L’accusa che gli era stata mossa in sede disciplinare si tramuta in confessione.
Giovanni Cannella – nel libro oggetto di questa recensione - si riconosce magistrato integralista, accettando come tacca identificativa del proprio lavoro la definizione contenuta nella sentenza della sezione disciplinare del CSM, di cui ribalta però il senso: l’appellativo assume una connotazione positiva se messo in relazione non all’ossequio formalistico delle regole, ma alla necessità di applicazione integrale dei principi costituzionali di eguaglianza e di dignità delle persone.
La memoria che l’Autore ci consegna in questo volume - di cui è vivamente consigliata la lettura - dimostra che il magistrato non può essere una monade; e che fare il magistrato non è un fatto privato.
La memoria pubblica è qui tanto più apprezzabile in quanto offre testimonianza di vicende collettive su cui è necessario tornare a riflettere, perché è sempre imperdonabile dimenticare, o ignorare soprattutto, l’altra faccia del potere; quella che non si vede e di cui non si parla nelle cerimonie ufficiali e nemmeno negli scritti dei giuristi.
Sono molti gli spunti di riflessione che il testo offre a chi è interessato alle vicende della Giustizia nel nostro Paese negli ultimi 50 anni.
Insieme a tratti della biografia e del suo carattere personale, da cui ogni storia professionale è inseparabile, il libro di Giovanni Cannella restituisce anzitutto una riflessione sincera ed attenta su alcuni snodi cruciali dell'attività giudiziaria che rappresentano ancora importanti grumi su cui è necessario continuare ad interrogarsi.
I temi che fanno da filo conduttore al volume di Cannella sono quelli su cui si è speso con maggiore intensità il suo impegno personale: i problemi dell’organizzazione, del miglioramento dei servizi e dell’innovazione informatica che hanno costituito una sua passione costante (non sempre condivisa all’interno della magistratura). La partecipazione via via più intensa alle tante attività di corrente con Magistratura democratica (Questione giustizia, Omissis, Agemda, Cittadinanza e Immigrazione, ecc.), anche in ruoli di responsabilità (come segretario della Sezione romana e membro dell’Esecutivo). L’ininterrotta denuncia dello sfruttamento del lavoro e delle storture della legislazione sulla flessibilità. Lo sguardo critico sulla giurisprudenza e l’attenzione all’involuzione del ruolo del giudice del lavoro. Il confronto continuo con la società civile (associazioni sindacali ed imprenditoriali, università, avvocati, la cultura giuridica, ecc.) sui temi del lavoro e dell’organizzazione, ma anche del diritto europeo e della normativa sui migranti. Il ruolo di capo dell’ufficio legislativo dell’appena costituito Ministero della solidarietà sociale (e che un migliore responsabile non avrebbe potuto trovare) e che, con la sapiente collaborazione di Cannella, riuscì a mettere in cantiere innumerevoli progetti crescita dei soggetti più svantaggiati (immigrati, non autosufficienti, sordi, sfrattati, tossicodipendenti).
Si può dire che non c’è stato momento della vita di Magistratura democratica o della vicenda sociale e politica del lavoro nel nostro Paese in cui non vi sia stato il suo contributo concreto e personale.
Alla luce di tale laboriosità si può riconoscere allora che Cannella non sia stato un magistrato comune, né soltanto un buon magistrato, come rivendica lo stesso Autore, essendo stato in realtà un modello, il prototipo di magistrato, in cui si possono individuare, tutte insieme, le proprietà del magistrato democratico ed indipendente, guidato dalla stella polare dei principi dettati dalla Costituzione, in materia di giurisdizione ed in materia sociale.
Un modello di magistrato per il quale non è certo sufficiente conoscere a menadito le leggi e la giurisprudenza, essendo altrettanto necessario che egli conosca la società in cui quelle regole sono destinate a vivere, come diceva Calamandrei.
E siccome si ripresenta ciclicamente il dibattito sull’essere o sull’apparire del magistrato va qui ricordato che non si capisce come un magistrato possa indagare e capire la complessità dell’esistente (indispensabile per il suo lavoro) senza sporcarsi le mani e partecipare al dibattito (discutere, scrivere, tenere lezioni), dicendo inevitabilmente come la pensa anche sulle questioni di politica sociale e giudiziaria o che riguardino la legge, il sistema legale, l’amministrazione della giustizia.
Cannella, è stato un magistrato che ha parlato, ha scritto ed ha denunciato. Non certo per alimentare il potere o cercare il consenso dei cittadini, ma semmai per alimentare la fiducia dei cittadini nella giustizia.
E senza per questo mettere in crisi la sua dote di magistrato imparziale; la quale, come è noto, esige la lontananza rispetto alle parti in causa, il dovere di accogliere ed utilizzare i differenti punti di vista mantenendo uno spirito aperto. Mentre non ha niente a che fare con l’indifferenza ai princìpi e ai valori che attraversano la società; non potendo esistere un giudice che non abbia idee (e guai se esistesse, ché, se ci fosse, sarebbe solo il portavoce di decisioni prese altrove).
Come Giovanni, altri di noi lo hanno fatto e continuano a farlo. Perché non è tempo di torri di avorio, né mai lo è stato. Se è vero che i giudici fanno parte dell’assetto di potere di una società tanto più quanto dichiarano di non farne parte, finendo per essere omologati, più o meno volutamente, agli assetti di potere esistenti ed al pensiero dominante.
La storia professionale di Giovanni Cannella dimostra dunque che l’impegno nell’organizzazione degli uffici, nell’associazionismo, nel dibattito sociale e politico, dovrebbero essere, tutte insieme, componenti indefettibili del bagaglio deontologico di ogni magistrato e che esse non presentano alcuna contraddizione interna.
Perché il magistrato non può fare a meno dell’una né dell’altra componente. Il magistrato sterile e disorganizzato, che si arrabatta tra le scartoffie, senza alcuna efficienza, ed il magistrato burocrate bocca della legge (senza idee, né ideali) sono parimenti negativi, e sono entrambi modelli da rigettare. Tante le prove che emergono dal racconto di Cannella.
Il magistrato che pesca la causa dal mucchio dei fascicoli e la consegna agli avvocati, con i testimoni sentiti dagli stessi nei corridoi e la schiena dell’avversario come tavolino per la verbalizzazione. Le cause dove gli avvocati compaiono per verbalizzare di non essere presenti e chiedere un rinvio, sono esempi di quei processi infiniti che hanno sempre richiesto la compartecipazione interessata del giudice lassista che preferiva non decidere le cause, verso le quali non nutriva alcun coinvolgimento ideale.
Magistrati e correnti
Questo libro ci dà conferma di un altro dato importante e cioè che l’associazionismo giudiziario non è sempre stato (e sempre sarà) quello di Luca Palamara e di altri come lui.
Un fatto obiettivamente, storicamente non vero.
Ecco come Cannella ricorda il suo incontro con Md: perché la magistratura progressista si batteva negli anni ‘70-‘80 per evitare che l’organizzazione giudiziaria fosse alla mercé del capo di turno, indifferente a qualsiasi regola e fosse legata ancora alla vecchia struttura gerarchica di altri tempi; perché era l’unica componente della magistratura associata realmente interessata al tema dell’assegnazione delle cause, ritenendo essenziale che la giustizia fosse un palazzo di vetro.
Un altro terreno di incontro fu il ruolo del giudice del lavoro, come attore di un diritto diseguale (contrassegnato dal favor lavoratoris), costruito dall’esperienza storica dei pretori, di cui tanti erano iscritti a Magistratura democratica. Anche su questo terreno del processo del lavoro - che è stata la vera passione di Cannella durata un’intera vita professionale – l’incontro con Md avvenne quindi in modo del tutto naturale.
Il modello Cannella
Ma la magistratura è una categoria più eterogenea di quanto normalmente si pensi. E nel libro compaiono i diversi modelli di magistrato.
Si parla ovviamente del modello Cannella. Un esempio per consapevolezza ed impegno profuso in prima persona, sia ai fini della realizzazione di un sistema organizzativo degli uffici conforme ai parametri di efficienza ed indipendenza dettati dalla Costituzione; sia nella missione sociale del magistrato che richiede, come spiega l’A., di adempiere al dovere della denuncia dall’interno, di parlare e di confrontarsi («di divulgare il sapere, di spiegare cosa c’è dietro le scelte legislative, amministrative e che incidono sulla vita di tutti»). Di farsi carico dei problemi (anche logistici) e di parlare soprattutto alla gente comune e perciò di farsi capire, anche dai non tecnici, con linguaggio semplice e comprensibile.
Si legga ad es. il capitolo «Un ascensore per il paradiso» che riproduce l’articolo, amaramente satirico, scritto nei primi anni ‘90 su Omissis, per descrivere l’autentica odissea trascorsa da un testimone in carrozzina a fronte delle barriere architettoniche e dello stato dei luoghi all’interno della Sezione lavoro del Tribunale della capitale.
Per la realizzazione di questi obiettivi – dopo l’esordio da pendolare al tribunale di Milano - egli si è speso in continuo in un ambiente giudiziario ostico come quello romano (il tribunale del lavoro e la Corte di appello di Roma) su cui incombeva la coltre del conservatorismo autoritario, della corporazione e del collateralismo governativo.
Ci sono voluti confronti, convegni, assemblee, studi e la passione di Giovanni per i numeri (lo zoccolo duro di ogni modello organizzativo) per creare una sensibilità verso un sistema di assegnazione delle cause più consono ai principi costituzionali di naturalità e predeterminazione del giudice.
E sono stati necessari esposti, lettere, documenti, segnalazioni, scioperi e convocazioni del CSM per opporsi ad un modello che intendeva invece - attraverso la discrezionalità delle assegnazioni - preservare il prestigio del dirigente e dargli la opportunità all’occorrenza di punire i “cattivi” e premiare i “buoni”.
Cannella è stato anzitutto un esempio di magistrato indipendente da ogni potere; che ha capito da subito, fin da uditore, la prerogativa della indipendenza interna; anche reagendo a colleghi autoritari quando era il caso e non sopportando angherie e trattamenti non consoni.
Essere un magistrato democratico non è però un pranzo di gala, ma nemmeno una scampagnata ed il prezzo da pagare è sempre alto. Inevitabile il logoramento e l’isolamento; sicura la sottoposizione a procedimenti disciplinari; puntuali i giudizi negativi nelle valutazioni periodiche di professionalità.
E tutte queste pratiche vessatorie sono state messe in atto nei confronti di Cannella secondo una condotta che oggi non esiteremmo a identificare come un tipico caso di mobbing.
Come si legge in uno dei tanti esposti al CSM, citato a pag. 70, i magistrati che avevano osato mettere in discussione l'operato del dirigente «sono stati e sono oggetto di meschine attenzioni negative in tema di ferie, inserimento nei turni e su ogni, anche insignificante, aspetto di organizzazione del proprio lavoro; per di più vengono segnalati come persone da evitare ai colleghi più giovani o appena arrivati in sezione; di questi gli incauti che, nonostante tutto, hanno ritenuto di sollevare pur innocenti problemi sono stati pesantemente redarguiti, anche in presenza di estranei».
Puntuale arriva anche la stigmatizzazione nel parere per la progressione funzionale dove, senza tema di smentita - nonostante si desse atto della comprovata laboriosità, produttività e collaborazione negli aspetti organizzativi tanto da essere nominato come il referente degli uffici in materia di organizzazione - si legge che Cannella ha dimostrato «scarsa propensione e disponibilità alle esigenze di servizio ed alle necessità dell’Ufficio e non è stato mai animato da spirito di collaborazione».
Un prezzo personale elevato per un magistrato che chiedeva per sé solo la tranquillità, la misura giusta dei tempi di lavoro, la possibilità di staccare ogni tanto, una dote organica congrua, una stanza per lavorare e l’assistenza all’udienza: ingredienti minimi ma essenziali per attendere in modo dignitoso a risultati positivi dal proprio lavoro.
La ingiustizia interna
Sul versante dei costi va aggiunta la frustrazione per un sistema di controllo dei magistrati (e di giustizia interna) da parte del CSM che tarda ad arrivare e che quando arriva lo fa con scarsa o nessuna effettività; ed in alcuni casi anche con esiti indecifrabili e persino rovesciati.
Nella vicenda che riguarda Giovanni gli abusi del dirigente nella gestione dell’assegnazione delle cause non conducono ad alcun esito, né in sede disciplinare né in quella paradisciplinare: il dirigente accusato viene anzi promosso in Cassazione, con una sorta di commodus discessus che non si nega mai in presenza di una domanda di trasferimento utile ad aggirare e ad annacquare le responsabilità: La «libera assegnazione in libero stato», a cui si intitolava un documento dell’epoca apparso su Omissis, la Rivista di Md nata con l’idea di svelare i troppi omissis della giustizia, per rivelare cosa c’è dietro, cosa si nasconde nei palazzi del potere cercando di renderli trasparenti. E dove però si poteva trovare, sotto la guida sapiente di Cannella, pure un’intervista a Giuseppe Dossetti o a Bruno Trentin segretario della Cgil.
Per contro, tornando al CSM, l’assoluzione di Cannella dal procedimento disciplinare attivato dalla denuncia ritorsiva del medesimo dirigente si tramuta…invece in una condanna.
Cannella viene denunciato per avere rinviato una udienza in mancanza dell’assistente, nonostante una prassi avvallata dallo stesso dirigente e praticata da molti colleghi della sezione. Il procedimento porta ad una scontata assoluzione (a fronte delle previsioni codicistiche che impongono come dovuta la normale assistenza del magistrato in udienza); che però viene motivata dal Relatore come una condanna: si parla di «eccesso di zelo, rispetto quasi fanatico dell’assistenza, di un magistrato scomodo ed ostruzionista, persino di mancanza di fair play ed infine appunto l’accusa di integralismo (di apriorismi culturali integralistici)».
E Md reagisce con l’arma dell’ironia e parla di «assoluzione per (non) aver commesso il fatto», in un volantino affisso nel tribunale dalla sezione romana.
Una categoria composita
Dobbiamo ringraziare Cannella anche per la franchezza e la schiettezza della rievocazione, con cui chiarisce senza veli che i giudici sono appunto una categoria composita. E nel libro ci mostra spesso il volto di altri modelli di giudice (richiamando anche il saggio Quelli che… scritto per Omissis).
Cannella ricorda, anzitutto, che le lotte e le contestazioni degli abusi dei dirigenti sono sempre stati opera di pochi: quelli che si sono esposti, anche soltanto sottoscrivendo un esposto al CSM, sono sempre stati in numero ridotto (Giovanni ricorda soprattutto come immancabili Mario Petrucci e Giacinto Di Nardo, ma anche Amelia Torrice); un numero che si assottigliava man mano che venivano attuate le ritorsioni dei dirigenti; fino all’isolamento ed alla fuga di molti dall’Ufficio.
La maggior parte dei giudici preferivano (e preferiscono ancora) il quieto vivere che sanno verrà ripagato con pareri altamente positivi ai fini della loro progressione in carriera.
Il libro ci dice di quelli che non hanno resistito alle pesanti pressioni psicologiche ed intimidazioni dei capi degli Uffici; dei giudici chiusi nel loro individualismo e di coloro che si sono distaccati forse troppo dalla realtà e «che forse sono stati sempre indifferenti alle persone su cui le loro decisioni incidevano». Giudici disposti a lasciare stritolare un uomo vivo negli inesorabili ingranaggi del conformismo giurisprudenziale, come aveva già detto Piero Calamandrei nel suo Elogio.
Una categoria composita quella dei magistrati dove si possono trovare, da una parte, soggetti che si battono per l’assegnazione automatica delle cause, per una equa e paritaria divisione dei carichi giudiziari, per un organico congruo e la dotazione di mezzi e uomini negli uffici, che non esitano ad organizzare uno sciopero per una migliore organizzazione e contro i capi degli uffici. E dall’altra, colleghi formalisti, dirigenti menefreghisti, autoritari e non abituati al confronto.
Troppi i giudici che preferiscono la sottomissione ed il conformismo. Tanto che, pur in mancanza del rapporto gerarchico, Cannella ricorda che «durante la mia carriera ho dovuto sperimentare che la maggior parte dei magistrati si comporta come se fosse subordinato gerarchicamente per paura di ritorsioni o comunque conseguenze sulla carriera».
Da una parte i giudici che denunciano, riflettono e si confrontano pubblicamente sulle questioni sociali e politiche che contraddistinguono la loro attività. E dall’altra i giudici che si chiudono nel privato del loro ufficio – nei casi in cui lo frequentino - e fanno fatica a parlare pure con gli avvocati o ad interrogare le parti.
Ne dà conto Giovanni anche rispetto al diverso tipo di approccio con lo studio e l’approfondimento delle controversie.
Ci sono giudici che guardano dentro ai fatti e tra le pieghe dei fascicoli alla ricerca di soluzioni il più possibile giuste ed argomentate, dovendo essere la risultante di una riflessione ampia, sistematica ed in senso lato politica di ogni singolo caso.
E ci sono i giudici burocrati, che rigettano le domande perché – come si ricorda nel libro - il rigetto è più semplice da motivare rispetto all’accoglimento; che riescono a dimezzare i loro ruoli dichiarando improcedibili i ricorsi dopo aver fissato l’udienza in termini troppo brevi per una possibile notifica.
I giudici, come Cannella, “abituati a farsi nemici” e quelli a cui va invece bene sempre tutto: ogni ingiustizia, ogni disfunzione, soprattutto se collima con la loro indole a chiudere tutto e subito, senza studiare e senza cambiare mai nulla. Il giudice-sfinge che non pensa, che non pensa soprattutto quale sia il ruolo della giurisdizione.
Da una parte, giudici che rinunciano alle ferie e non riescono a staccare dal lavoro; e, dall’altra, i “giudici tennisti”, che frequentano le palestre con maggiore assiduità rispetto all’Ufficio. Su un fronte quelli sempre alla ricerca del cavillo per liberarsi del fascicolo e sull’altro i giudici che rischiano la salute o addirittura la vita per il loro ideale di giustizia (si ricordano nel libro gli omicidi di Galli, Alessandrini, Amato, da parte dei terroristi; e si rammenta che lo stesso Cannella fosse stato individuato come possibile obiettivo di Prima Linea, secondo una scheda trovata in un covo).
La critica delle leggi e delle sentenze
Altro aspetto di estremo interesse dell’impegno di Cannella, di cui il libro dà conto, è la ricostruzione dei tanti avvenimenti che si sono susseguiti in ambito normativo nel nostro Paese e nel merito dei quali l’A. non ha mai fatto mancare la sua analisi ed il suo contributo in chiave critica rispetto agli obiettivi di politica del lavoro perseguiti negli ultimi trent’anni dalle forze di governo, attraverso l’impianto di riforme che hanno praticato un insistente martellamento sui diritti sociali allo scopo di livellare verso il basso la condizione materiale e giuridica degli stessi lavoratori subordinati.
Cannella ce ne dà una dimostrazione riportando stralci di alcuni suoi saggi dell’epoca, richiamando le innumerevoli iniziative pubbliche ed i convegni a cui ha partecipato (anche ai seminari del gruppo lavoro a Ravenna a cui non è mai mancato), gli scritti pubblicati, tra gli altri, sul decreto Treu, sul libro Bianco e sulla c.d. legge Biagi, sul Collegato lavoro, sulla legge Fornero, sul famigerato decreto Sacconi e sul renziano jobs act che ha abrogato la norma simbolo ed architrave del diritto del lavoro italiano: l’art.18 dello Statuto dei lavoratori per la cui difesa in altra epoca ( il 23 marzo del 2002) tre milioni di lavoratori parteciparono al Circo Massimo alla storica manifestazione indetta dalla CGIL, rievocata da Cannella.
Personalmente devo qui ricordare che, se per la prima volta mi sono accostato ad uno studio adeguato sul fenomeno delle collaborazioni coordinate e continuative, che era esploso fino a toccare la cifra record di più di 2 milioni di persone, fu grazie alla lettura di uno scritto di Giovanni; capace di descrivere come si trattasse di uno degli snodi più problematici del nostro mercato del lavoro, dove, anche grazie al silenzio della sinistra e del sindacato, si era venuta ad addensare da anni una vasta area di lavoro precario e di sfruttamento, e pur tuttavia invisibile ai giudici. Questo perché il rapporto di collaborazione poteva presentare alcuni tratti propri del lavoro subordinato (tanto da essere definito appunto come parasubordinazione) pur rimanendo nella sostanza nel genus del lavoro autonomo. E questa ambiguità di fondo aveva finito per costituire la via maestra per frodare i lavoratori di tutti o quasi i loro diritti posto che ad essi, appunto in quanto lavoratori autonomi, non si applicava il corpus delle leggi protettive del lavoro subordinato.
Il disincanto e la parabola
Come è noto, la memoria è selettiva e ricorda quello che vuole ricordare. Dobbiamo essere perciò profondamente grati a Giovanni Cannella per questo libro di memorie che è insieme una testimonianza pubblica importante.
Rimanendo fedele a se stesso, la sua ricostruzione traccia, infatti, un ponte in parallelo tra la parabola sociale e politica che hanno avuto nel nostro paese le condizioni dei lavoratori e la vicenda parimenti involutiva della legislazione del lavoro e della giustizia del lavoro. Una involuzione da cui non è stata indenne la stessa giurisprudenza di legittimità.
Sono storie collegate; perché oltre alle norme sostanziali, la deregolazione normativa ha lavorato anche ai fianchi del processo e dei giudici del lavoro, allo scopo di cambiare il modello ed i valori di riferimento del periodo aureo dei primi anni ‘70. Ed ha ottenuto ragione.
Alla solidarietà sociale si è venuto via via a sostituire il valore del mercato ed il profitto come riferimento principale, anche nelle soluzioni giurisprudenziali (si pensi soprattutto alla disciplina delle spese processuali o alla interpretazione letterale della normativa sui licenziamenti per giustificato motivo oggettivo ad opera della giurisprudenza della Cassazione che rimuove però mezza Costituzione italiana).
I vari mutamenti che sono via via intervenuti a livello normativo e giurisprudenziale negli ultimi trenta anni sconfessano anche la consueta affermazione sulla perdurante inossidabilità del rito introdotto dalla legge n. 533/1973 (che l’A. definisce come un rito perfetto); sembrando piuttosto vero che il modello delle origini abbia oramai mutato completamente volto.
Anche Cannella ne dà atto, essendo cambiato il contesto economico-sociale e mutato l’humus culturale e politico su cui poggiava l’impianto del ‘73, soprattutto nella direzione del giudice che lo deve amministrare; sono diversi i giudici chiamati a garantirne l’applicazione.
Anche il migliore dei modelli processuali possibili ha bisogno per funzionare di giudici motivati o di regole sostanziali da applicare. Ed il libro ci parla del disincanto e della parabola sull’uno e sull’altro fronte.
I germi disseminati nell’ordinamento sono stati tanti e pervasivi, tutt’altro che innocui, perché si tratta di norme che puntano ad influire, anche a livello subliminale, sulle prassi giurisdizionali, sui poteri, sull’atteggiamento culturale dei giudici.
Si pensi ad es. alla svalutazione del contraddittorio con esplicito rinvio al conformismo, contenuti nella norma dell’art. 429 c.p.c. novellato (dal d.l. n. 112/2008), in cui si dice al giudice del lavoro, unico in tutto l’ordinamento processuale, che di norma deve scrivere e leggere subito alle parti la motivazione della sentenza appena alla fine della discussione.
La struttura del processo del 1973 è uscita sostanzialmente mutata dai processi di controriforma: con la nuova disciplina delle spese processuali, l’eclissi della difesa in Cassazione, le varie decadenze, le limitazioni dei poteri dei giudici, l’udienza a distanza, la sostituzione dell’udienza orale col deposito di note scritte, la norma in odio ai lavoratori che impedisce loro di fruire dell’astreinte stabilita a favore degli altri creditori, ecc.
Il processo del lavoro ha inoltre patito e patisce, ancora, nella sua concreta funzionalità in molte aree del Paese, inefficienze e ritardi abnormi del tutto incompatibili con lo scopo di assicurare una adeguata tutela ai diritti delle persone.
Da ultimo va aggiunto che proprio le nuove modalità di conduzione dell’udienza a distanza o col modello c.d. cartolare (del deposito di note scritte) introdotte dalla c.d. riforma Cartabia (d.lgs. 10/10/2022, n. 149) rischiano di incidere per sempre ed in modo radicale sulle stesse caratteristiche essenziali (oralità, concentrazione, immediatezza) del modello del 1973, la cui applicazione potrebbe essere destinata ad un numero sempre più esiguo di controversie (dirigenti, impiegati pubblici e datori di lavoro per cause previdenziali dice Cannella).
E le indicazioni normative nel senso del disimpegno e della superficialità, come quelle nel senso della produttività e del conformismo, sono difficili da contrastare, se è vero che «la giustizia prima che una questione di legge e procedure, è anche, anzi molto di più, questione di giudici e di un ethos che essi si portano addosso[1]».
Sulla probabilità che mutamenti culturali del genere possano attecchire incide anche la composizione sociale ed il cambio generazionale all’interno della magistratura, che potrebbero causare delle difficoltà nella trasmissione valoriale[2].
Ed a questo proposito non va trascurato nemmeno che in una società che si fa sempre più diseguale, come quella attuale, ed in cui dilaga la precarietà insieme alla povertà anche tra chi lavora, lo status quo e la conservazione tenderanno naturalmente ad imporsi sulla mobilità sociale, creando un blocco sociale e di potere, anche culturale, che impedisce la maturazione di sensibilità diverse anche in magistratura; che si formi cioè un sapere dialettico rispetto al potere dominante ed in definitiva lo sviluppo di una democrazia più matura e partecipata[3].
La memoria ed i fili intrecciati
Nella memoria spesso inizio e fine sono la stessa cosa. Secondo una bella immagine, la memoria è come un gomitolo, in cui il filo che lo compone porta all’indietro fino a quell’ultimo misterioso capo celato nel suo cuore più profondo raggiunto il quale il percorso da dove è cominciato finisce.
Qui il filo iniziale è la storia personale di un magistrato (forse a partire da una ingiustizia subita sui banchi di scuola agli esami di maturità), che si intreccia spontaneamente con la storia di Magistratura democratica; due fili intrecciati quindi, e non un’unica entità.
Giovanni attraversa vicende che hanno segnato la piccola grande storia di Md, riportando delusioni e raccogliendo soddisfazioni. Sconfitte e vittorie; vengono ricordate le tante vicissitudini di Md romana; le varie elezioni del Consiglio nazionale; la spaccatura tra “massimalisti” e “moderati”, il caso Misiani, Coiro, ecc.
Ma il forte impegno associativo e la costante riflessione critica sui presupposti sociali delle norme nel caso di Cannella si è accompagnato costantemente con la sua occupazione principale, con l’impegno quotidiano nel miglioramento dell’organizzazione e dell’efficienza nel lavoro (per rimediare alla mancanza di aule, di collaboratori, di magistrati; ai 30.000 processi assegnati a 5 magistrati nella Corte di appello di Roma).
Anche un magistrato che fa mostra di impegno collettivo potrebbe essere un cattivo magistrato nel suo quotidiano lavoro. Nel caso di Giovanni il momento collettivo ed associativo non è mai stato un alibi, né è stato utilizzato a fini personali per ottenere rendite. Cannella è stato pure bocciato al concorso per la Cassazione, con preferenza per magistrati meno titolati, meno anziani e meno esperti di lui. Una grave ingiustizia che solo in parte può dirsi compensata con la nomina a presidente del collegio presso la Corte di appello di Roma.
Futuribili
Nelle pagine conclusive Giovanni pone un dubbio; perché intravede «una ombra, un bel nuvolone nero se non un tornado» che sembra aver travolto il mondo del lavoro, senza speranza di tempi migliori.
Un’ombra che, come esattamente sostiene Giovanni, non riguarda solo la legislazione sostanziale ma anche la giustizia del lavoro, il processo ed i giudici; perché il processo rischia di essere come già detto un processo di classe; sono scomparse le cause degli operai, dei domestici, dei camerieri e fanno causa solo i dirigenti e gli impiegati pubblici e i datori di lavoro per ragioni contributive.
Cosa è rimasto, si chiede alla fine Cannella, delle battaglie e delle tante parole spese nella direzione dell’inveramento del disegno sociale perseguito dalla Costituzione?
È rimasta l’etica del modello Cannella. Il dovere morale di parlare a cui Giovanni ci sollecita. Siamo rimasti noi giudici di Magistratura democratica, i componenti del Gruppo lavoro a tenere il testimone ed a provare a fare quello che Cannella con il suo esempio ed il suo libro ci richiede.
Forse pochi, si dirà per un compito così impegnativo. Ma la storia non procede sempre in modo lineare, in cui il futuro costituisce inesorabilmente un inveramento del passato-presente. Di un diverso futuro bisogna costruire le premesse e saper cogliere anche i segnali di cambiamento e favorirli quando vanno in controtendenza.
Ed è a tale proposito che di recente ci sono state variazioni di direzione inaspettate e nuovi positivi fermenti che si avvertono anche nella giurisprudenza.
Le sentenze della Cassazione sul salario minimo costituzionale dell’ottobre del 2023 e le questioni ripetutamente sollevate dai giudici di merito in materia di licenziamenti ed infine accolte dalla Consulta (anche di recente) sono sintomi di un rinnovato dinamismo costituzionale.
In materia di povertà e salario, la magistratura è stata chiamata a fare la sua parte e l’ha fatta adoperando la Costituzione e delineando, attraverso i due criteri della sufficienza e della proporzionalità stabiliti nell’art. 36, lo statuto di un salario minimo costituzionale atto ad assicurare un’esistenza libera e dignitosa.
Questo è stato possibile perché abbiamo la fortuna di avere una Carta che non si occupa dell'ovvia obbligatorietà del salario, ma regola anche il quantum della retribuzione dettando una soglia di sufficienza minima. E ce ne eravamo forse dimenticati.
E le sentenze di legittimità finiscono anche per rivitalizzare il ruolo del giudice all’interno di una moderna democrazia sociale, come quella delineata dalla nostra Costituzione, ed è quello che alla fin fine a molti non è piaciuto. Si tratta però di un'assunzione di una nuova responsabilità, non c'è smania di protagonismo giudiziario o proclami di nessun tipo in tutto questo, né tanto meno la delegittimazione del sindacato.
Le 5 sentenze pronunciate dalla Corte Cost. sul jobs act (n. 194 del 2018 e n. 150 del 2020; n. 22, n. 128 e n. 129 del 2024), oltre a quelle intervenute in precedenza sulla riforma Fornero, danno ancora di più prova che gli spiriti animali del liberismo possono essere domati – Costituzione alla mano - e non sono in grado di realizzare un ragionevole contemperamento degli interessi in conflitto.
Senza razionalità ed equilibrio e senza il rispetto delle prerogative sindacali il decisore politico non può avere carta bianca nel nostro ordinamento; persino in una materia come quella delle tutele avverso il licenziamento illegittimo in cui viene riconosciuta una discrezionalità legislativa di partenza.
C’è infine un altro compito a cui ci sollecita il libro di Cannella ed attiene al dovere di ricordare e di agire per non disperdere il valore dell’associazionismo contro la vulgata corrente.
Come ha scritto bene Elisabetta Tarquini, il lavoro di riflessione collettiva delle correnti dei magistrati ha contribuito all’attuazione dei principi costituzionali in tanti settori del diritto; oltre che nel diritto del lavoro, anche nella disciplina dell’ordinamento giudiziario. Tutto questo è avvenuto in un tempo in cui al collettivo, al pensiero condiviso era attribuito un valore e non era considerato “fare pubbliche relazioni”, in cui, almeno in molti magistrati, era ben presente la consapevolezza di come la giurisdizione partecipi, con le sue proprie regole, al governo della polis e come la tecnica non sia mai neutrale.
Avere svilito e infangato questo patrimonio è certo responsabilità di chi ha voluto costruire tramite i gruppi le proprie personali clientele, ma il non avere memoria è responsabilità nostra e se continueremo a non averla, saremo noi stessi, con il mito del lavoro silenzioso sui fascicoli senza alzare gli occhi sul mondo, che tanto piace a chi vuole che nessuno disturbi il manovratore, saremo noi stessi a tornare docilmente agli anni ‘50 e a giudici che abitano il Diario di Dante Troisi. Giudici pre-costituzionali.
[1] G. Zagrelbesky, Intorno alla legge, Torino, p. 372.
[2] v. S. Gentile, La specificità del processo del lavoro e il cambiamento della prassi, in Questione Giustizia on line, https://www.questionegiustizia.it/articolo/la-specificita-del-processo-del-lavoro-e-il-cambiamento-della-prassi
[3] Per dirla con T. Piketty, Il Capitale del XXI secolo, Bompiani, 2018, è il passato che divora il futuro; il capitale, la discendenza, l’eredità riacquista la stessa importanza che aveva per le generazioni del 1800.