Il rapporto tra potere politico e “potere” giudiziario è un sicuro termometro della salute democratica di un Paese. Difficile negare che nel nostro caso stia indicando uno stato febbrile da non sottovalutare, sebbene ancora non allarmante: sembrerebbe, infatti, un fenomeno legato a quelle manifestazioni di ipertermia che i pediatri collegano al periodo puberale. La nostra è una democrazia in fase adolescenziale e, come tale, conosce sintomatici episodi dovuti a immaturità civile e culturale. Per avere una facile conferma di questa diagnosi basta una sbirciata al suo quadro anamnestico: proprio nei rapporti tra politica e magistratura, infatti, si registrano evidenze – per quanto riguarda gli aspetti sia normativi, sia socio-culturali – non propriamente consone a un moderno Stato di diritto.
Quale Paese democraticamente maturo potrebbe contemplare, infatti, nella sua Costituzione una norma (l’art. 68 comma 3) che vieta all’autorità giudiziaria di procedere all’intercettazione di un parlamentare senza aver prima ottenuto l’autorizzazione della Camera di appartenenza dello stesso? Se non fosse scritta da trent’anni nel testo fondamentale della Repubblica, sorrideremmo con gusto a una facezia normativa che impone di avvertire l’interessato e centinaia di suoi colleghi che sarà sottoposto ad un controllo a sorpresa delle sue conversazioni sospette. Quale Paese democraticamente maturo, d’altra parte, potrebbe consentire a un magistrato, dopo aver esercitato funzioni giudiziarie in una città di recarsi nella circoscrizione viciniore ad assumere compiti e scelte di natura politica, per poi tornare a svolgere le prime, e via di seguito senza soluzione di continuità? Vi è sottesa la bizzarra idea che l’imparzialità si possa indossare e dismettere insieme alla toga.
Sul piano socio-culturale, la sintomatologia puberale trova riscontri non meno eloquenti. Abbiamo molti politici che predicano encomiabilmente la separazione dei poteri e ammoniscono circa la sacrosanta necessità che le sentenze vadano rispettate. Con una piccola postilla: a condizione che riguardino il quisque de populo o l’avversario politico. Sì, perché quando l’azione giudiziaria si rivolge contro di loro, contro il loro figlio, il loro padre, il loro entourage, il cassiere del loro partito, il loro ghost writer, prende allora puntualmente nome di “giustizia ad orologeria”: un uso strumentale del potere giudiziario per influire sulle elezioni, per danneggiare un leader in ascesa, per distogliere l’attenzione dalla controparte politica et similia. Sicuramente “a orologeria” è, semmai, questa patetica e stucchevole linea difensiva, puntualmente apprestata alle prime procellarie giudiziarie: una strategia in genere tanto più insistita, quanto maggiore è la carenza di argomenti nel merito. Non ci si difende più dalle imputazioni, ma si accusa l’accusatore di essere prevenuto, di avere un obbiettivo politico, di non avere una specchiata carta di identità professionale. Insinuazioni gravi sempre, ma tanto più quando a formularle sono esponenti politici o, peggio, rappresentanti di altri poteri dello Stato.
Questo ricorrente refrain vittimistico del politico inquisito, oltre che costituzionalmente sgrammaticato, risulta quindi altresì offensivo dell’intelligenza di noi cittadini, anche se bisogna riconoscere che autorevoli esponenti della magistratura si siano premurati di garantirgli un soccorrevole alibi, arrivando ad affermare che non esistono politici innocenti, ma soltanto colpevoli non scoperti. Espressione mirabilmente incisiva per rappresentare ciò che il potere giudiziario non deve mai presumere. Come pure, altro esempio di patologica esondazione istituzionale, non mancano inquirenti che, con il petto estroflesso contro il malcostume e la criminalità, invece di limitarsi ad accertare i fatti di presumibile rilevanza penale, si autoinvestono del compito di combattere devianti fenomeni sociali, preoccupandosi di conquistare personale consenso, cioè di perseguire l’obbiettivo che è proprio del politico. Sono alcuni dei tanti esempi di un’acerba consapevolezza dei limiti del proprio ruolo istituzionale, manifestazioni di una «Costituzione materiale» ancora in via di consolidamento.
L’immaturità democratica, ovviamente, non riguarda soltanto i rappresentanti istituzionali, ma anche gli operatori dell’informazione e noi collettività. Non si potrebbe spiegare altrimenti, a voler rimanere nel nostro ambito tematico, come si sia passati, in un torno di tempo assai breve per la storia, dall’esaltante stagione in cui alla magistratura venivano affidate le sorti di un’Italia che altrimenti sarebbe marcita nella corruzione all’odierna temperie in cui sembra che se non si mette subito mano a una riforma non solo della giustizia, ma anche della stessa magistratura – ormai percepita al pari di una deviante loggia massonica – il Paese sarà sempre percorso da destabilizzanti e oscure trame giudiziarie. Con il determinante concorso dei mass media, l’opinione pubblica è ciclicamente investita da folate emotive che la sospingono verso convinzioni manichee. Per rimanere in argomento: come non mancavano allora impropri protagonismi, indignitose gogne mediatiche, indebite supplenze, non fa difetto oggi una magistratura che nella sua grande maggioranza amministra giustizia con dignità e con prudenza. Del resto, le intollerabili degenerazioni nel governo della stessa sono mediaticamente visibili da ieri, ma non nascono ieri.
Ciò non toglie ovviamente che a tali degenerazioni si debba cercare di porre ora rimedio senza poter attendere i tempi di una auspicabile, compiuta, maturazione istituzionale. Maturazione che del resto non può che essere favorita da più robusti guard rail normativi là dove si sono registrati vistosi sbandamenti dalle carreggiate dello Stato di diritto. Pensiamo, ad esempio, all’opportunità di precludere qualsiasi alternanza tra funzioni giudiziarie e funzioni politiche o di non lasciare la valutazione dell’operato dei magistrati ad una chiusa autodichìa. L’importante è che nel mettere mano a un settore vitale e sensibilissimo in ogni Stato democratico, quale la funzione giurisdizionale, il legislatore abbia per questa funzione il rispetto che alcuni dei suoi rappresentanti non hanno mostrato di avere. Altrimenti, come la nostra storia anche recente insegna, si rischia di introdurre, pur sulla scia di una comprensibile e fondata indignazione, rimedi peggiori del male che intendono curare.
Trent’anni fa, quando la politica era investita da un diffuso discredito e aleggiava l’idea che soltanto la magistratura potesse garantire al Paese «magnifiche sorti e progressive», a furor di popolo “giudiziarizzato” venne tolto ai parlamentari l’abusato scudo dell’autorizzazione a procedere e venne sfregiata la Costituzione inserendo la “giuridicolaggine” dell’autorizzazione ad intercettare.
Oggi è la politica che sembra cedere alla tentazione di maramaldeggiare con una magistratura fortemente screditata nell’immaginario collettivo, imponendo il ricorso al sorteggio per designare i componenti togati del Consiglio superiore della magistratura. Un’umiliazione gratuita e disfunzionale (e se il sorteggio finisse per favorire quasi soltanto appartenenti a una stessa corrente? E se il sorteggio selezionasse magistrati assolutamente inadatti alle delicate funzioni che sarebbero chiamati a svolgere? Almeno, nella inaccettabile logica lottizzatoria, mai abbastanza deprecata, ogni corrente ha cercato tendenzialmente di promuovere i migliori tra i propri iscritti). E un inquietante precedente: ove dovessimo rinunciare alle regole tutte le volte che ne viene fatto cattivo uso, la stessa democrazia vacillerebbe. Persino i nostri vertici istituzionali vengono talvolta nominati a seguito di mercanteggiamenti degni di un suk, ma a nessuno verrebbe in mente di sceglierli a sorte. Non accetteremmo di affidare al caso neppure la nomina del sindaco di un borgo sperduto.
Confidiamo che, se si saprà intervenire con fermezza e con misura, la magistratura potrà gradualmente recuperare quella credibilità sociale di cui non solo essa, ma la democrazia ha urgente bisogno. Vi è infatti, nell’attuale situazione, un’insidia poco avvertita, e per questo pericolosa. Quando trent’anni fa spirava un vento iconoclasta in qualche modo somigliante all’attuale, sia pure con diverso bersaglio, la magistratura costitutiva, del tutto impropriamente, un punto di riferimento ideale per un Paese orfano di credibili guide politiche. Oggi, il discredito in cui è sprofondata la magistratura non è compensato da un recupero di fiducia nella politica. Smagnetizzata ogni bussola, il Paese potrebbe seguire una volta ancora il pifferaio magico di turno.