Corpo e procreazione medicalmente assistita.
I nodi ancora irrisolti della disciplina italiana
Nel valutare la stretta ed ineludibile connessione tra il tema del Corpo e quello della procreazione medicalmente assistita, il contributo mette in luce le molte contraddizioni cui ha dato luogo l’applicazione in concreto della l. n. 40 del 2004. Dopo aver ripercorso i principali passaggi della “parabola giudiziaria” della l. n. 40/04, si sofferma sui numerosi nodi ancora irrisolti della disciplina sulla fecondazione artificiale, evidenziando come in Italia questa controversa vicenda sia stata denotata da un’evidente cesura tra il momento della produzione normativa, astratta e generale, e la valutazione della concretezza dell’oggetto regolato.
1. Premessa: la rimaterializzazione della persona fisica
Le innovazioni scientifiche e tecnologiche, che accompagnano in maniera sempre più intensa l’evoluzione della storia umana, hanno assunto un rilievo sempre più importante per il diritto nello svolgimento della sua primigenia funzione di regolazione della vita associata e di risoluzione dei conflitti. L’innegabile valenza della dimensione scientifico-fattuale di alcune fattispecie giuridiche ha contribuito a riscoprire la concretezza del corpo umano, sollecitando così una rinnovata concettualizzazione della persona, quale soggetto di diritto assunto nella sua pluridimensionalità, fisico-corporale ed esistenziale[1].
Nel corso dell’ultimo secolo e, in particolar modo, attraverso un doveroso inquadramento dell’esperienza giuridica della nuova cornice dei valori costituzionali, racchiusi nella Carta del 1948, si è assistito ad una rivalutazione del corpo umano, in carne ed ossa, punto di collisione tra sfera dell’autorità pubblica e delle libertà individuali[2], fucina e punto di emersione di situazioni giuridiche soggettive, che non possono essere adeguatamente comprese e regolate se non ricomponendo e ricollegando alla «maschera»[3] della persona la concreta realtà corporale.
Anche le tecniche di procreazione medicalmente assistita (d’ora in poi: PMA), rese possibili dal perfezionamento della medicina della riproduzione offrono ulteriori e determinanti motivi per ribadire la materialità corporea della persona, per declinare in concreto il principio personalista e abbandonare definitivamente la strada della smateriliazzazione fisico-corporale della persona[4]. L’intima ed ineludibile connessione tra il tema del Corpo e quello della procreazione consente, dunque, di riflettere sulle dinamiche e sugli andamenti delle trasformazioni dapprima richiamate e di cogliere il senso di una mutata riflessione sul Corpo.
In quest’ottica,prendendo le mosse da alcune osservazioni generali relative all’impostazione di fondo,fatta propria dal legislatore italiano del 2004, nel regolare le pratiche di fecondazione artificiale, si vogliono mettere in luce le molte incongruenze cui ha dato luogo l’applicazione in concreto della l. n. 40/2004, incongruenze che solo in parte sono state superate attraverso il massiccio ricorso alla giurisprudenza, europea ed interna, costituzionale e di merito[5]. In particolare, ci si concentrerà sui nodi ancora irrisolti di questa controversa vicenda, denotata da un’evidente cesura tra il momento della produzione normativa, astratta e generale, e la valutazione della concretezza dell’oggetto regolato.
2. L’embrione e il Corpo della madre. L’irragionevole regolazione legislativa del potenziale conflitto nelle pratiche di fecondazione artificiale
Il legame tra sfera corporale e vita nascente assume una connotazione peculiare, di assoluta inscindibilità, quando interessa il Corpo di una donna, e ciò resta ugualmente valido anche qualora la fecondazione dovesse avvenire in vitro ed a prescindere dalla provenienza dei gameti fecondati. Se è vero, infatti, che le moderne tecnologie riproduttive permettono di scindere la riproduzione dalla sessualità[6] e, laddove consentito dall’ordinamento, supportano la distinzione tra genitorialità genetica, uterina e giuridico-sociale[7], è altrettanto vero che, ad oggi, nessuna tecnologia consente di prescindere dal Corpo di una donna e, in particolare, dal suo utero, per la gestazione e la nascita di un feto, comunque concepito.
Questa “evidenza scientifica”[8], al momento inconfutabile, può costituire un punto di partenza utile a svelare le non poche contraddizioni in cui è incappata la legge n. 40 del 2004, che, dopo una lunga – ma non per questo approfondita – discussione[9], ha introdotto nell’ordinamento giuridico italiano la prima regolamentazione legislativa delle tecniche di fecondazione assistita.
La prima impressione che emerge da una lettura complessiva del dato legislativo è quella della predisposizione di un impianto molto forte di garanzie a favore del concepito, «soggetto»[10] debole coinvolto nelle pratiche di fecondazione assistita, i cui interessi, non meglio specificati, si porrebbero in stridente contrasto con quelli degli aspiranti genitori. Trascurando che, differentemente dal caso dell’aborto[11], in questa vicenda l’aspirazione di vita dell’embrione costituisce il motivo di fondo che spinge una coppia a ricorrere alla procreazione artificiale, alcune disposizioni della legge 40, nella loro originaria formulazione, prefiguravano una prevalenza degli interessi dell’embrione sul diritto alla salute della madre, che pur necessariamente deve accoglierlo nel proprio Corpo (essendo tra l’altro vietata la gestazione per altri[12]) per portare a compimento il progetto di vita. Vietando infatti la revoca del consenso al trattamento dopo la fecondazione dell’ovulo (art. 6, co. 3) e ammettendo la sospensione del trasferimento in utero degli embrioni creati in vitro solo per «grave e documentata causa di forza maggiore relativa allo stato di salute della donna non prevedibile al momento della fecondazione»(art. 14, co. 3), la legge 40 ha finito per trascurare la «incidenza se non esclusiva sicuramente prevalente, dello stato gravidico sulla salute sia fisica che psichica della donna»[13]. Ed ancora, per evitare il sistematico ricorso alla sovrapproduzione embrionaria, con successiva crioconservazione degli embrioni non trasferiti, l’art. 14 della l. n. 40 imponeva al medico di produrre massimo tre embrioni e di procedere ad un unico e contemporaneo impianto anche nei casi in cui la più accreditata scienza medica avrebbe suggerito un graduale trasferimento dei medesimi[14] o una più alta produzione di embrioni[15].
Proprio su quest’ultimo disposto si è appuntata la prima decisione caducatoria della legge da parte della Corte costituzionale, la sentenza n. 151/09, le cui argomentazioni riprendono un consolidato filone giurisprudenziale sui rapporti tra discrezionalità legislativa e autonomia della scienza medica, in vista del fondamentale obiettivo di ricondurre a ragionevolezza il bilanciamento tra gli interessi dell’embrione e il diritto alla salute della madre, nella consapevolezza che la tutela del primo non può essere assoluta[16] ma può subire limitazioni necessarie per salvaguardare la salute della donna. In questo senso, la sent. n. 151/09 non solo ha restituito alla prudente e competente valutazione medica la decisione, da assumersi caso per caso e sulla base delle condizioni cliniche della paziente sottoposta a PMA, sul numero di embrioni da produrre, impiantare ed eventualmente crioconservare, ma ha anche avuto il merito di riportare nella giusta prospettiva il rapporto madre-embrione, evidenziando come la salvaguardia della salute della prima costituisca requisito indispensabile per il buon esito del progetto procreativo e, dunque, anche per il soddisfacimento del diritto alla vita dell’embrione.
Tale argomento è ulteriormente ripreso e sviluppato nella successiva e molto attesa[17] sentenza n. 96 del 2015 con la quale la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 1 e 4 della l. n. 40 nella parte in cui esplicitamente vietavano l’accesso alla PMA a coppie fertili portatrici di malattie a trasmissione genetica, interessate pertanto a ricorrere a tale pratica, non già per il superamento di problemi di sterilità o infertilità, quanto per poter praticare sull’embrione prodotto in vitro esami diagnostici e, all’esito di questi, poter eventualmente evitare il trasferimento degli embrioni malati. Passaggio fondamentale della decisione – complessivamente apprezzabile per plurime ragioni[18] – è ancora una volta la salvaguardia della salute psico-fisica della donna e la necessità di un ragionevole bilanciamento tra questa e gli interessi costituzionali facenti capo al nascituro. Molto realisticamente e facendo leva su ragioni di coerenza sistematica, la Corte costituzionale ha ravvisato nel divieto assoluto di accesso alla PMA con diagnosi genetica preimpianto, da parte di coppie affette o portatrici sane di malattie a trasmissione genetica, un evidente vizio di irragionevolezza. Non solo, infatti, il giudice costituzionale ha evidenziato che alle medesime coppie cui è precluso dalla legge 40 il ricorso alla diagnosi genetica preimpianto è invece (e quindi contraddittoriamente) consentito il successivo ricorso all’aborto terapeutico – quando da indagini prenatali, svolte sull’embrione oramai impiantato, dovessero accertarsi patologie dello stesso aventi gravi ricadute sulla salute psicofisica della madre[19] – ma, per questa via, ha anche rilevato la palese inadeguatezza del divieto di diagnosi preimpianto al perseguimento del fine cui sarebbe preposto: è intuitivo del resto che l’aspettativa di vita del nascituro sarebbe comunque frustrata dal successivo aborto terapeutico, praticato tra l’altro in una fase di più avanzato sviluppo dell’embrione e quindi con ben più gravi ricadute sulla salute dello stesso e della madre.
Una volta riconosciuta la funzionalità degli esami diagnostici preimpianto alla soluzione di problemi di salute, soprattutto della donna, la Corte si è nuovamente[20] premurata di salvaguardare anche gli interessi costituzionali facenti capo al nascituro: e così, da un lato ha precisato che, per ragioni di cautela, l’accertamento delle patologie a trasmissione ereditaria debba avvenire in apposite strutture pubbliche specializzate; dall’altro, ha ulteriormente specificato che gli esami diagnostici debbono mirare al «fine esclusivo della previa individuazione di embrioni cui non risulti trasmessa la malattia del genitore comportante il pericolo di rilevanti anomalie o malformazioni (se non la morte precoce) del nascituro alla stregua del medesimo “criterio di gravità”»[21] di cui all’art. 6 della legge n. 194/78. Tale precisazione – accompagnata dal monito rivolto al legislatore di procedere ad individuare ed aggiornare periodicamente, anche sulla base dell’evoluzione tecnico-scientifica, le patologie a trasmissione ereditaria – persegue il fondamentale scopo di evitare il ricorso ad esami genetici predittivi al di fuori delle ipotesi di individuazione di anomalie o malformazioni embrionali aventi gravi ripercussioni della salute psicofisica della madre, contribuendo così a rimarcare la distanza tra la selezione genetica preimpianto, praticata a fini medico-preventivi, ed il reato di selezione a scopo eugenetico degli embrioni (art.13, co. 3, lett. b)[22].
3. La “sorte” degli embrioninon impiantati
Benché i plurimi interventi “correttivi” del giudice costituzionale abbiano già profondamente inciso sull’impianto originario della legge 40, nella normativa italiana sulla fecondazione artificiale continuano a rinvenirsi aspetti problematici e questioni irrisolte, rispetto alle quali si auspica un sollecito e chiaro intervento degli organi politici, piuttosto che la loro puntiforme definizione in occasione di nuovi contenziosi giudiziari.
In primo luogo, tenuto conto della praticabilità delle indagini genetiche preimpianto, andrebbe cancellato il riferimento, di cui all’art. 14, co.3, l. n. 40/04, alla non prevedibilità, al momento della fecondazione, delle cause di ordine sanitario che ostano al trasferimento degli embrioni, giacché la richiesta di accesso alla diagnosi preimpianto è funzionale proprio a verificare l’eventuale trasmissione all’embrione della malattia di cui i genitori sono affetti o portatori sani e della quale temono la trasmissione ereditaria.
In secondo luogo, andrebbe chiarito il destino degli embrioni non trasferiti, in quanto tale questione è stata solo parzialmente affrontata dalla Consulta nella recente sent. 229/2015[23] che, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 13 della legge 40, nella parte in cui contemplava il reato di selezione embrionaria anche nei casi in cui questa sia effettuata a fini medico-preventivi – e cioè alle condizioni e secondo le modalità esplicitate nella sent. 96/2015 –, ha altresì disposto la crioconservazione obbligatoria e di durata indeterminata degli embrioni selezionati, in quanto risultati affetti da grave patologia ereditaria[24]. A ben vedere, ad oggi,gli embrioni crioconservati non sono solo quelli rispetto a quali sia stata praticata una selezione genetica preimpianto, ma anche quelli cd soprannumerari prodotti prima dell’entrata in vigore della legge n. 40/04, nonché quelli creati dopo la sentenza n. 151/09 e dunque non trasferiti, non necessariamente per anomalie genetiche, ma per evitare effetti pregiudizievoli sulla salute della madre. Opportunamente le Linee guide ministeriali del 2008 distinguevano tra embrioni in attesa di futuro impianto, compresi quelli crioconservati prima della legge 40, ed una seconda categoria di embrioni in cd stato di abbandono[25], stabilendo un diverso regime di costi per la crioconservazione (a carico dei centri di PMA per gli embrioni in attesa di futuro impianto; a carico dello Stato per gli embrioni in stato di abbandono). Diversamente le nuove Linee guida approvate nel 2015 non dispongono nulla a riguardo, ma rinviano a quanto previsto nel paragrafo E.9 dell’Accordo Stato-Regioni[26] stipulato il 15 marzo 2012. Tale atto contiene tuttavia una regolamentazione parzialmente diversa, non solo sull’allocazione dei costi per il congelamento, ma anche riguardo alla qualificazione degli embrioni crioconservati. L’Accordo Stato-Regioni del 2012 stabilisce infatti che «tutti gli embrioni che sono in attesa di un futuro impianto» vanno congelati e crioconservati presso i Centri dove vengono effettuate le tecniche. Quanto al sostentamento delle relative spese si rinvia alla «normativa vigente», che, in effetti, fino al 2015 era contenuta nelle già citate Linee guida ministeriali del 2008, oggi sostituite da quelle approvate il 1° luglio 2015, le quali, tuttavia, su questo specifico aspetto, si limitano a richiamare l’Accordo del 2012 che, a sua volta, rinvia alle Linee guida del 2008[27].
Quanto agli embrioni in «stato di abbandono», l’Accordo del 2012 affida alle Regioni e alle Province autonome la regolazione del regime dei costi e quindi, ancora una volta, si rinvia ad atti di futura approvazione; ma, in particolare, va evidenziato che l’Accordo qualifica come embrioni abbandonati quelli prodotti prima dell’entrata in vigore della legge 40. Non è facile comprendere il senso di questa precisazione, che sì rileva sotto il profilo dell’individuazione dei soggetti competenti a regolare il regime dei costi, ma non influisce nell’immediato e praticamente sullo stato degli embrioni abbandonati, per i quali si dispone in ogni caso la crioconservazione. Non è chiaro, in particolare, se detti embrioni, prodotti prima della l. n. 40, debbano oramai ritenersi inidonei all’impianto (in considerazione dell’eccessiva durata della crioconservazione?) o se, invece, anche per questi, i centri di PMA debbano sopportare i costi di congelamento in vista di una futura richiesta di impianto.
Ad ogni modo, la sorte di questi embrioni crioconservati è ad oggi indefinita ed, infatti, nel Comunicato stampa del Ministero della Salute diramato il 1° luglio 2015, in occasione dell’approvazione delle nuove linee guida, il ministro Lorenzin ha annunciato l’imminente approvazione di un apposito decreto sugli embrioni abbandonati.
Queste considerazioni ci portano ora ad analizzare più approfonditamente un'altra problematica previsione della l. n. 40/04 e cioè il divieto di revoca del consenso all’impianto di cui al già citato art. 6, co. 3. Tale divieto rileva particolarmente ai nostri fini in quanto esso denota l’eccesso di astrazione della legge n. 40 e cioè la sua incapacità di calarsi e adattarsi alle peculiarità dei casi concreti, oltreché la già criticata tendenza a contrapporre a priori gli interessi dell’embrione e quelli della coppia ed, in particolare, della donna che dovrebbe accoglierlo nel proprio Corpo[28]. Chiari ed insormontabili ostacoli giuridici impediscono la configurazione di un aberrante obbligo di trasferimento coattivo dell’ovulo fecondato contro la divergente volontà manifestata dalla madre, che pur aveva precedentemente acconsentito alla creazione dell’embrione; anche qualora si insistesse nel voler ricavare dalla lettera dell’art. 6 un obbligo in capo al medico e ai genitori, si tratterebbe evidentemente di un obbligo non coercibile, in quanto l’impianto coattivo dell’embrione si risolverebbe in un trattamento sanitario obbligatorio sicuramente irrispettoso della persona umana[29], giacché capace di degradare il Corpo della madre a mera incubatrice, senza contare che, ancora una volta, esso non sarebbe funzionale a garantire il diritto alla vita dell’embrione evidentemente esposto al successivo ricorso da parte della donna all’IVG anche in considerazione delle circostanze in cui è avvenuto il concepimento (art. 4, leggen. 194/78).
Né sarebbe risolutiva, ai fini della definizione della sorte degli embrioni non impiantati, la diversa valutazione dei motivi che hanno indotto la donna a revocare il consenso all’impianto. Se, infatti, alla luce di quanto precedentemente esposto e adeguatamente argomentato nella sent. n. 96/2015, si può giungere a riconoscere la legittimità della revoca del consenso all’impianto quando questo determinerebbe conseguenze pregiudizievoli sulla salute della madre, non si comprende ugualmente quale destino debba spettare agli embrioni il cui impianto sia stato rifiutato dalla donna per altri motivi (magari deplorevoli) diversi da quelli medico-sanitari[30]. Tali embrioni non possono essere soppressi per esplicito divieto contenuto nell’art. 14 della l. n. 40, né possono essere impiantati coattivamente, per le ragioni già esposte[31]. Ed infatti,tanto le Linee guida del 2008[32] quanto quelle del 2015, ne prevedono il congelamento, finendo così però coll’introdurre un’ulteriore deroga al divieto legale di crioconservazione. Ed allora, delle due, l’una: o la normativa contenuta a riguardo nei decreti ministeriali è illegittima e, come tale, disapplicabile o annullabile, in quanto introduce con fonte sub-legislativa una deroga al divieto di crioconservazione di cui all’art. 14, co. 1, della l. n. 40[33]; oppure è quest’ultimo ad essere incostituzionale nella parte in cui vieta la crioconservazione di embrioni non impiantati per motivi diversi da quelli sanitari, così frustrando le aspettative di vita di questi ultimi che potrebbero trovare soddisfacimento attraverso il successivo impianto nell’utero di un’altra donna, laddove fosse regolata la pratica dell’adozione degli embrioni abbandonati, come suggerito dal Comitato nazionale di Bioetica nel parere del 18 novembre 2005[34].
Ancora una volta dunque è la rigidità della legge 40 e la sua scarsa capacità di adattarsi alla singolarità di casi concreti a denotarne profili di incostituzionalità.
4. L’utilizzo a scopo sperimentale di embrioni inidonei all’impianto
Questione limitrofa, ma distinta da quelle sinora trattate, è quella della possibile destinazione degli embrioni abbandonati alla ricerca scientifica. Non pochi dubbi sussistono, infatti, in ordine alla legittimità costituzionale del divieto di ricerca e ogni forma di sperimentazione non terapeutica sugli embrioni prodotti in vitro (art. 13), laddove esso coinvolga anche embrioni assolutamente inidonei all’impianto.
Lungi dal voler mettere in discussione l’obbligo di tutela costituzionale del diritto alla vita dell’embrione e della sua integrità –che appunto vieta di ridurre lo stesso a mero “serbatoio” di materiale (soprattutto cellule staminali) utile per lo svolgimento di attività di ricerca e sperimentazione – bisogna però valutare, con attento spirito critico e con grande pragmatismo, quali conseguenze produce un divieto assoluto di sperimentazione, quale quello di cui all’art. 13, che interessa anche embrioni inidonei all’impianto e, dunque, alla nascita. Il dubbio che sovviene a tal proposito è quello di una eccessiva, e perciò irragionevole, compressione di altre istanze fondamentali, quali la libertà di ricerca scientifica (artt. 9 e 33 Cost.) e la tutela della salute individuale e collettiva (art. 32), evidentemente connessa all’avanzamento dell’attività di ricerca in ambito biomedico.
Pur consapevoli che, allo stato attuale della ricerca scientifica, il prelievo da un embrione di cellule staminali pluripotenti ne determina la soppressione, non si possono trascurare i benefici che potrebbero discendere da un avanzamento degli studi sull’uso delle cellule staminali embrionali[35], in vista non tanto dell’accrescimento delle conoscenze, ma della possibile sperimentazione di terapie funzionali a salvaguardare il diritto alla salute di molte persone affette da malattie ad oggi incurabili. È indispensabile precisare che il dubbio di costituzionalità qui paventato[36] non investe l’art. 13 nella sua interezza; infatti l’ipotesi di una destinazione a scopo di ricerca degli embrioni inidonei all’impianto è ben diversa da quella, appunto vietata dall’art. 13, di produzione deliberata di embrioni umani a fini di ricerca, sperimentali o comunque diversi da quelli procreativi. Ma soprattutto, va considerato che la produzione di linee cellulari di staminali destinate alla ricerca non frustrerebbe, nel caso anzidetto, le speranze di vita di embrioni che in futuro potrebbero aspirare a nascere; la specifica ipotesi qui prospettata riguarda solo embrioni, che, a seguito di accurate indagini, presentino gravi anomalie irreversibili, tali da non consentirne l’impianto nell’utero di qualsiasi donna (non solo la madre, laddove fosse regolata l’adozione degli embrioni per la nascita)[37] a causa delle gravi ricadute che ciò avrebbe sulla loro salute. Con grande realismo non si può che affermare che il destino di questi embrioni è o il deperimento, a seguito dell’abbandono nel terreno di cultura fino alla loro estinzione “naturale”, o la crioconservazione[38], che ugualmente non ne consentirà il futuro impianto, né probabilmente ne impedirà, anche se dopo un lasso di tempo ben più ampio, il deperimento.
In altre parole, quale che saranno le decisioni che ragionevolmente e responsabilmente vorrà assumere al riguardo il legislatore rappresentativo[39] non si può trascurare un dato reale e concreto: se un embrione è assolutamente inidoneo all’impianto, questi non potrà mai vedere soddisfatta la propria aspettativa di vita che – lo si ribadisce – non può prescindere dall’impianto nel Corpo di una donna. Di fronte dunque al deperimento certo o alla crioconservazione sine die, il principio di beneficialità indurrebbe a prendere in considerazione di destinare questi embrioni alla ricerca scientifica, al fine di sperimentare pratiche terapeutiche funzionali a garantire il diritto alla salute di altre persone, sulla falsariga – e con le opportune distinzioni – di quanto previsto in materia di donazione di organi ex mortuo[40].
Si comprendono le ragioni per cui una simile opzione non può essere accolta da chi ritiene illegittima (oltre che eticamente inaccettabile) qualsiasi utilizzazione strumentale e con esito distruttivo degli embrioni, in quanto ne offenderebbe la dignità e il loro diritto alla vita; meno intuibili sono i motivi per cui, in un ordinamento come quello italiano, che vieta la ricerca e la sperimentazione sugli embrioni, persino su quelli inevitabilmente destinati al deperimento, tali attività possono essere invece svolte su linee cellulari staminali importate dall’estero.
5. I divieti legali di concepimento. L’incostituzionalità del divieto di fecondazione eterologa e le prospettive de iure condendo
Non da ultimo, meritano adeguata e specifica trattazione, i limiti soggettivi ed oggettivi di accesso alla PMA tracciati dalla legge 40, dei quali va attentamente valutata l’effettiva idoneità a perseguire la finalità precipua della legge, ovvero la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dall’infertilità, nel rispetto dei diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito (art. 1).
Al riguardo, e prima di ogni altra valutazione, si deve osservare che ogni divieto di concepimento[41], anche quando funzionale ad assicurare la preminenza dei diritti del figlio su quelli degli aspiranti genitori, impedirà tout court la venuta ad esistenza di quell’essere umano. Tale constatazione, di carattere logico prim’ancora che giuridico, merita grande attenzione e ulteriori specificazioni. In primo luogo, è opportuno tenere distinti i divieti di concepimento, che si sostanziano in limiti alla praticabilità del trattamento di PMA (divieto di fecondazione eterologa, di maternità surrogata, di fecondazione post mortem, di accesso alla PMA da parte di single, coppie omossessuali, coppie con membri in età non potenzialmente fertile), dai limiti legali che riguardano l’esecuzione della tecnica, praticata a favore di soggetti legittimamente ammessi al trattamento (limiti alla produzione embrionaria, alla esecuzione di interventi manipolativi, diagnostici, sperimentali o di ricerca sull’embrione prodotto in vitro). Questo secondo ordine di vincoli, che è già stato passato in rassegna, è stato dettato dal legislatore del 2004 allo scopo di salvaguardare l’integrità dell’embrione e la sua aspirazione di vita a fronte di contrapposti interessi. A tal riguardo si è anche precisato, sulla scorta della giurisprudenza costituzionale formatasi in materia, che i legittimi interessi facenti capo al nascituro possono subire una ragionevole e perciò proporzionata limitazionale quando ciò è necessario a salvaguardare gli interessi costituzionali degli aspiranti genitori ed, in particolare, il diritto alla salute della madre.
Ben diversa consistenza assumono i divieti assoluti di concepimento in quanto, come si è detto, essi impediscono del tutto che venga ad esistenza il soggetto, i cui interessi vorrebbero essere salvaguardati a fronte delle pretese degli aspiranti genitori. Il sospetto che si nutre al riguardo è che il legislatore abbia optato per l’adozione di questi divieti partendo dalla convinzione che, per un figlio, è meglio non nascere che essere procreato con l’ausilio di determinate tecniche, per poi trovarsi a vivere in un contesto genitoriale diverso da quello realizzabile attraverso la procreazione “naturale”. Per evitare fraintendimenti – primo fra tutti, quello di pervenire all’erronea conclusione per cui tutto ciò che è tecnicamente possibile debba, solo per questo, considerarsi giuridicamente lecito – occorre verificare compiutamente quali interessi di rango costituzionale giustificano i divieti assoluti di concepimento, per poi valutare gli esiti del bilanciamento compiuto dal legislatore tra questi e gli interessi, di altrettanto rilievo costituzionale, facenti capo agli aspiranti genitori.
A tal fine e ribadendo il proposito di evitare il ricorso ad argomenti di natura non propriamente giuridica e di incerto fondamento costituzionale, si può procedere ad analizzare il divieto di fecondazione eterologa di cui all’art. 4 della l. n. 40/04,che è stato oggetto di un’altra sentenza di annullamento da parte della Corte costituzionale, la n. 162 del 2014, di cui è indispensabile chiarire i presupposti, l’iter motivazionale, nonché la portata e le conseguenze sulla disciplina vigente[42].
Secondo il giudice costituzionale, il divieto assoluto di ricorso alla fecondazione esogamica introdotto dalla legge 40 costituisce la risultante di un irragionevole bilanciamento tra i plurimi interessi costituzionali implicati nella vicenda. Nel precisare che anche la PMA eterologa mira a favorire la vita[43], la Corte ha osservato che il divieto di utilizzo di gameti provenienti da soggetti esterni alla coppia richiedente il trattamento di fecondazione artificiale, proprio in quanto funzionale a rimediare ai problemi di sterilità di questa, si pone in evidente contrasto con la finalità propria della legge[44]; ma soprattutto, tale divieto, per la sua assolutezza, determina un’irragionevole compressione di più interessi costituzionali facenti capo ai membri della coppia, ovvero la loro incoercibile libertà di autodeterminarsi in ordine alla scelta di diventare genitori e il fondamentale diritto alla salute, «nel significato, proprio dell’art. 32 Cost., comprensivo anche della salute psichica oltre che fisica»[45].
Proprio quest’ultimo riferimento, ovvero la riconosciuta strumentalità anche della fecondazione eterologa a salvaguardare il diritto costituzionale alla salute, merita di essere rimarcato ed approfondito in quando denso di importanti implicazioni: anzitutto, la ribadita funzionalità della PMA eterologa a risolvere problemi di salute, anche solo psichica, di uno dei membri della coppia costituisce la ratio più profonda della dichiarazione di incostituzionalità del divieto legale. In altre parole, quando il ricorso alla tecnica di fecondazione esogamica è strumentale alla risoluzione di problemi di salute riproduttiva e, dunque, non è soltanto forma di esercizio della libertà procreativa, esso può incontrare i soli limiti derivanti dall’esigenza di salvaguardare altri interessi di rilievo costituzionale facenti capo al nascituro. A tal riguardo, il giudice costituzionale ha rilevato che il divieto di fecondazione eterologa non trova giustificazione nell’esigenza di garantire il presunto diritto dei figli alla genitorialità biologica, in quanto l’ordinamento giuridico conosce forme di genitorialità che prescindono dal dato biologico, come dimostra la regolamentazione dell’istituto dell’adozione. Tuttavia, proprio in questi casi ed al ricorrere di determinati presupposti (sempre di natura sanitaria), il figlio ha diritto di conoscere la propria origine genetica[46] e, pertanto, la regola della segretezza dell’identità dei donatori di gameti, posta a garanzia della coesione della famiglia sociale, può trovare un giustificato limite nella predisposizione di forme di tracciabilità di donatori di gameti – donatari – nato, funzionali ad assicurare il diritto di quest’ultimo a conoscere la propria origine genetica[47].
Escluso poi che il ricorso alla tecnica di fecondazione eterologa possa comportare, in linea di principio, rischi per la salute del nato, dei donanti e dei donatari di gameti[48], la Corte costituzionale ha altresì evidenziato che alcuni profili di questa vicenda meritano adeguata regolamentazione, solo in parte ricavabile dalla normativa vigente, ma in parte bisognosa di integrazione, senza tuttavia far discendere da questa carenza normativa un limite al proprio sindacato.
I più penetranti e significativi rilievi critici formulati da una parte della dottrina[49] nei riguardi della sentenza n. 162/2014 investono proprio tale questione e, cioè, la valutazione dei condizionamenti e dei vincoli scaturenti dalla decisione in parola sulle scelte politiche espressione della discrezionalità legislativa. In proposito – e pur nella consapevolezza della complessità della questione – è indispensabile specificare alcuni passaggi attorno ai quali si è snodato il ragionamento della Corte: in primo luogo, il giudice costituzionale ha fortemente rimarcato il collegamento strumentale tra accesso alla PMA eterologa e tutela del diritto costituzionale alla salute (art. 32 Cost.); in secondo luogo, ed in stretta connessione con quanto appena precisato, si è evidenziato che, nei riguardi di soggetti affetti da «patologie produttive di una disabilità»[50], le quali non possono essere superate mediante il ricorso ad altri strumenti terapeutici diversi dalla fecondazione esogamica, il legislatore è tenuto a predisporre misure di tutela che, pur potendo soggiacere ai limiti derivanti dall’esigenza di salvaguardare altri interessi costituzionali, non possono sacrificare il nucleo essenziale del diritto costituzionale alla salute.
Solo dalla condivisione del primo argomento si può far discendere quale conseguenza necessitata l’accettazione del secondo passaggio del ragionamento; in altre parole, solo convenendo con la Corte sulla effettiva idoneità del trattamento di fecondazione eterologa alla soluzione di problemi di salute, si può giungere a sostenere che al legislatore non solo è vietato di apporre limiti a tale pratica terapeutica, che non siano funzionali a garantire altri interessi di rilievo costituzionale, ma anche e soprattutto che lo stesso è obbligato a rendere effettivamente esigibile il trattamento di fecondazione eterologa, pena il sostanziale “svuotamento” delle garanzie insite nel diritto costituzionale alla salute.
Pertanto, ritenendo condivisibile – anche se meritevole di specificazione – il presupposto da cui è partita la Corte, ci si può spingere a verificare se, a seguito della sentenza n. 162/2014, siano state poste in essere le condizioni indispensabili per l’accesso al trattamento di fecondazione eterologa, e ciò nella consapevolezza che il diritto ad ottenere trattamenti medico-sanitari è un diritto sociale, come tale condizionato all’attuazione da parte (anzitutto) del legislatore[51]. Ebbene, al riguardo, si deve constatare come, ad oggi, sussistano ancora vari ostacoli di natura propriamente giuridica[52] che fanno dubitare dell’effettivo soddisfacimento del diritto di accesso alla PMA eterologa da parte di coppie assolutamente infertili o sterili. Tali impedimenti si sostanziano prevalentemente nella carenza, specie in alcuni parti del territorio nazionale, di strutture pubbliche o convenzionate, preposte all’erogazione della prestazione sanitaria, nonché nell’indecisione sul regime dei costi del trattamento[53].
Molte e concomitanti ragioni hanno contribuito a determinare questa situazione[54]; pur comprendendo le difficoltà che la politica incontra nel decidere su questioni estremamente delicate e complesse, non si può che stigmatizzare l’atteggiamento passivo e attendista delle istituzioni politiche, la cui inerzia finisce per colpire prevalentemente le coppie più bisognose[55].
Si è ben consapevoli delle importanti conseguenze che sono derivate sull’operato del legislatore da una decisione della Corte che ha inteso garantire non solo la controversa libertà procreativa, ma anche e soprattutto il diritto costituzionale alla salute delle coppie assolutamente sterili, diritto il cui soddisfacimento richiede non già un atteggiamento di astensione da parte dei pubblici poteri, quanto l’assunzione di interventi positivi, vale a dire, nel caso di specie, la predisposizione delle risorse organizzative e finanziarie indispensabili per l’effettiva erogazione di una complessa prestazione medico-sanitaria.
Nondimeno, meritano grande attenzione anche le osservazioni critiche provenienti da quella parte della dottrina attenta a rimarcare le possibili ricadute della decisione della Corte sull’operato del legislatore e sul diritto vigente. La preoccupazione di fondo – alimentata soprattutto dalla poco chiara definizione del rapporto tra diritto di accesso al trattamento terapeutico di fecondazione eterologa, libertà fondamentale di formare una famiglia con figli e ricorso strumentale alle tecniche di procreazione artificiale – risiede nella possibile emersione di una concezione dei diritti costituzionali fortemente dipendente dalle acquisizioni della scienza e della tecnica[56], per cui tutto ciò che tecnicamente possibile costituirebbe perciò solo diritto[57], meritevole della più ampia e doverosa tutela da parte dell’ordinamento giuridico. In effetti, non si può escludere che un’eccessiva enfatizzazione del legame tra benessere psichico e ricorso funzionale alle tecniche di procreazione artificiale possa travolgere anche altri divieti di concepimento di cui alla legge 40, spianando la strada a ricorsi giurisprudenziali il cui eventuale (anche se poco probabile) accoglimento metterebbe seriamente in discussione il già labile confine tra controllo sulla ragionevolezza della legge e valutazione di merito riservate alla discrezionalità politica. Ma proprio in considerazione di ciò, si insiste nel sostenere che è quanto mai opportuno, se non ineludibile, un intervento chiarificatore della politica, volto a specificare quando ed in che contesto possono effettivamente palesarsi e accertarsi problemi di salute riproduttiva risolvibili mediante il ricorso alle tecniche di procreazione artificiale, tecniche che, se ragionevolmente regolate, possono soddisfare non solo l’aspirazione alla genitorialità dei richiedenti, ma anche il diritto alla vita del nascituro, il suo diritto a conoscere la propria origine genetica e quello a vivere in un contesto familiare non dissimile da quello realizzabile mediante la procreazione naturale. Rispetto ad un divieto assoluto di concepimento, la predisposizione di adeguate procedure dialogiche, che vedano coinvolti gli aspiranti genitori, il sapere scientifico e gli operatori del settore, potrebbe contribuire a prevenire il pericolo paventato dalla stessa Corte costituzionale e cioè che si tenda a «soggettivizzare la nozione di salute» e ad «assecondare il desiderio di autocompiacimento dei componenti di una coppia, piegando la tecnica a fini consumistici»[58]. È questo forse il più impellente compito cui è oggi chiamato il legislatore rappresentativo, il quale, pur potendo (rectius: dovendo) perseverare nella predisposizione di più forti tutele nei confronti del soggetto debole convolto nella pratiche di PMA, non potrà ignorare i chiari moniti provenienti dalla giurisprudenza costituzionale, moniti che, più che investire il contenuto della decisione politica – con ciò invadendo l’invalicabile confine della discrezionalità legislativa –, “suggeriscono” una nuova impostazione nella regolazione della fecondazione artificiale: una maggiore attenzione ai diritti costituzionali di tutti i soggetti convolti, in vista di un ragionevole contemperamento degli interessi contrapposti; un atteggiamento dialogante e non ostativo nei confronti del mondo scientifico; la predisposizione di una disciplina laica, pragmatica e possibilista, attenta alla ricadute empiriche e concrete delle astratte previsioni normative.
[1] Ampiamente sul tema, P. Veronesi, Uno statuto costituzionale del corpo, in S. Rodotà - P. Zatti (dir. da), Trattato di Biodiritto, Il governo del corpo, Tomo I, Milano, 2011, pp.137 ss. S. Rodotà, Il diritto ad avere diritti, Roma-Bari, 2012, pp. 140 ss. e spec. p. 162.
Non si vuole, né si può in questa sede entrare nel merito dell’annosa e controversa distinzione tra i concetti di persona e soggetto di diritto; né si intende prendere posizione sull’altrettanto controversa qualificazione dell’embrione come soggetto di diritto. Quale che sia lo statuto giuridico – prima che etico – che si voglia riconoscere all’embrione (piena soggettività giuridica, soggettività condizionata alla nascita o all’impianto, piena parificazione alla persona o persona in divenire, etc.) non cambiano i termini del discorso che qui si vuole condurre e che muovono da una valutazione in concreto e non ideologicamente orientata delle vicende relative alla fecondazione artificiale. Ciò che si può affermare, senza ombra di dubbio, anche sulla base di una consolidata interpretazione della Carta costituzionale, è l’obbligo di apprestare un’adeguata tutela costituzionale nei confronti del concepito, seppur tenuto conto delle peculiari caratteristiche sue proprie, che, in ogni caso, non ne ammettono una reificazione.
[2] P. Veronesi, op.cit., p.138.
[3] P. Zatti, Maschere del diritto, volti della vita, Milano, 2012, passim.
[4] La “smaterializzazione” del concetto di persona è stata perseguita dal diritto in altre epoche storiche in cui, a quell’opera di astrazione della realtà sociale, non di rado si sono accompagnati svariati tentativi di controllo temporale o spirituale del corpo umano, specie di quello delle donne. Sul punto, cfr. L. Ronchetti, Donne e corpi tra sessualità e riproduzione, in www.costituzionalismo.it, 11.04.2006.
[5] Per una panoramica generale dei molti interventi giurisprudenziali che hanno interessato la legge n. 40/2004, v., tra i tanti,G. Nicastro, La normativa sulla procreazione medicalmente assistita “riscritta” dai giudici, in questa Rivista, 2013, pp. 189 ss.; P. Sanfilippo, La riscrittura giurisprudenziale della legge n. 40/2004: un caso singolare di eterogenesi dei fini, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2015, pp. 851 ss.
[6] Ed è proprio questa separazione ad imprimere alle tecniche di PMA il carattere della “artificialità”.
[7] La dissociazione tra genitorialità genetica e giuridica è riscontrabile sia nella procreazione assistita eterologa (con donazione di gameti da parte di soggetti diversi dai genitori giuridici del nascituro), sia nei casi di adozione. La maternità surrogata comporta invece, a seconda delle ipotesi di surrogazione totale o parziale, un’ulteriore distinzione tra genitorialità genetica (dei committenti o dei donatori di gameti), genitorialità uterina (della gestante, che mette a disposizione il proprio utero per portare a termine la gravidanza) e genitorialità giuridica (dei committenti).
[8] Sui vincoli e limiti che incontra la discrezionalità legislativa nel regolare fatti “scientificamente connotati”, v., per tutti,S. Penasa, La legge della scienza: nuovi paradigmi di disciplina dell’attività medico-scientifica, Napoli, 2015, pp. 435 ss.
[9] Per attenti rilievi critici sul procedimento di formazione della legge n. 40/2004 e, più in generale, sull’impostazione del dibattito parlamentare, si rinvia nuovamente a S. Penasa, op. ult. cit., pp. 180 ss.
[10] V. art. 1, l. n. 40/04, che attribuisce al concepito (rectius:all’embrione) la qualità di «soggetto» portatore di diritti.
[11] Per una lettura in parallelo delle problematiche, di ordine costituzionale, sottese alla IVG e alla PMA, cfr. A. D’Aloia, P. Torretta, La procreazione come diritto della persona, in S. Rodotà - P. Zatti (dir. da), Trattato di Biodiritto, Il governo del corpo, cit., pp. 1345 ss.
[12] Cfr. art. 12, co. 6, l. n. 40/04.
[13] Corte cost., ord. n. 389/1988.
[14] Per evitare i rischi di gravidanze plurime, tanto più alti nelle ipotesi di più facile attecchimento degli embrioni trasferiti.
[15] Laddove il limite numerico di embrioni producibili, indifferentemente prefissato della legge, non lasciasse presagire il buon esito della gravidanza.
[16] Corte cost., sent. n. 151/09, punto 6 del Considerato in diritto.
[17] Sull’ambigua posizione assunta dalla legge 40 nei riguardi della praticabilità della diagnosi genetica preimpianto e per un’attenta ricostruzione del percorso compiuto dalla giurisprudenza di merito ai fini del riconoscimento della legittimità di tali esami, svolti nei confronti di soggetti, sterili o infertili, pacificamente ammessi ai protocolli di PMA, v. B. Liberali, La diagnosi genetica preimpianto fra interpretazioni costituzionalmente conformi, disapplicazione della l. n. 40 del 2004, diretta esecuzione delle decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo e questioni di legittimità costituzionale, in www.rivistaic.it, 2/2014.
[18]Cfr. C. Tripodina, Le parole non dette. In lode alla sentenza 96/2015 in materia di fecondazione assistita e diagnosi preimpianto per coppie fertili portatrici di malattia genetica, in www.costituzionalismo.it, 2/2015, e, se si vuole, M. P. Iadicicco, Finalmente una decisione del giudice delle leggi sulla diagnosi genetica preimpianto, in attesa del doveroso intervento del legislatore, in Giur. cost., 2015, pp. 803 ss.
[19] V. art. 6 della legge n. 194/78 («Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza»).
[20]V. anche sent. n. 151/2009, cit., con la quale la Consulta ha sì restituito all’autonomia del medico un adeguato e dovuto spazio di valutazione sul numero di embrioni trasferibili e sulle modalità del trasferimento in utero, ma, allo stesso tempo, non ha trascurato di salvaguardare gli interessi dell’embrione; ed infatti, tale decisione non ha travolto il comma 2 dell’art. 14, nella parte in cui vieta di creare un «numero di embrioni superiori a quello strettamente necessario» per il buon esito di una gravidanza.
[21] Corte cost., sent. n. 96/2015, punto 9 del Considerato in diritto.
[22] A questo proposito, desta non poche perplessità la mancata considerazione, nelle nuove Linee guida ministeriali sulla PMA, approvate a luglio 2015, della sent. n. 96/2015 della Corte costituzionale. Nel decreto ministeriale si continua ribadire, senza alcuna necessaria precisazione, il divieto di «ogni diagnosi preimpianto a finalità eugenetica».
[23] Su cui cfr. L. Chieffi, L’irragionevole obbligo di crioconservazione degli embrioni selezionati e abbandonati in seguito ad indagine genetica preimpianto, in corso di pubblicazione in Giur. cost., 2015.
[24] Ritiene la Corte che la malformazione di tali embrioni «non ne giustifica, sol per questo un trattamento deteriore, rispetto agli embrioni sani» soprannumerari, dei quali nella sentenza n. 151/09 si è disposta la crioconservazione. Così punto 2.2. del Considerato in diritto. Va sottolineato che nel medesimo passaggio della motivazione il giudice costituzionale richiama «l’esigenza di tutelare la dignità dell’embrione» (corsivo nostro) e non già il diritto alla vita dello stesso, facendone discendere un divieto di soppressione che finirebbe per ridurre l’embrione ad una res.
[25] Le medesime Linee guida stabilivano che per definire lo stato di abbandono di un embrione si sarebbe dovuta verificare una delle seguenti condizioni: la rinuncia scritta al futuro impianto da parte dei genitori (o della sola madre) oppure la reiterata e documentata impossibilità di rintracciare i genitori.
[26] «Requisiti minimi organizzativi, strutturali e tecnologici delle strutture sanitarie autorizzate di cui alla legge 19 febbraio 2004, n . 40 per la qualità e la sicurezza nella donazione, l'approvvigionamento, il controllo, la lavorazione, la conservazione, lo stoccaggio e la distribuzione di cellule umane».
[27] Sulle problematiche determinate dal massiccio ricorso alla tecnica del rinvio ad altre fonti da parte della Linee guida ministeriali del 2015, v. B. Liberali, Il problematico intervento delle Linee guida ministeriali e regionali nelle materie in cui viene in rilievo l’evoluzione scientifica, in BioLaw Journal – Rivista di BioDiritto, 1/2016, pp. 252 ss.
[28] Cfr. A. Vallini, Illecito concepimento e valore del concepito. Statuto punitivo della procreazione, principi, prassi, Torino, 2012, pp. 215 ss.
[29] Sul limite del rispetto della persona umana anche nel caso di trattamenti sanitari obbligatori disposti per legge, ai sensi dell’art. 32 Cost., v. almeno R. Romboli, Gli atti di disposizione del proprio corpo,in A. Scialoja - G. Branca (dir. da), Commentario al codice civile, Bologna-Roma, 1988, p. 343.
[30] L’attenta considerazione dell’incidenza prevalente, se non esclusiva, dello stato gravidico sulla salute psico-fisica della madre spiega la diversa rilevanza della revoca del consenso all’impianto da parte del padre dopo la fecondazione dell’ovulo. Laddove infatti si rinvenga una discordanza tra la volontà dell’uomo e quella della donna, è sempre quest’ultima a prevalere, tanto nel caso in cui il padre si opponga al trasferimento dell’embrione dopo la sua formazione, quanto laddove la madre rifiuti l’impianto dell’embrione nonostante la divergente volontà del partner maschile. Nel primo caso, infatti, ben si comprende la ratio del divieto di cui all’art. 6, che pertanto vieta all’uomo, che abbia prestato il consenso alla fecondazione dell’ovulo con il proprio seme, di opporsi successivamente all’impianto dell’embrione, cui sarà ugualmente attribuito lo stato di figlio legittimo o naturale. Ed infatti le Linee guida ministeriali, in riferimento all’art. 14 della l. n. 40, specificano che «la donna ha sempre il diritto ad ottenere il trasferimento degli embrioni crioconservati». Nel caso invece di revoca del consenso all’impianto da parte della madre, nessun rilevo potrà essere attribuito alla divergente volontà del padre che ovviamente non potrà pretendere un impianto coattivo dell’embrione, né potrà impedire, come noto, il successivo ricorso da parte della donna all’IVG. Su tali questioni, cfr. A. Palma, La revoca del consenso alla crioconservazione degli embrioni, in AA.VV., Studi in onore di Aldo Loiodice, Vol. II, Bari, 2012, p. 936 ss.
[31] Al riguardo, non offre margini interpretativi adeguati (nel senso di costituzionalmente conformi) neppure l’inciso finale di cui all’art. 14, co. 1 della l. n. 40 che vieta la soppressione e crioconservazione degli embrioni «fermo restando quanto previsto dalla legge 22 maggio 1978, n. 194». A parte l’aberrante configurazione di un obbligo di impianto coattivo dell’embrione con successivo ricorso da parte della donna all’IVG, tale ricostruzione, come si è già detto, non salvaguarderebbe affatto gli interessi costituzionali dell’embrione, evidentemente e definitivamente frustrati dall’aborto.
[32] Con grande realismo e seppure con i dubbi di legittimità suddetti, le Linee guida del 2008 prevedevano che anche in casi diversi da quelli di cui all’art. 14, co. 3, il trasferimento degli embrioni potesse risultare non attuato.
[33] Cfr. Tar Lazio, Sez. III-quater, sentenza 21 gennaio 2008, n. 398.
[34] La premessa da cui ha preso le mosse il Comitato è che l’embrione debba essere protetto e salvaguardato con la finalità prioritaria dell’ottenimento della nascita e tale obiettivo potrebbe essere perseguito anche con la regolazione dell’istituto della «adozione per la nascita (APN)». Nonostante qualche dissenso, esplicitato nelle postille al documento, il CNB, pur consapevole delle differenze che intercorrono l’APN e l’adozione di un bambino già nato, ha deciso di fare propria l’espressione «adozione» anche in riferimento a questa vicenda procreativa in considerazione della più facile comprensione dello spirito di solidarietà e generosità che dovrebbe animare questo percorso.
[35] Senza per questo abbondonare le ricerche sulle cellule staminali adulte, cordonali e fetali.
[36] E in larga parte corrispondente a quanto rilevato nell’ordinanza n. 166/2013, con la quale il Tribunale di Firenze ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 13 e 6, co. 3, della l. n. 40/04.
Nell’udienza pubblica del 22 marzo 2016, la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile la prima questione relativa al divieto di ricerca clinica e sperimentale sull’embrione non finalizzata alla tutela dello stesso. Come si evince dal Comunicato dell’Ufficio stampa della Corte (in www.cortecostituzionale.it) e in attesa di leggere le motivazioni della decisione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 13 «è stata dichiarata inammissibile in ragione dell’elevato grado di discrezionalità, per la complessità dei profili etici e scientifici che lo connotano, del bilanciamento operato dal legislatore tra dignità dell’embrione ed esigenze della ricerca scientifica: bilanciamento che, impropriamente, il Tribunale chiedeva alla Corte di modificare, essendo possibile una pluralità di scelte, inevitabilmente riservate al legislatore».La seconda questione è stata invece dichiarata inammissibile per difetto di rilevanza nel giudizio di merito.
[37] A tal riguardo si potrebbe anche ipotizzare un’ulteriore distinzione tra embrioni assolutamente inidonei all’impianto, che pertanto, per le ragioni suddette, potrebbero essere destinati alla ricerca; ed embrioni che sono solo “relativamente inidonei all’impianto”, e cioè embrioni di cui la madre abbia revocato il consenso all’impianto, ma le cui anomalie e malformazioni non avrebbero gravi ricadute sulla salute psico-fisica di altre donne, pronte ad accettali nel proprio grembo e a favorire così la nascita di un figlio, anche se malformato, e ciò sempre e solo nell’ipotesi in cui venga regolata l’adozione dell’embrione per la nascita. Rispetto a quest’ultima ipotesi – che chiama in causa delicati compiti di accertamento dello stato di salute dell’embrione e di informazione della donna che intenda accoglierlo – non sarebbe legittimo distrarre l’embrione dalla sua “destinazione privilegiata”, qual è la nascita, e dunque si dovrebbero oltremodo favorire le aspettative di vita di questo embrione sempre e necessariamente con la donna che voglia accoglierlo nel proprio Corpo.
[38] In tal senso, Corte cost., sent. n. 229/2015, cit. A quanto già dapprima osservato deve aggiungersi che, nella citata decisione, la Corte esclude che l’embrione possa essere ridotto « a mero materiale biologico».
[39] Legislatore che gode di ampia discrezionalità in materia, come precisato anche di recente dal giudice costituzionale; v. nota n. 36.
Va altresì precisato che la questione specifica qui prospettata non potrebbe trovare adeguata definizione neppure attraverso il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo che, del resto, in uno specifico caso (Parrillo c. Italia, ric. 46470/11), non pienamente assimilabile a quelli ipotizzati in questa sede, ha riconosciuto agli Stati contraenti un ampio margine di apprezzamento nella valutazione della possibile destinazione di embrioni non impiantati a fini di sperimentazione scientifica.
[40] V. in tal senso il documento «Destino degli embrioni derivanti da PMA e non più impiantabili» del 26 ottobre 2007, con il quale alcuni componenti del CNB di sono espressi a favore della possibilità che venga individuato un criterio di accertamento di morte dell’embrione, di modo che si renda possibile la donazione di cellule embrionali alla ricerca, stabilendo un’analogia con la donazione di organi ex mortuo.
[41] Così A. Vallini, Illecito concepimento e valore del concepito, cit., p. 62 e p. 148.
[42] Per un commento della sent. n. 162/2014, v., tra i tanti, R. Sanlorenzo, La Corte costituzionale annulla il divieto di fecondazione eterologa, in questa Rivista, 2014, pp. 223 ss.
[43] Corte cost., sent. n. 162/2014, Punto 9 del Considerato in diritto.
[44] Inoltre, il giudice costituzionale ha rimarcato che dal divieto di fecondazione eterologa scaturisce anche un’irragionevole discriminazione a danno delle coppie affette della patologie riproduttive più gravi (e tra queste, in particolar modo, di quelle prive dei mezzi economici per poter praticare all’estero la fecondazione eterologa.), in quanto queste, a differenza delle coppie affette da patologie meno gravi, superabili attraverso la PMA omologa, vedono preclusa qualsiasi possibilità di realizzare la propria genitorialità (genetica), così subendo una lesione del diritto alla salute non giustificata dall’esigenza di salvaguardare i diritti del nascituro.
[45] Corte cost., sent. n. 162/2014, Punto 7 del Considerato in diritto.
[46] Sul diritto all’identità genetica, la Corte costituzionale richiama la più recente normativa adottata in materia di adozione: art. 28, co. 4 , della l. n. 184/1983, come modificato dall’art. 100, co. 1, lett. p), del d.lgs n. 154/2013, approvato sulla scorta delle indicazioni contenute nella sentenza n. 278/2013 della Consulta.
[47] Su questo specifico aspetto e seppur con un po’ di ritardo, il legislatore è intervenuto per dare attuazione alla sentenza n. 162/2014. L’art. 1, co. 298, della l. n. 190/2014 (Legge di stabilità 2015) ha istituito il «Registro nazionale dei donatori di cellule riproduttivea scopi di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo».
[48] Quanto ai rischi derivanti dalla pratica della donazione di gameti, la Corte costituzionale, pur osservando che essi non eccedono la normale alea insita in qualsiasi pratica terapeutica, precisa che, per ragioni di cautela, tali interventi debbono essere eseguiti «all’interno di strutture operanti sotto i rigorosi controlli dell’autorità, nell’osservanza dei protocolli elaborati dagli organismi specializzati a ciò deputati» (punto 9 del Considerato in diritto).
[49]Cfr., almeno, A. Morrone, Ubi scientia ibi iura. A prima lettura sull’eterologa, in Forum di Quaderni costituzionali, 11 giugno 2014; L. Violini, La Corte e l’eterologa: i diritti enunciati e gli argomenti addotti a sostegno della decisione, in www.osservatorioaic.it, luglio 2014; V. Baldini, Diritto alla genitorialità e sua concretizzazione attraverso la PMA di tipo eterologo (ad una prima lettura di Corte cost., sent. n. 162/2014), in www.dirittifondamentali.it, n. 2/2014.
[50] Corte cost., sent. n. 162/2014, Punto 7 del Considerato in diritto, ove si aggiunge che «per evidenti ragioni solidaristiche» la nozione di disabilità deve essere accolta in un’ampia accezione. Trattasi di un profilo molto delicato in quanto involgente l’interpretazione delle nozioni di salute, benessere psico-fisico, malattia, cura. Per ulteriori approfondimenti sia consentito rinviare a M.P. Iadicicco, La medicina nella Corte costituzionale italiana.Osservazioni sul diritto alla salute tra legislatore, scienza medica e giudice costituzionale, in L. Chieffi (a cura di), La medicina nei tribunali, in corso di stampa per i tipi della Cacucci Editori.
[51] Sui diritti sociali come diritti strutturalmente di prestazione, condizionati alla necessaria interpositio legislatoris per la loro attuazione, v., almeno, M. Benvenuti, Diritti sociali, in Digesto delle discipline pubblicistiche, Aggiornamento V, Torino, 2012, spec. p. 240.
[52] Senza contare la persistenza di ulteriori impedimenti, di altra natura, che ostacolano l’effettiva esigibilità del trattamento di fecondazione eterologa, primo fra tutti la carenza di donatrici di ovociti.
[53] Al riguardo deve precisarsi che, in conformità con quanto espressamente enunciato nell’art. 32 Cost., la gratuità del trattamento di PMA deve essere assicurata solo a favore degli indigenti. Pertanto, l’indecisione sul regime dei costi qui denunciata concerne prevalentemente la mancata determinazione, da parte dei diversi sistemi sanitari regionali, delle quote di compartecipazione alle spese di erogazione della prestazione (c.d. ticket) e relativo regime di esenzione. Questa situazione di incertezza è stata, per molti versi, determinata dalla mancata inclusione dei trattamenti di fecondazione assistita (omologa ed eterologa) nei Livelli essenziali di assistenza – che debbono essere uniformemente garantiti sull’intero territorio nazionale – e, per altri e non di meno, dipende dalla sempre più limitata disponibilità di risorse finanziarie da destinare alla sanità.
[54] Anzitutto, la mancata approvazione, da parte dello Stato, degli atti indispensabili ad assicurare l’immediata esigibilità della prestazione di fecondazione eterologa, quali, ad esempio, la normativa tecnica volta a regolare gli aspetti medici e clinici del trattamento, nonché la regolazione degli aspetti propriamente giuridici, come la tracciabilità dei donatori di gameti, la precisazione delle condizioni di accesso al trattamento, la definizione dei principi organizzativi e degli indirizzi operativi per le strutture preposte all’erogazione della prestazione, fino alla definizione dei costi del trattamento, questione, che, come già precisato, è strettamente collegata anche alla mancata approvazione del d.P.C.M di aggiornamento dei LEA.
All’iniziale attivismo manifestato dal Ministro della salute all’indomani del deposito della sent. n. 162/2014, ha fatto poi seguito la rimessione di ogni decisione sul tema al Parlamento rappresentativo (dove, ad oggi, giacciono in attesa di approvazione molti ddl). L’inerzia delle istituzioni centrali è stata solo in parte compensata dai documenti approvati in seno alla Conferenza Stato-Regioni, che non hanno impedito l’assunzione di decisioni fortemente diversificate da regione e regione, nonché l’inattività di molte di esse, la quale – soprattutto riguardo alla definizione dei costi del trattamento – è collegata anche ai vincoli derivanti dai cd Piani di rientro delle spese sanitarie. Per un’attenta ricostruzione del seguito (e del mancato seguito) della sent. n. 162/2014, si rinvia a R. Lugarà, Fecondazione eterologa: dal riconoscimento del diritto alla sua (in)effettività, in www.forumcostituzionale.it; L. Violini, Regioni ed eterologa: i livelli essenziali di assistenza, il coordinamento politico interregionale e le scelte regionali in materia, in Ist. del fed., 2015, 35 ss.; F. Angelini, Dalla fine di un irragionevole divieto al caos di una irragionevole risposta. La sentenza n. 162 del 2014 della Corte costituzionale, lo Stato e le Regioni sulla fecondazione assistita eterologa, ivi, pp. 61 ss.
[55] Cfr. M. D’Amico, L’incostituzionalità del divieto assoluto della cd fecondazione eterologa, in BioLaw Journal - Rivista di BioDiritto, 2/2014, 30;P. Veronesi, La legge sulla procreazione assistita perde un altro “pilastro”: illegittimo il divieto assoluto di fecondazione eterologa, in Ist. del fed., 2015, pp. 28 ss.
[56] A. Morrone, Ubi scientia ibi iura, cit., pp. 5-6.
[57] C. Tripodina, Il “diritto al figlio” tramite fecondazione eterologa: la Corte costituzionale decide di decidere, in Giur. cost., 2014, p. 2596.
[58] Corte costituzionale, sent. n. 162/2014, punto 7 del Considerato in diritto. Proprio per questa ragione nella medesima decisione la Corte ha precisato che, ai fini dell’accesso alla PMA eterologa, ogni accertamento sullo stato di salute dei membri della coppia e sull’idoneità della pratica terapeutica a risolverli è rimessa alle valutazioni della scienza medica. V. punto 11 del Considerato in diritto.