputo descrivere ai cittadini europei il “funzionamento” degli Stati Uniti e del Canada e delle loro istituzioni democratiche. Una sorte di “manuale di istruzioni” capace di far comprendere il Nuovo mondo agli abitanti del Vecchio continente.

Ma non tutti sanno che quel testo nasce da una missione sul campo durata nove mesi svolta dallo stesso Tocqueville, insieme al compagno di avventure e di riflessioni Gustave de Beaumont con la “scusa” di studiare le carceri americane, approfondendo i modelli penitenziari da trapiantare in Europa e in particolare nella Francia post-rivoluzionaria.

Il testo di Francesco Gallino ricostruisce in maniera minuziosa – accessibile anche ai non esperti di questioni carcerarie - quel viaggio, a partire dagli escamotage utilizzati per farsi riconoscere la trasferta come missione ufficiale, così da ottenere il rimborso delle spese, fino alla disamina delle dispute filosofiche su libero arbitrio, vendetta, contrasto alla recidiva, utilità della pena.

Solo grazie a quel viaggio, oggi possiamo avere informazioni dettagliate sul funzionamento dei due modelli penitenziari più utilizzati Oltreoceano nel XIX: la prigione di Walnut Street a Philadelphia (c.d. "modello filadelfiano") e la prigione di Auburn (c.d. "modello auborniano"). Si tratta di due modi di intendere la pena carceraria, destinati plasmare i contorni della penalità moderna

La vita nel penitenziario di Philadelphia era basata sull’isolamento totale, il silenzio e la preghiera. Tutti i detenuti erano isolati giorno e notte in celle individuali con bagno separato e cortili singoli per le ore d’aria, senza la possibilità di parlarsi e vedersi. Solo ai più meritevoli venivano concesse alcune ore di lavoro artigianale. L’unica lettura concessa era quella della Bibbia (la prigione era gestita dai quaccheri, che erano le uniche persone che potevano incontrare i detenuti per momenti di preghiera). Ma gli alti costi e i danni fisici e soprattutto psichici sui detenuti sottoposti all’isolamento prolungato, mostrarono tutti i limiti del modello filadelfiano, in favore del modello auburniano.

Ad Auburn era il lavoro forzato ad avere un ruolo centrale: i detenuti rimanevano isolati solo durante la notte e di giorno erano costretti a lavorare insieme, ma in rigoroso silenzio, sotto la minaccia della frusta. Si trattava di lavori manuali, che tutti potevano svolgere, con la minima formazione. I detenuti diventavano materassai, cestai, carpentieri, sarti, falegnami. La paura di perdere il “privilegio” di poter lavorare alla minima infrazione del regolamento era tale per cui l’ordine interno era garantito da un basso numero di sorveglianti: gli uomini reclusi, come raccontano le cronache dell’epoca, erano insomma «domati» e, in più, erano produttivi, essendo forzati a lavorare. 

Il modello auborniano di carcerazione ebbe notevole successo anche oltre i confini statunitensi, il primo esempio europeo fu la prigione londinese di Pentonville inaugurata nel 1842 e anch’essa basata sui lavori forzati. 

I due modelli sono studiati da Tocqueville e da Beaumont con un approfondimento ed un rigore metodologico invidiabile. Potremmo considerare quella dei due autori francesi un vero idealtipo di ricerca di sociologia del carcere. Un filone di studio allora inedito, che si strutturerà a partire dal XX secolo con i lavori pioneristici di Rusch and Kirchheimer (si ricorda il fondamentale Punishment and Social Structure del 1939), seguiti, soprattutto negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, dalle ricerche etnografiche degli americani Sykes, Irwin, Goffman e degli europei, in particolare scandinavi e britannici, Mathiesen, Christie e Cohen. 

Le differenze tra i vari approcci sono notevoli, ma accomunate dall’idea già chiarissima a Tocqueville e a Beaumont di come il carcere svolga una funzione sociale fondamentale. Non solo perchè concretizza il ruolo dello Stato moderno, quale monopolista della forma, unica autorità a poter legittimamente privare della libertà i propri consociati. Ma anche perché trasmette all’esterno precisi messaggi simbolici: chi sono i “buoni” chi sono i “cattivi”. Non a caso, la (stra)citata citazione attribuita a Voltaire chiedeva di non far vedere «i vostri palazzi ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una nazione».

Francesco Gallino spiega anche la difficile genesi del concetto di umanizzazione delle pene e, dunque, di rispetto della dignità umana. Le carceri americane che il testo ci fa idealmente visitare sono basate infatti sul disciplinamento e sul lavoro, mentre solo nel XX secolo iniziò ad affermarsi l’urgenza di un approccio welfarista alla detenzione, spostando l’attenzione sempre sul detenuto per quel che è e non per il reato che ha commesso e promuovendo la sua inclusione sociale.

Solo nel corso del Novecento, l’istruzione, la formazione professionale, le attività culturali, la ricostruzione dei legami famigliari divengono attività sottratte alla buona volontà dei filantropi (e degli ordini religiosi) e sono statualizzate e previste nella legislazione penitenziaria. 

Ma il libro ha poi forse un'altra funzione fondamentale, profondamente “politica”: quella di farci capire come la banalizzazione si sia impadronita del dibattito pubblico sulla questione penitenziaria. 

È infatti davvero singolare pensare lo scadimento del livello di elaborazione che in soli due secoli ci ha portato dalle dotte e appassionate discussioni tra Tocqueville e i direttori delle carceri americani sull’autonomia e la libertà che dovevano essere accordate ai detenuti, ai tweet incattiviti che oggi chiedono di “buttare via la chiave” non appena si ha notizia di un arresto o della solerzia con cui vengono inviati ispettori ministeriali a “controllare” il lavoro di magistrati, colpevoli di aver accordato misure alternative con eccessiva generosità. 

Insomma quello che Tocqueville e Beaumont non potevano prevedere sono gli effetti travolgenti che il "populismo penale" (e "penitenziario") hanno avuto sul carcere e su ogni sua possibile proposta di riforma. 

Per questo il libro è ancora più importante, perché fa capire al lettore che non esistono soluzioni “semplici” (e definitive) alla questione criminale e che dietro la parola carcere si celano storie, teorie, tendenze culturali e normative, scelte politiche. Tutte da studiare e approfondire. Con pazienza e passione almeno pari a quella che nel 1831 spinsero Tocqueville e Beaumont a prendere il mare per visitare le prigioni d’America.

03/10/2020
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