Correva l’anno 1996 e si discuteva di come uscire da Tangentopoli. Ma anche di come limitare l’ingresso dei magistrati in politica, con Parlamento, Governo, Anm e Csm che si rimpallavano la responsabilità della mancanza di regole stringenti, soprattutto contro i “candidati in casa”, vale a dire nel collegio elettorale dove fino al giorno prima avevano amministrato giustizia e dove tornavano in caso di mancata elezione o di scadenza del mandato. Non si andò oltre una generalizzata moral suasion (ai magistrati e ai partiti). Il risultato fu una riduzione delle nuove candidature (18, rispetto alle 26 del ‘94) e un dimezzamento degli eletti (in totale 22, compresi i veterani che si ricandidarono). Con una novità: se fino ad allora la maggioranza dei magistrati prestati alla politica sedeva nei banchi del Centrosinistra, quell’anno ci fu il sorpasso del Centrodestra, con 12 toghe del Polo e 10 dell’Ulivo.
Tra queste ultime c’era anche Elvio Fassone, all’epoca giudice della Corte d’appello di Torino, ex membro del Csm e autore di importanti pubblicazioni su processo penale e carcere (di recente ha scritto un libro bellissimo dal titolo Fine pena, ora). Dopo aver rifiutato per tre volte consecutive la candidatura, quell’anno Fassone decise di accettarla e di correre nel limitrofo Collegio senatoriale di Pinerolo-Val di Susa. A molti sembrò un predicar bene e razzolar male da parte di chi (Pds e Ulivo) aveva addirittura lanciato la sfida contro i “candidati in casa”. Ma Fassone non ci ripensò.
«Non mi candiderei in un altro Collegio perché non mi piace l’idea di essere votato soltanto perché lo dice un partito e non per quello che sono e per quello che ho fatto», mi spiegò in un’intervista. Parole di buon senso, figlie di un’idea alta della politica, ma che suonavano stonate nell’immediato post-Tangentopoli, con quella corsa sfrenata dei partiti ad acchiappare magistrati, possibilmente famosi per qualche indagine, a prescindere dalle loro storie personali e professionali. Toghe come stars, insomma.
L’Anm tuonava, ma non con un’unica voce: il presidente Nino Abbate di Unicost voleva che i magistrati eletti si dimettessero dalla magistratura mentre secondo i Movimenti riuniti sarebbero dovuti tornare a lavorare in una sede diversa da quella di provenienza.
Più articolata la posizione dell’allora segretario Edmondo Bruti Liberati (Md): «Ci sono magistrati che hanno acquisito una notorietà a livello locale o nazionale per la loro attività professionale e intellettuale, per i quali è del tutto indifferente che si presentino nella stessa circoscrizione in cui hanno lavorato. Ci sono invece magistrati, soprattutto Pm, che hanno acquisito una rapida notorietà attraverso i media per una serie di iniziative processuali: qui la prudenza consiglierebbe di non candidarsi, perché dietro il nome del magistrato c’è il nome di un processo». Parole, anche queste, di buon senso, figlie di un’idea alta della magistratura.
Bruti era convinto che si dovesse lasciare alla sensibilità dei singoli, partiti e magistrati, la decisione sul se e dove candidarsi, nonché sulle conseguenze di questa decisione, ovviamente in un quadro di regole che, lungi dall’escludere di fatto i magistrati dall’elettorato passivo, garantissero un adeguato bilanciamento del loro diritto con i valori costituzionali attinenti la funzione giurisdizionale, in particolare quello di essere, e anche di “apparire”, imparziali.
Negli anni successivi, con il nuovo Ordinamento giudiziario del 2006, furono introdotti alcuni paletti, ritenuti però insufficienti dal Csm che, fin dal 2010 e poi ancora nel 2015, ha approvato risoluzioni dal peso più politico che pratico, con le quali invita il legislatore a varare misure restrittive (in particolare per le elezioni amministrative).
Nel frattempo, magistrati noti e meno noti hanno continuato a candidarsi (in Europa, alle politiche, in sede locale), non sempre con esiti onorevoli, alimentando ciclicamente le polemiche. Valgano per tutti il caso del pm di Palermo Antonio Ingroia e quello di Michele Emiliano, prima sindaco di Bari e adesso presidente della Regione Puglia, cui si contesta l’aggravante dell’iscrizione al Pd e della partecipazione alle primarie per la segreteria del partito.
Ora corre l’anno 2017 e i magistrati hanno perso l’appeal di una volta visto che (in base ai dati del Csm) quelli “scesi in politica” si contano sulle dita di due mani (6 i parlamentari, italiani e europei; 2 i sottosegretari; 2 gli amministratori locali). Se poi guardiamo alle commissioni Giustizia delle Camere, di mano ne basta una sola: sono 3 al Senato, su un totale di 24 senatori, e 2 alla Camera, su 45 deputati. In netta minoranza rispetto agli avvocati, che nelle commissioni Giustizia di Palazzo Madama e Montecitorio sono, rispettivamente, 11 e 27 (gli altri componenti sono giornalisti, insegnanti, professori delle più svariate discipline), anche se i penalisti continuano a lamentarsi che le leggi in materia di giustizia le fanno i magistrati, che «occupano» il Parlamento e soprattutto gli uffici legislativi dei ministeri «esprimendo di fatto un controllo indebito sulle leggi».
Un’accusa reiterata, che tuttavia non è riuscita in quasi tre anni a far resuscitare il ddl Palma/Zanettin/Casson su «candidabilità, eleggibilità e ricollocamento dei magistrati in occasione di elezioni politiche e amministrative nonché di assunzione di incarichi di governo nazionale e negli enti territoriali» (Atto Senato 116), approvato l’11 marzo 2014 a Palazzo Madama ma poi arenatosi alla Camera.
C’è riuscito invece Augusto Minzolini, il senatore di Forza Italia condannato per peculato a 2 anni e 9 mesi per fatti risalenti a quand’era direttore del Tg1, ma “salvato” dalla decadenza da senatore perché, secondo Palazzo Madama, la condanna in appello fu “viziata” dalla presenza nel collegio del giudice Giannicola Sinisi, ex parlamentare della Margherita che, per questa sua trascorsa militanza politica, si sarebbe dovuto astenere (per inciso: nel processo Minzolini non ricusò mai Sinisi).
Un voto trasversale e bizzarro, carico di voglia di rivalsa della politica nei confronti dei magistrati, che invece di diventare un caso politico e giuridico si è trasformato in una ghiotta occasione per mettere alla sbarra i magistrati e la loro “voglia di politica”. Il caso Emiliano, poi, ha fatto il resto.
Ecco, dunque, che il ddl Palma si è magicamente svegliato dal letargo triennale e il 30 marzo ha guadagnato il sì della Camera oltre a un largo consenso popolare e, soprattutto, al plauso dell’Anm. Che, anzi, chiede al Senato (dove il testo è tornato per l’approvazione definitiva) di essere ancora più severo, soprattutto sul rientro in servizio delle toghe, finita la carriera politica. Così severo che c’è il rischio che il diritto di elettorato passivo rimanga sulla carta o che a candidarsi siano, in futuro, soltanto i magistrati già intenzionati a lasciare la toga.
Ma siamo proprio sicuri che questo sia un bene?
Purtroppo, la mancanza di un self restraint effettivo e, in generale, lo smarrimento dell’etica, spingono a legiferare, vietare, punire, con il rischio di conseguenze estreme, spesso demagogiche. Anche se i numeri non spingono in questa direzione. Eppure, la magistratura sembra convinta che la soluzione legislativa drastica sia l’unica strada da percorrere. Forse perché così – attraverso questa netta presa di distanza dalla politica – pensa di ri-legittimarsi agli occhi di quella fetta di opinione pubblica convinta che chi decide di indossare la toga lo faccia non per vocazione ma con un occhio al seggio parlamentare. Di più: nella posizione dell’Anm sembra implicito - forse anche qui in chiave di rivalsa – un giudizio negativo sulla politica, o quanto meno su “questa politica”, con la quale è meglio “non sporcarsi le mani”.
Tuttavia, anche se le elezioni sono alle porte e magari qualcuno sta già scaldando i muscoli, più che leggi ad uso e consumo dell’apparenza sarebbero necessari “comportamenti concludenti” che inverino il valore dell’imparzialità senza demonizzare la politica e chi decide di mettersi al suo servizio, come tanti bravi magistrati hanno fatto, dando un contributo essenziale alla qualità del dibattito e delle leggi in materia di giustizia. Perché, diciamolo, la mancanza dei Fassone si sente...
Al momento il ddl Palma si è di nuovo inabissato in commissione Giustizia dove, pur rimanendo all’ordine del giorno, non è più trattato come priorità. Sarà l’effetto della sconfitta di Emiliano alle primarie Pd? Certo è che il clamore si è spento. Il pericolo “non è più attuale”, verrebbe da dire, e non se ne discute più. In nessun modo.
E invece è proprio in questi momenti che bisognerebbe riprendere a ragionare: lontano dai riflettori mediatici, con la mente fredda e senza pregiudizi.
Ovviamente non si può ignorare quella fetta di opinione pubblica che percepisce l’ingresso in magistratura come scelta finalizzata a fare politica. I dati raccolti nel corso dell’indagine Magistrati e cittadini – condotta per la Scuola della magistratura da Nadio Delai e Stefano Rolando – dicono che, mentre solo lo 0,1% dei magistrati intervistati sostiene di aver fatto questa scelta professionale pensando che possa facilitare l’ingresso in politica, ben il 17,8% della popolazione è invece convinta che questa – la politica – sia la motivazione principale dell’ingresso in magistratura.
Il che certamente non giova all’imparzialità percepita.
Ma attenzione: l’ossessione dell’”apparenza” non sempre giova all’imparzialità effettiva, che rischia di rimanere in ombra a beneficio esclusivo della prima. Né giova all’esercizio indipendente della giurisdizione l’ansia di corrispondere a un’immagine di giudice piuttosto che ad un’altra per conquistare consensi, compiacere o tranquillizzare. Il rischio - come ben ci ricorda la saggezza popolare, e talvolta anche la cronaca - è che spesso l’apparenza inganna...
Donatella Stasio