Il Senato delle autonomie territoriali.
Come poteva essere, come sarà e come potrebbe essere la nuova Camera Alta della Repubblica italiana
Il testo affronta il tema del nuovo Senato della Repubblica, con riferimento sia alla sua composizione, sia alle funzioni demandategli. L’autore osserva che gli attuali meccanismi di cooperazione tra Stato e Regioni derivino dall’assenza nel procedimento legislativo del punto di vista delle autonomie territoriali. La riforma del Senato, anziché sciogliere il nodo, lo taglia e segna con ciò il tramonto della chiamata in sussidiarietà, centralizzando le competenze, ma fallendo nel rendere il Senato un organo davvero rappresentativo delle Regioni, soprattutto a causa della persistenza del divieto di mandato imperativo. Particolare attenzione è dedicata al ruolo che potrebbe assumere in questo contesto il sistema delle conferenze. L’autore auspica una revisione costituzionale che incardini le conferenze orizzontali presso il Senato, e si interroga sugli spazi aperti al Regolamento del Senato in tale campo.
1. Il regionalismo italiano e il nodo della collaborazione tra gli enti territoriali
1.1 Premessa
Che il regionalismo italiano versi in cattive acque non è una scoperta per nessuno. Altrettanto noto è che il principale strumento tramite il quale, nell’ambito del dibattito pubblico, si ritiene di dover intervenire per far fronte alle difficoltà è la “messa a punto” di un adeguato sistema di relazioni tra centro e autonomie territoriali, tramite una profonda revisione del nostro bicameralismo.
La modificazione della composizione e delle funzioni del Senato è ormai un vero e proprio leitmotiv della “storia infinita” delle riforme costituzionali in Italia[1]. Il tema viene affrontato già dalla Commissione Bozzi e dalla Commissione De Mita-Iotti. Ma è soprattutto a partire dalla proposta del cd “Comitato Speroni” che la trasformazione del Senato in “Camera delle autonomie” comincia ad imporsi con decisione all’attenzione. In tal senso si muovono, con varietà di accenti, anche la Commissione D’Alema, la riforma costituzionale “tentata” del 2005, la cd Bozza Violante e il progetto di legge costituzionale della XVI legislatura[2]. L’obiettivo di rimodulare il nostro bicameralismo procedendo in questa direzione è del resto quasi unanimemente condiviso, sia tra i giuristi che all’interno della classe politica. Tuttavia fino ad ora è rimasto sempre frustrato. La stessa riforma costituzionale del 2001, che con grande ambizione aveva tentato di introdurre quel che non esiterei a definire un “mutamento di paradigma” nelle relazioni tra gli enti territoriali, sostituendo le logiche della preminenza dell’indirizzo politico statale su quello regionale e locale con le opposte logiche del principio di sussidiarietà, si era fermata un attimo prima, limitandosi a “promettere”[3], per il futuro, la “grande riforma” del bicameralismo.
Oggi, finalmente, l’obiettivo sembra ad un passo. La riforma costituzionale di recente approvata dalle Camere, ed in attesa di essere sottoposta al vaglio della consultazione referendaria popolare, modifica profondamente – come è noto – struttura e funzioni della Camera Alta dell’ordinamento costituzionale italiano. Dovrebbe esservi un grande consenso su una riforma attesa tanto a lungo e tanto largamente invocata, eppure non è così. La ragione, tuttavia, è presto detta, perché se siamo d’accordo soltanto sulla necessità di trasformare il Senato in “Camera delle autonomie” siamo d’accordo davvero su poco, dal momento che i modi in cui questo progetto può prendere forma sono talmente tanti e tanto differenziati tra loro da comportare scelte di politica istituzionale anche molto diverse l’una dall’altra. Da ciò consegue che per maturare un punto di vista sul Senato che sta prendendo corpo è necessario innanzi tutto fare un passo indietro, e prendere le mosse dai mali a cui in tal modo si intende rispondere, per capire successivamente quali sono le possibili strategie per farvi fronte, quale la terapia fatta propria dalla riforma costituzionale in itinere, e – infine – quali le conseguenze che questa terapia può avere nel nostro sistema istituzionale.
Non è certo questa la sede per fare il punto sui numerosi problemi che affliggono le relazioni tra lo Stato e gli altri enti territoriali. Può essere sufficiente ricordare alcuni nodi particolarmente importanti, come l’alta incertezza che caratterizza il parametro costituzionale in tale settore, la sua vasta inattuazione successivamente alla riforma del 2001, la scarsissima condivisione sistemica delle politiche pubbliche tra Stato e Regioni, nonché il fortissimo contenzioso costituzionale che da tutto ciò non può che derivare. Che a tale situazione sia realisticamente possibile far fronte soltanto tramite la ricerca di un assetto che garantisca una qualche compartecipazione degli enti territoriali di livello regionale alla adozione delle decisioni politiche del centro, è un’ipotesi più che credibile. Sul punto si può richiamare l’autorevole contributo del presidente della Corte costituzionale Gaetano Silvestri, il quale – nella Relazione sulla giurisprudenza costituzionale del 2013 – ha efficacemente evidenziato che «negli ordinamenti giuridici moderni nulla può sostituire forme efficaci di cooperazione tra i diversi livelli di governo, né la ricerca di determinazioni sempre più analitiche e complesse delle competenze legislative e amministrative può prendere il posto di istituzioni, poste all’interno del processo di decisione politica nazionale, destinate a comporre, in via preventiva – già nell’iter di formazione delle leggi statali – le esigenze dell’uniformità e quelle dell’autonomia»[4].
Per capire come ciò possa avvenire, tuttavia, è necessario mettere a fuoco con maggior precisione il problema che abbiamo di fronte. A questo fine può essere utile prendere in esame le strategie seguite dalla giurisprudenza costituzionale per far fronte all’esigenza di trovare, a diritto costituzionale vigente, sedi e procedure ove possa realizzarsi una qualche compartecipazione di Stato e autonomie territoriali alla adozione delle deliberazioni pubbliche. Occorre quindi confrontarsi con la giurisprudenza costituzionale in tema di leale collaborazione[5].
1.2 Le vicende della leale collaborazione nella giurisprudenza costituzionale degli ultimi anni, e l’esigenza frustrata di una sede “a monte” di collaborazione sistemica
È forse possibile dire che il problema istituzionale cui ha provato a dar risposta la Corte costituzionale con la sua giurisprudenza in tema di leale collaborazione ha forma dilemmatica. Da un lato, infatti, non è pensabile che su alcuni temi essenziali per la collettività lo Stato non possa sviluppare politiche unitarie in grado di interessare l’intero territorio nazionale – si pensi, per tutte, alla politica dei trasporti o alla politica energetica– e dall’altro è noto che gli interventi che tali politiche comportano possono essere anche molto invasivi nei confronti dei contesti territoriali nei quali puntano ad inserirsi. Tali interventi, ad esempio, sono sovente in grado di conformare prepotentemente le caratteristiche del suolo, selezionandone alcuni usi e impedendone radicalmente altri, comportando talvolta rischi non indifferenti di lesione di beni primari come la salute e la vita. Pare dunque necessario, da un lato, rendere possibile lo sviluppo di articolate politiche coordinate dal centro su tutti i settori strategici per la vita del Paese, molti dei quali non sono compresi, nel testo costituzionale vigente, tra i settori affidati alla competenza esclusiva dello Stato. Dall’altro occorre invece predisporre strumenti tramite i quali gli altri enti territoriali possano efficacemente interloquire, sia come singoli che come “sistema”, con gli organi di quest’ultimo, al fine di calibrare in modo compatibile con le esigenze ed i punti di vista che emergono nei singoli contesti locali gli interventi in questione. Vedremo tra un attimo come la giurisprudenza costituzionale, nella limitatezza dei suoi strumenti, necessariamente casistici e bottom up, ha provato a dare risposta a questa esigenza. Naturalmente, ça va sans dire, le risposte sono state differenti a seconda delle circostanze, e a seconda, innanzi tutto, della materia di volta in volta interessata e del suo regime giuridico nell’ambito del riparto della competenza legislativa tra Stato e Regioni nel vigente Titolo V.
Scontando una inevitabile semplificazione di percorsi sovente complessi e articolati, è possibile dire che la giurisprudenza costituzionale ha elaborato tre differenti paradigmi per fondare l’obbligo di leale collaborazione, in vario modo e con diversa intensità, a carico dello Stato e a beneficio delle autonomie territoriali[6]. Il primo può essere definito il “paradigma della forte incidenza”. In base a tale impostazione, anche nei casi in cui lo Stato esercita una propria competenza esclusiva (come, appunto, nella materia sopra richiamata), ove ciò sia in grado di determinare una “forte incidenza” sulle funzioni regionali, si rende costituzionalmente necessario che gli atti sub-legislativi tramite i quali questa competenza prende corpo siano posti in essere mediante un procedimento che consenta di acquisire il contributo collaborativo delle Regioni. L’esordio del paradigma della “forte incidenza” può essere indicato, salvo errori, nella ben nota sent. n. 88 del 2003, concernente i livelli essenziali delle prestazioni che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale[7]. A questo paradigma, tuttavia, sono ascrivibili decisioni concernenti vari altri settori, tra cui si segnala soprattutto la materia della tutela dell’ambiente[8].
Il secondo paradigma collaborativo elaborato dalla giurisprudenza costituzionale può invece essere chiamato il “paradigma dell’intreccio”. Esso è basato sul rilievo secondo il quale vi sono alcune circostanze in cui non è affatto semplice individuare a quale materia pertenga una determinata disciplina. Ciò perché in essa sono presenti, si intrecciano, aspetti ascrivibili ad una, e aspetti ascrivibili ad un’altra. In tali situazioni, secondo la giurisprudenza costituzionale, si deve in prima battuta far ricorso al criterio di prevalenza, cercando di capire quale delle diverse materie interessate sia, appunto, prevalente, ed in base all’esito di tale giudizio assegnare la competenza. Anche tale criterio, tuttavia, può risultare non decisivo nel caso concreto,poiché talvolta non è possibile individuare una materia prevalente sulle altre. Ebbene, in simili circostanze la giurisprudenza costituzionale ci invita a considerare comunque competente il legislatore statale, ritenendolo tuttavia gravato dall’onere di regolare l’esercizio della funzione regolamentare o di quella amministrativa eventualmente istituite in modo tale da rispettare il principio di leale collaborazione[9].
Il più noto, e forse il più importante paradigma collaborativo elaborato dalla giurisprudenza costituzionale è però quello della cd “sussidiarietà legislativa” o “chiamata in sussidiarietà”. Come è risaputo, in base a tale approdo dei giudici di Palazzo della Consulta, lo Stato, nella «perdurante assenza di una trasformazione delle istituzioni parlamentari e, più in generale, dei procedimenti legislativi – anche solo nei limiti di quanto previsto dall’art. 11 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3»[10], può istituire, disciplinare e allocare a se stesso una funzione amministrativa in ambiti materiali diversi da quelli di cui all’art. 117, secondo comma Cost.[11], solo alla condizione di prevedere, nella fase dell’attuazione amministrativa, la necessità di acquisire l’intesa (di tipo cd “forte”) con la Regione specificamente interessata dal singolo intervento, o, nei casi di atti statali a carattere generale, di tipo programmatorio, di individuazione di criteri aventi una funzione lato sensu regolatoria, da raggiungere nella sede della Conferenza Stato-Regioni[12].
Il meccanismo della c.d “sussidiarietà legislativa” è senza dubbio il principale strumento di “flessibilizzazione delle competenze normative” messo a punto dalla giurisprudenza costituzionale. Tramite questo strumento i giudici di Palazzo della Consulta hanno raggiunto l’obiettivo di coniugare la necessità di dotare lo Stato degli strumenti necessari per far valere imprescindibili istanze unitarie anche nelle politiche vertenti su materie differenti da quelle affidate alla sua competenza esclusiva, con l’esigenza di non estromettere le autonomie territoriali da scelte di prima importanza fortemente incidenti sulla vita della propria collettività territoriale. Queste scelte – è bene evidenziarlo – possono interessare anche interventi di grande rilievo. Si pensi, ad esempio, agli interventi concernenti gli assi ferroviari ad alta velocità, gli assi autostradali, il Mo.Se, l’Hub portuale di Trieste e quello di Taranto, il tunnel ferroviario del Brennero, le grandi centrali termoelettriche e le centrali nucleari, nonché – per restare su un tema di strettissima attualità – le attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi o la realizzazione di oleodotti. Può essere opportuno notare, peraltro, come tali tipi di interventi siano stati di recente oggetto di una regolazione normativa unitaria, che li affida con decisione ad un’unica regia statale[13].
Ebbene, per tutti questi e per molti altri casi di grande importanza, il paradigma collaborativo messo a punto dalle sentt. nn. 303 del 2003 e 6 del 2004 individua una opzione di first best non immediatamente operante, in quanto bisognosa di un apposito intervento normativo, consistente nell’attuazione del già ricordato art. 11 della legge cost. n. 3 del 2001 sulla integrazione della Commissione parlamentare per le questioni regionali con i rappresentanti delle Regioni e degli enti locali. Ove si procedesse a tale integrazione lo Stato potrebbe senz’altro ritenersi dotato, in virtù del principio di sussidiarietà, delle competenze legislative necessarie allo svolgimento delle funzioni volte alla realizzazione delle politiche sopra richiamate, ovviamente ove le Regioni dovessero essere ritenute inadeguate allo svolgimento delle medesime[14]. Ciò in quanto le istanze regionali che trovano riconoscimento nelle competenze legislative di volta in volta interessate, e disciplinate nei commi terzo e quarto della Costituzione, nonché nel principio di sussidiarietà di cui all’art. 118 Cost., verrebbero adeguatamente tutelate dal coinvolgimento degli enti territoriali nell’ambito del procedimento legislativo in virtù dell’attuazione del richiamato art. 11.
In assenza di un intervento normativo siffatto – e tuttavia solo fino alla sua realizzazione – i giudici di Palazzo della Consulta indicano comunque una strada di second best necessaria, ma anche sufficiente, per assicurare la conformità a Costituzione di leggi che disciplinano la avocazione di funzioni amministrative in materie “regionali”. Si tratta della menzionata previsione dell’intesa, con la singola Regione interessata o con la Conferenza, a seconda dei casi, che deve essere contenuta nella normativa legislativa de qua,in occasione dell’esercizio delle funzioni amministrative in questione.
L’intento della Corte è abbastanza trasparente: si consentono allo Stato interventi normativi del genere di cui qui si tratta, ma si subordina la loro attuazione ad un vero e proprio “potere di veto” da parte regionale. Non ci vuol molto per evidenziare come, dal punto di vista della politica del diritto, non si tratta di un esito desiderabile: la c.d. sindrome del “NIMBY” (Not In My Back Yard) – che spinge le comunità territoriali a opporsi con decisione a opere di interesse generale che possono avere effetti pregiudizievoli per i luoghi nei quali sono collocati – è infatti dietro l’angolo[15]. Da questo punto di vista la soluzione dell’intesa forte non può dunque essere ritenuta una soluzione pienamente funzionale, perché rischia di consegnare le strategie politiche nazionali sui settori di volta in volta interessati ai poteri di veto della singola Regione. Come si proverà ad argomentare meglio più avanti, per coniugare l’esigenza di disporre di strumenti in grado di condurre alla elaborazioni di efficaci politiche nazionali su settori nevralgici del nostro vivere associati con quella di non pretermettere il punto di vista delle comunità stanziate sui territori nei quali tali politiche sono destinate ad incidere significativamente, è invece necessario costruire una sede nelle quali gli enti territoriali coordinati in sistema – ed in primo luogo le Regioni – si facciano carico dell’interesse generale, partecipando alla elaborazione di strategie complessive che non si limitino alla mera opposizione di un veto, pur proponendo ovviamente di tale interesse una lettura territorialmente orientata conformemente alla loro stessa ragion d’essere.
È bene peraltro ribadire che – nello schema della sent. n. 6 del 2004 – per svincolarsi dalle dinamiche del NIMBY non sarebbe stato necessario portare a termine la pur auspicata “grande riforma” del Senato, cui oggi si sta mettendo mano. Come si è visto più sopra sarebbe infatti stato sufficiente procedere alla integrazione della Commissione bicamerale per le questioni regionali con i rappresentanti delle Regioni e delle Province autonome. Si sarebbe trattato, per certi versi, di un intervento istituzionale di taglio minimale, ma comunque in grado di produrre effetti sistemici significativi. Si ricordi infatti che, ai sensi del pur sempre ancora vigente art. 11 sopra menzionato, nel caso in cui si proceda alla integrazione della Commissione nel senso sopra richiamato, ove quest’ultima esprima, su un progetto di legge concernente le materie di cui all’art. 117, terzo comma, e 119 Cost., parere contrario o parere favorevole condizionato all’introduzione di specifiche modificazioni, per decidere in difformità da detto parere è necessario che l’Aula deliberi a maggioranza assoluta dei propri componenti.
In sintesi, la sent. n. 6 del 2004 e la giurisprudenza costituzionale che da questa decisione ha tratto spunto sono costruite come un pungolo, un incentivo, nei confronti degli organi titolari dell’indirizzo politico, quantomeno a dare attuazione all’art. 11 della legge cost. n. 3 del 2001, al fine di svincolarsi dalle dinamiche del NIMBY e, più in generale, dalla rete di poteri di veto derivante dall’accoglimento del principio dell’intesa forte. È noto che tale incentivo, fino ad ora, non ha prodotto effetti di sorta. Nonostante qualche tentativo nel periodo immediatamente successivo all’entrata in vigore della riforma[16], tale disposizione è infatti rimasta lettera morta.
È plausibile che sia anche per il silenzio delle Camere su questo versante che, negli ultimi tempi, il paradigma della sussidiarietà legislativa ha decisamente cambiato volto. A partire dal 2010, infatti, la giurisprudenza costituzionale ha notevolmente indebolito le pretese collaborative nei confronti della legge statale che avochi al centro funzioni amministrative in materie di competenza regionale: nella giurisprudenza più recente è infatti sempre richiesta la previsione di una intesa con la singola Regione interessata, ma si riconosce che, nel caso in cui non si riesca a pervenire ad un accordo, è possibile disciplinare meccanismi di superamento dello stallo, che possono aspirare a superare il vaglio di legittimità costituzionale ove non si risolvano nella previsione della «drastica preminenza» dello Stato, ma obblighino le parti a «reiterate trattative», magari prevedendo anche forme di controllo della correttezza procedimentale dell’esito raggiunto caratterizzate da sufficiente terzietà[17]. Nonostante il tentativo “disperato” di accreditare una coerenza con i propri precedenti, la Corte ha dunque ormai avallato la conformità a Costituzione di meccanismi di superamento della mancata intesa costruiti su procedimenti comunque non paritari, perché comunque in grado di concludersi con atto deliberato unilateralmente dal Consiglio dei ministri e con la mera “partecipazione” del Presidente della Regione interessata. L’«intesa forte» per l’esercizio in concreto della funzione amministrativa attratta in sussidiarietà dallo Stato, dunque, non esiste più e non esiste più neppure, a maggior ragione, quella esigenza dell’«accordo» che la sent. n. 303 del 2003 aveva viceversa ritenuto imprescindibile per la stessa individuazione dell’istanza unitaria[18].
2. Le opzioni a disposizione dei riformatori: sciogliere o tagliare?
Come si è visto, i percorsi della giurisprudenza costituzionale non hanno ottenuto risultati soddisfacenti, poiché hanno condotto inizialmente alla cristallizzazione di veri e propri poteri di veto regionali, e successivamente alla riconsegna nelle mani dello Stato di una trump card la cui utilizzazione ha solo bisogno di essere adeguatamente procedimentalizzata dalla legge. La soluzione “di mediazione” rappresentata dall’integrazione della Commissione per le questioni regionali è ben presto uscita dall’agenda delle nostre istituzioni politiche, senza mai più rientrarvi.
Quali erano, invece, le strade che gli odierni riformatori avevano davanti per sciogliere il dilemma sopra illustrato e far fronte ai problemi accennati? È forse possibile dire che siamo dinanzi ad un nodo. Ed un nodo, come si sa, si può sciogliere oppure tagliare.
Fuor di metafora, sciogliere il nodo vuol dire tentare di coniugare l’esigenza di assicurare la possibilità, per lo Stato, di adottare decisioni unitarie su tutti i temi di maggior importanza per la politica nazionale con quella di garantire che ciò avvenga tramite il necessario coinvolgimento delle autonomie territoriali, chiamando queste ultime però non ad esprimere il proprio punto di vista uti singulae, incentivando così le dinamiche del NYMBY, bensì come sistema, costringendole a proiettare su scala nazionale una visione territorialmente orientata dell’interesse generale. Si tratta senza dubbio di una strada impervia, perché sciogliere un nodo è più difficile che tagliarlo, ma necessaria ove si ritenga opportuno, o forse anche necessario, perseguire l’obiettivo di una maggiore funzionalità del sistema delle deliberazioni pubbliche senza che ciò implichi la rinuncia ad un ruolo significativo delle autonomie territoriali. L’attuazione dell’art. 11 della legge cost. n. 3 del 2001 sarebbe stato un tentativo di sciogliere il nodo. Non certamente la strada maestra per addivenire a questo risultato – per imboccare la quale è senz’altro necessario riformare il Senato – quanto piuttosto una opzione di second best. E pur tuttavia si sarebbe proceduto in quella direzione, perché in tal modo si sarebbe riusciti ad inserire nel vivo della decisione parlamentare su tutte le politiche di interesse regionale il diretto confronto con le istituzioni regionali, con un debole, ma significativo, aggravamento procedurale derivante dalla manifestazione di un dissenso da parte dell’organo deputato ad accoglierle.
Ove invece ci si volesse interrogare sulla opzione di first best, provando ad indicare sinteticamente le caratteristiche che dovrebbe avere un Senato il cui scopo è quello di conciliare unità e autonomie, sciogliendo anziché tagliando il nodo accennato, nonché le prestazioni che sarebbe necessario attendersi da questa istituzione, è possibile notare quanto segue.
1. In primo luogo,un Senato con questa vocazione da un lato dovrebbe rappresentare una sede “collocata” al centro, e quindi capace di impegnare l’intera Repubblica, e d’altra parte dovrebbe essere in grado di evitare che le scelte politiche del centro siano una mera imposizione dell’indirizzo politico statale su quelli delle autonomie territoriali, dovendo rappresentare viceversa un “punto d’incontro” tra il primo e i secondi. Il punto è sottolineato con grande efficacia in un recente contributo di Antonio D’Atena: «se, come negli ordinamenti federali, la seconda Camera immette nel procedimento legislativo centrale le entità sub-statali, lo stesso riparto delle competenze viene ad assumere una valenza diversa, per effetto dell’attenuazione del carattere eteronomo della legislazione centrale»[19]. Ecco, è precisamente questa la prima e principale prestazione che, nell’ottica considerata, è necessario attendersi da un Senato delle autonomie: rendere meno eteronomo l’indirizzo politico centrale per le autonomie territoriali, almeno nei settori che più interessano queste ultime, in modo tale che ciò che proviene dal centro sia in qualche modo “voluto” anche in periferia. In modo tale che l’indirizzo politico del centro sia autenticamente “repubblicano”, e non meramente statale, in quanto formatosi con il necessario concorso degli enti territoriali.
2. Un Senato siffatto – proprio al fine di riuscire in quanto appena evidenziato – dovrebbe inoltre essere in grado di garantire una maggiore “saldatura” tra l’indirizzo politico centrale e quello regionale, anche in relazione a quella quota di attività legislativa attuativa che continuerebbe a spettare alle Regioni, e più in generale di favorire maggior cooperazione e minore conflittualità nel sistema delle relazioni tra gli enti territoriali. Non può esserci distonia tra l’indirizzo politico che matura presso la maggioranza delle istituzioni territoriali e quello che si forma in Senato, altrimenti quest’ultimo è destinato a fallire il suo compito principale che, come si è visto, è quello di far percepire come voluto anche dalle periferie ciò che si decide al centro. Solo in tal modo, peraltro, è possibile ottenere effetti significativi sul versante di quella che è la prima spia di questa distonia, ossia i numeri del contenzioso costituzionale. Se non si realizza tale “saldatura” è improbabile che i numeri di quest’ultimo diminuiscano.
3. Ove il Senato funzionasse realmente nel senso appena accennato sarebbe poi possibile perseguire una decisa semplificazione del riparto delle competenze legislative, ricalibrandolo in favore dello Stato. Ciò sarebbe anzi probabilmente auspicabile, considerando anche il livello ampiamente insoddisfacente che ha caratterizzato sin qui la legislazione regionale, nonché – come da più parti in dottrina viene notato[20] – gli stretti margini che a questa residuano a fronte di altri due “legislatori” (Stato e UE). Solo che tale operazione avverrebbe – in virtù del ruolo del Senato – senza andare in detrimento delle ragioni della autonomia. In sintesi, si realizzerebbe un gioco a somma zero, una sorta di trade-off tra esercizio delle competenze legislative da parte delle singole Regioni, e partecipazione – come “sistema” – all’esercizio della funzione legislativa centrale, in modo non dissimile alle concrete dinamiche del “compensatory federalism” di matrice tedesca[21].
Tutto questo ha un prezzo, ovviamente, che è necessario pagare. Bisogna accettare l’idea che su una parte (importante) delle scelte politiche centrali il sistema dei territori rappresenti un autentico veto player[22], poiché altrimenti la mitigazione della eteronomia dell’indirizzo politico centrale di cui discorre Antonio D’Atena non avrebbe modo di realizzarsi[23].Come si diceva, chi decide di sciogliere il nodo anziché tagliarlo ha dinanzi a sé una strada difficile. Il problema è se vale la pena di pagare questo prezzo. Perché dovremmo ritenere auspicabile “complicare” il sistema inserendo un potente veto player al livello centrale? Al riguardo c’è da dire che già in Assemblea costituente il Titolo V era pensato proprio per costruire, sulle singole politiche, le singole Regioni come veto players rispetto al sistema di governo centrale, soprattutto a fini garantisti. Il meccanismo evidentemente non ha funzionato come si desiderava, né prima né dopo il 2001. Ha determinato una sorta di “interdizione entropica” del sistema regionale nei confronti delle politiche statali, ossia una interdizione frutto del caos e della sostanziale inadeguatezza delle singole Regioni a realizzare politiche piuttosto che frutto di scelte consapevoli volte ad opporsi a quelle statali. Il modo tramite il quale si è tentato di superare l’“interdizione entropica” è stato quello, ben noto, della preminenza dell’indirizzo politico statale su quello regionale tramite la clausola dell’interesse nazionale.
Sul versante del bicameralismo, invece, si è costruito il Senato come un potentissimo veto player, ma – in ragione della difficoltà di raggiungere un compromesso accettabile tra le forze presenti in Assemblea[24] – la differenziazione rispetto alla Camera fu davvero minima, e in fin dei conti non sufficiente a legittimare il suo potere di blocco, tant’è che sin da subito si procedette ad assottigliarla ulteriormente al fine di eliminare per quanto più possibile le differenze politiche con la Camera dei deputati[25]. Il risultato che abbiamo tra le mani ha un sapore paradossale: il Senato italiano da un punto di vista strutturale è un fortissimo veto player, ma non c’è nessuna ragione credibile perché lo sia[26].“Avocare” al centro i veto players, facendo sì che facciano sistema, in un Senato apposito, renderebbe finalmente ragione del “potere di blocco” di quest’ultimo, e consentirebbe di non disperdere le virtù democratiche connesse alle istituzioni autonomiste, senza però cadere nella morsa costituita dall’alternativa tra l’interdizione entropica da un lato e la prevalenza dell’indirizzo politico statale dall’altro. C’è naturalmente un caveat di cui tener conto: il potere di veto senatoriale non può essere troppo esteso, poiché altrimenti si andrebbe incontro al rischio dello stallo, secondo le dinamiche di quella che – soprattutto in considerazione dell’esperienza della Repubblica federale di Germania precedente alla riforma del 2006 – viene sovente chiamata “coabitazione alla tedesca”. Ove ci si collocasse nell’ordine di idee accennato, dunque, i poteri del Senato dovrebbero essere sufficientemente penetranti da incidere nella formazione dell’indirizzo politico centrale in relazione ai temi di maggior interesse delle autonomie, ma non così estesi da bloccarlo. Con una efficace formula presa in prestito da Giancarlo Doria, si può dire: few powers, deep powers[27].
Tutto all’opposto rispetto ai percorsi appena accennati, si può invece ritenere che non valga la pena di pagare il prezzo sopra descritto, e che non ci siano sufficienti ragioni per provare a sciogliere il nodo invece che tagliarlo. Chi si pone in quest’ottica, ovviamente, ha un compito più facile. Gli basta procedere da un lato alla ricentralizzazione delle competenze, e dall’altro alla drastica semplificazione dell’assetto del Parlamento. A questo fine è sufficiente una sola Camera, o al più è sufficiente costruire una seconda Camera che genericamente “porti al centro” le istanze dei territori, senza un particolare legame con le istituzioni regionali, e caratterizzata da una strutturale minorità rispetto alla Camera bassa.
Ciò che conta, dal punto di vista da cui in questa sede si muove, è che procedendo nella direzione appena accennata riusciremmo senza dubbio ad ottenere una sensibile semplificazione dell’attuale sistema. Le competenze e le responsabilità sarebbero probabilmente più chiare, ed è altamente probabile che si riduca di conseguenza il contenzioso costituzionale. Questi obiettivi – ed è questo il punto – sarebbero però conseguiti risolvendo in favore dello Stato le situazioni di sovrapposizione e confusione, e predisponendo una serie di strumenti che consentono allo Stato di affrontare le emergenze della contemporaneità senza veto players regionali, né al livello legislativo, né al livello amministrativo. Quest’ultimo, peraltro, è l’argomento più speso per sostenere l’ipotesi accennata: nel momento presente abbiamo bisogno di un sistema decisionale efficiente, e le Regioni – che certo non hanno dato sin qui, nel complesso, prova di grande efficienza – ci ostacolano nel raggiungimento di questo obiettivo. Meglio dunque relegarle ad un grado di strutturale minorità.
3. Gli obiettivi dichiarati della riforma costituzionale, e ciò che ostacola il loro raggiungimento
3.1 Sciogliere il nodo?
Che approccio ha la riforma costituzionale approvata dalle Camere rispetto alla questione illustrata? Intende sciogliere o tagliare il nodo gordiano sopra delineato? Come vedremo, non è così facile rispondere a questa domanda. A leggere la Relazione di accompagnamento al disegno di legge costituzionale presentato dal Governo, l’intervento riformatore parrebbe senz’altro orientato nel primo senso. In tale documento, infatti, si manifesta l’intento di perseguire l’obiettivo di un intervento più efficace dei poteri pubblici nella vita economica e sociale, senza che il riparto della competenza legislativa, troppo squilibrato in favore delle autonomie, possa pregiudicarne il raggiungimento, ed in modo tale da ridurre significativamente il tasso di conflittualità istituzionale che caratterizza il sistema italiano. Al contempo, tuttavia, data l’importanza delle autonomie territoriali nella nostra vita democratica, dovremmo garantire – ed anzi addirittura approfondire – il ruolo delle relative istituzioni nel sistema di adozione delle deliberazioni pubbliche del nostro Paese.
Come sarebbe possibile ottenere simultaneamente il raggiungimento di ambedue gli obiettivi? Dalla Relazione introduttiva traspare chiaramente l’idea secondo la quale le istituzioni italiane andrebbero riplasmate in modo tale da determinare proprio quell’effetto di trade-off tra competenze e partecipazione di cui si discorreva nel paragrafo precedente. Dovrebbero da un lato decrescere le competenze (soprattutto legislative) delle singole Regioni, e dall’altro dovrebbe incrementarsi il livello di partecipazione dell’insieme delle Regioni alla adozione delle deliberazioni pubbliche rilevanti per l’intero Paese. Si propone pertanto di riformare la Costituzione con riferimento sia alla distribuzione delle competenze legislative che alla struttura e al ruolo del Senato nel procedimento legislativo, perché, finalmente, si possa compiere quella «trasformazione delle istituzioni parlamentari» auspicata come si è visto, anche dalla giurisprudenza costituzionale.
Ora, non pare sia dubbio che, sul versante del riparto tra Stato e Regioni delle competenze legislative, l’esito della riforma in itinere sarebbe complessivamente molto penalizzante per le seconde[28], per effetto combinato della rimodulazione delle competenze e della cd clausola di supremazia, di cui molto si è già scritto in dottrina. Stando così le cose, appare evidente che il buon esito del progetto più sopra sommariamente descritto – ossia l’idea di determinare, nonostante il “dimagrimento” delle competenze regionali, l’effetto di «valorizzare (…) il pluralismo istituzionale e il principio autonomistico, con l’obiettivo ultimo di incrementare complessivamente il tasso di democraticità del nostro ordinamento» – dipende soprattutto dalla idoneità dell’assetto organizzativo del Senato, nonché dallo stock di funzioni che al medesimo vengono riconosciute, di realizzare una autentica ed efficace partecipazione delle istituzioni regionali all’esercizio della funzione legislativa statale, almeno con particolare riferimento ai settori che più interessano le comunità regionali. Come si vedrà, però, ci sono forti dubbi che il testo di riforma costituzionale riesca in una operazione siffatta. Vediamo perché, cominciando dall’analisi delle disposizioni concernenti la composizione della nuova assemblea di Palazzo Madama.
3.2 La struttura del nuovo Senato...
Come è ben noto la scelta di fondo, circa la composizione del nuovo Senato, è quella della designazione indiretta dei suoi membri. Il nuovo art. 57 Cost., infatti, prevede che l’assemblea di Palazzo Madama sia composta da 95 senatori «rappresentativi delle istituzioni territoriali»[29]. Viene comprensibilmente abbandonata l’idea – inizialmente presente nell’articolato approvato in Consiglio dei ministri – dell’uguale composizione della delegazione di ciascuna Regione, in favore di un riparto che tenga conto della diversa consistenza della popolazione di ognuna di essa. I 95 membri, infatti, devono essere ripartiti tra le Regioni «in proporzione della loro popolazione, quale risulta dall’ultimo censimento generale, sulla base dei quozienti interi e dei più alti resti». Tale attribuzione, però, deve essere effettuata tenendo conto che alle Province autonome di Trento e Bolzano spettano di diritto 2 senatori, e che, in ogni caso, nessuna Regione può scendere al di sotto del medesimo numero di senatori.
Quanto alle modalità di designazione, si prevede che i Senatori vengano eletti dai Consigli regionali, con metodo proporzionale e tra i loro componenti, fatta eccezione per un senatore per Regione che deve essere eletto, sempre da parte del Consiglio, tra i sindaci dei comuni del proprio territorio[30]. A questi vanno aggiunti 5 senatori che possono essere nominati dal Presidente della Repubblica e che restano in carica 7 anni, i senatori di diritto e a vita in quanto ex Presidenti della Repubblica, nonché i senatori a vita in carica alla data di entrata in vigore della riforma, che permangono nella carica «ad ogni effetto» (art. 39, comma 7).
A rendere più complesso il quadro è peraltro intervenuto il cd “emendamento Finocchiaro”, che ha modificato il testo originario prevedendo che la elezione dei senatori ad opera dei Consigli regionali deve avvenire «in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi, secondo le modalità stabilite dalla legge» che regola le modalità di attribuzione dei seggi e di elezione dei membri del Senato (art. 57, comma 5). Al momento non è affatto chiaro come si deciderà di dare attuazione a tale previsione. Come è stato convincentemente notato in dottrina, ad ogni modo, il criterio della elezione proporzionale all’interno del Consiglio e quello della conformità alle scelte degli elettori sono destinati ad avere una coesistenza problematica, essendo ipotizzabili meccanismi meno vincolanti per il Consiglio a fianco di meccanismi maggiormente vincolanti, in grado di avvicinare l’esito della designazione a quello di una elezione diretta[31]. Molto di ciò che sarà, dunque, è ancora da scrivere.
Ad ogni modo, quale cha sia l’attuazione che si riterrà di dare all’emendamento Finocchiaro, i caratteri del nuovo Senato appaiono almeno in parte già segnati. Ciò dipende soprattutto – ma il punto sarà meglio approfondito più avanti – dalla circostanza secondo la quale il Senato sarebbe preposto a rappresentare le autonomie territoriali senza però che vi sia alcun vincolo di mandato gravante sui suoi membri. Il libero mandato rimarrebbe infatti intatto nella sua pienezza, non essendo previsto alcuno strumento per legare la posizione espressa da ciascuno di essi all’indirizzo delle istituzioni politiche della Regione da cui provengono, o almeno per rendere probabile la corrispondenza della prima al secondo.
3.3 ... e le sue funzioni
Quanto all’aspetto funzionale, pare necessario in questa sede concentrarsi soprattutto su due questioni: il ruolo del Senato nell’ambito del procedimento legislativo, ed i compiti, che gli vengono assegnati dall’art. 55, comma, consistenti nel rappresentare le istituzioni territoriali e nell’esercitare funzioni di raccordo tra lo Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica[32].
In relazione al primo punto è necessario prendere le mosse dalla regola generale dell’art. 70, comma secondo, secondo cui le leggi «sono approvate dalla Camera dei deputati», che può respingere anche a maggioranza semplice, ai sensi del comma successivo, le propose di modificazione avanzate dal Senato. Si deve tuttavia riconoscere che le diverse letture del testo di riforma hanno portato ad aumentare sensibilmente i compiti del Senato, ed in particolare i casi in cui quest’ultimo, ai sensi del primo comma dell’art. 70, è titolare di una vera e propria “legislazione condivisa” con la Camera dei deputati.
Per capire se il disegno istituzionale che stiamo abbozzando in questi mesi sia effettivamente in grado di rispondere alle aspettative che in esso si ripongono è però necessario abbandonare una mera logica quantitativa, soffermandosi sui settori nei quali tale legislazione bicamerale sarà chiamata ad esplicarsi. Al riguardo non si può non notare come, se la riforma entrasse definitivamente in vigore, dovrebbero essere approvate tramite il procedimento legislativo paritario le leggi costituzionali e di revisione costituzionale nonché alcune leggi che possiamo qualificare “di sistema”, come quelle volte a regolare i referendum popolari, lo statuto delle minoranze linguistiche, o la ineleggibilità e incompatibilità dei senatori, nonché altre leggi destinate a disegnare alcune tra le caratteristiche essenziali del sistema delle autonomie territoriali. Certamente non si tratta di settori di scarsa importanza. Tuttavia è necessario segnalare come la competenza della legge bicamerale paritaria sarebbe limitata essenzialmente al quadro istituzionale nel quale dovrebbe svilupparsi la autonomia degli enti territoriali, mentre il concreto svolgersi di quest’ultima risulterà soggetto ai limiti stabiliti in modo tendenzialmente unilaterale dalla Camera dei deputati tramite gli altri procedimenti legislativi. La gestione ordinaria delle politiche pubbliche – comprese quelle in grado di incidere profondamente sugli interessi e le funzioni regionali e locali, nonché quelle finanziarie – verrebbe dunque attribuita in linea di massima alla legislazione monocamerale di cui ai commi secondo e terzo dell’art. 70 Cost., senza che al Senato sia garantito alcun altro ruolo che quello di portare all’attenzione dell’opinione pubblica le istanze proveniente dai territori, poiché certamente non lo si potrebbe ritenere a pieno titolo coinvolto nella elaborazione delle politiche del centro.
In relazione alle norme sulla funzione di rappresentanza e su quella di raccordo, è invece possibile osservare quanto segue.
Come si è visto, a fronte della funzione di rappresentanza della Nazione attribuita a «ciascun membro della Camera dei deputati», l’art. 55 riformato prevede che «il Senato della Repubblica rappresenta le autonomie territoriali». D’altra parte – come già si accennava più sopra – viene mantenuto nell’art. 67 il divieto di mandato imperativo per tutti «i membri del Parlamento». Queste disposizioni pongono un significativo problema teorico, del quale non è difficile scorgere una immediata ricaduta pratica, che si proverà di seguito ad illustrare.
Conviene prendere le mosse da una domanda: la funzione rappresentativa di cui al testo dell’art. 55 riformato evoca le dinamiche della rappresentanza-Vertretung o della rappresentanza-rappresentazione, della rappresentanza come legame o della rappresentanza creativa? La permanenza del libero mandato in tutta la sua pienezza, e la collegata assenza di qualunque mezzo per assicurare l’unitarietà del voto di delegazione spingono di certo lontano dalle logiche della Vertretung, per le quali appare indispensabile un qualche strumento in grado di garantire la connessione necessaria tra rappresentante e rappresentato. Anche l’altro corno dell’alternativa, tuttavia, pone qualche problema. Proprio nell’ambito del dibattito sul nuovo Senato è stato di recente ricordato in modo efficace come la rappresentanza-rappresentazione si riferisca necessariamente a idee e non a cose[33], e come la logica “creativa” di cui essa è portatrice escluda che possa darsi un’altra volontà prima e all’infuori di quella dei rappresentanti[34]. Ciò vale anche quando la forma della rappresentazione incontra la sostanza della democrazia[35], sebbene in tal caso, in virtù del principio della sovranità popolare, non può non rimanere un residuo alle spalle della volontà che prende corpo tramite il rappresentante: e di ciò troviamo le tracce, ad esempio, nella dottrina del plusvalore democratico del referendum abrogativo[36], in quella giurisprudenza che sottolinea a più riprese la molteplicità delle sedi nelle quali può trovar corpo la sovranità popolare[37], nonché, volendo, in quelle elaborazioni dottrinali che in passato hanno provato a legittimare il potere presidenziale di scioglimento delle Camere in ragione di una rilevata distonia rispetto al sentimento popolare[38]. Si tratta tuttavia, come si vede, solo di tracce, che consentono talvolta di percepire una alterità dietro il rappresentante, ma che in linea di massima non negano che sia tramite quest’ultimo che il rappresentato trovi voce e corpo.
Ebbene, non ci vuol molto a concludere che per il caso della “rappresentanza delle istituzioni territoriali” del nuovo Senato non sarà così. La rappresentanza del sistema autonomistico complessivamente inteso affidata all’Assemblea-Senato dovrà infatti convivere – oltre che, ovviamente, con la rappresentanza politica nazionale affidata ai deputati, nella quale trovano forma i processi di unificazione politica generale – con una rappresentanza politica regionale e locale, che caratterizza le istituzioni territoriali, nella quale trovano corpo i processi di unificazione politica di livello, appunto, territoriale. Infine –e si tratta di un punto particolarmente importante – essa dovrà verosimilmente convivere con la funzione esercitata dalla Conferenza Stato-Regioni e più in generale dal sistema delle Conferenze, deputate a dar voce (come il Senato) all’insieme delle autonomie, ma caratterizzate (a differenza del Senato) da un legame così strutturato con le istituzioni territoriali da avvicinarsi ad una relazione di identità.
Sul piano teorico è evidente che questo stato di cose pone in mezzo al guado il Senato che verrà. Si è già notato come l’assenza di una connessione operativa necessaria, volta a rendere anche solo probabile la coincidenza delle posizioni dei senatori con l’indirizzo politico che emerge presso le istituzioni di provenienza renda inapplicabile lo schema della rappresentanza-Vertretung. L’autonoma esistenza e operatività dei soggetti rappresentati – ossia le istituzioni territoriali, che peraltro “parlano” ogni giorno anche tramite il sistema delle Conferenze – proietta d’altra parte la rappresentanza senatoriale in una dimensione ben lontana dalle logiche e dalle dinamiche della rappresentanza-rappresentazione: una dimensione nella quale, pur in assenza del mandato imperativo, il rappresentante non sarà l’unico a poter parlare per il rappresentato, né sarà la sua “voce” privilegiata[39].
Le considerazioni che possono essere proposte spostando l’attenzione dal piano teorico a quello pratico sono del resto sintoniche con quanto appena evidenziato. Al riguardo occorre invece richiamare l’attenzione sulla circostanza secondo la quale la credibilità di una istituzione chiamata a fornire prestazioni rappresentative del sistema autonomistico complessivamente inteso dipende fortemente dalla sua capacità di intercettare efficacemente i processi di unificazione politica che prendono corpo a livello regionale. Il punto sarà ulteriormente approfondito più avanti. Qui basti osservare che, ove il nuovo Senato non riuscisse in tale operazione, e anzi ove quest’ultimo fosse addirittura sconfessato, nelle proprie scelte, dalle posizioni che maturano presso le singole Regioni si minerebbe seriamente tale credibilità. Tale effetto, peraltro, rischierebbe di essere viepiù enfatizzato nell’ipotesi in cui, permanendo l’operatività della Conferenza Stato-Regioni in particolare e del sistema delle Conferenze in generale, nella prassi fosse quest’ultimo a ritagliarsi, più del Senato, il ruolo di sede istituzionale in grado realizzare l’interlocuzione politica tra centro e periferia.
Resta, a parte, la “funzione di raccordo”, teoricamente meno impegnativa e caratterizzata da un tono maggiormente pratico-operativo rispetto a quella di rappresentanza. Su tale funzione, come si vedrà, sarà forse possibile far leva per recuperare le sorti di un Senato non delineato in modo particolarmente felice dalle nuove disposizioni costituzionali.
3.4 Tagliare il nodo
È il momento di provare a suggerire qualche prima conclusione. Come si accennava, la riduzione delle competenze legislative regionali è perseguita con particolare decisione dalla riforma in itinere. Non si può non convenire, al riguardo, con chi ha osservato che l’autonomia regionale, a seguito della riforma costituzionale, risulta «alla mercé» degli organi politici statali[40], come fosse «ottriata» da questi ultimi[41]. Secondo la Relazione di accompagnamento al disegno di legge costituzionale, tuttavia, l’intervento di riforma dovrebbe essere “a saldo zero” per le ragioni dell’autonomia, o addirittura a “saldo positivo”, in ragione dell’incidenza, da parte di chi è portatore di tali ragioni, nei procedimenti legislativi del centro, per mezzo del nuovo Senato. I cenni che più sopra sono stati proposti con riguardo agli aspetti strutturali e funzionali di tale istituzione, tuttavia, non sembrano consentire il raggiungimento di questo obiettivo. La circostanza, già più sopra evidenziata, secondo la quale nelle varie politiche pubbliche, anche quelle di maggiore impatto sulle realtà territoriali, il Senato è relegato ad un ruolo radicalmente subalterno rispetto alla Camera fa già seriamente dubitare che, per questa via, le autonomie possano recuperare, come sistema, ciò che hanno perduto come singole. Il perdurare della piena libertà di mandato anche per i Senatori nel nuovo sistema costituzionale pare confermare inesorabilmente questi timori.
Quello del libero mandato è in effetti un difetto particolarmente significativo dell’assetto del “nuovo” Senato, che potrebbe rischiare seriamente di pregiudicarne la funzionalità rispetto agli obiettivi dichiarati nella Relazione introduttiva al disegno di legge costituzionale[42].Optare per modalità organizzative che consentano di connettere nel modo più certo possibile l’indirizzo politico che si forma nel raccordo Consiglio-Presidente al livello regionale e i senatori espressi dalla Regione considerata – come avrebbe potuto essere, ad esempio, la previsione di un voto unitario di delegazione da esercitare sulla base di una deliberazione da adottare a maggioranza all’interno di quest’ultima[43] – sarebbe stato invece decisamente preferibile al fine di ottenere dalla nuova Camera Alta prestazioni apprezzabili. In primo luogo, si può notare, sono le Regioni che possono impugnare le leggi statali, e che devono darvi attuazione legislativa, di talché una riforma che voglia perseguire l’obiettivo di deflazionare il contenzioso costituzionale e rendere maggiormente coerente la legislazione regionale con quella statale non può sottovalutare l’importanza di rinsaldare tale legame.
Risulta dunque chiaro, alla luce della presente indagine, che le dichiarazioni di intenti reperibili nella Relazione introduttiva al disegno di legge costituzionale non corrispondono al complessivo progetto di politica istituzionale effettivamente perseguito dal testo di riforma. La scelta effettuata dal legislatore della revisione costituzionale non pare essere stata quella di una paziente ricerca del modo di sciogliere il nodo gordiano dell’equilibrio tra unità e autonomia. La struttura e le funzioni che si è ritenuto di attribuire al Senato sembrano viceversa testimoniare l’intento di perseguire una decisa, netta e pervasiva ricentralizzazione dei processi decisionali nell’ambito del nostro ordinamento costituzionale, in modo tale da conferire saldamente al circuito dell’indirizzo politico statale la possibilità di adottare scelte anche fortemente incidenti sulle realtà territoriali. L’intento, insomma, di recidere con nettezza quel nodo, senza troppo curarsi di ciò che accade ai fili dell’autonomia.
4. L’incerta sorte dei paradigmi collaborativi elaborati dalla giurisprudenza costituzionale
Il quadro della sorte delle ragioni dell’autonomia a seguito dell’eventuale entrata in vigore del testo che sarà sottoposto a referendum, tuttavia, non è completo se non si mette a fuoco quello che forse può essere definito un “sottoprodotto” del cantiere delle riforme costituzionali, ossia gli effetti che queste ultime sono destinate ad avere, in diritto o anche solo in fatto, sui paradigmi collaborativi messi a punto dalla giurisprudenza costituzionale su cui più sopra ci si è soffermati. Al riguardo è necessario distinguere.
Come è già stato evidenziato in dottrina[44], il “paradigma dell’intreccio” e quello della “forte incidenza” hanno le carte in regola, dal punto di vista strettamente giuridico, per essere riproposti anche successivamente all’entrata in vigore della riforma costituzionale. Non c’è infatti ragione di pensare che anche in futuro non ci saranno casi di discipline statali collocate all’intreccio di materie diverse, e che taluni di questi casi non potranno essere risolti con il criterio della prevalenza. Anzi, ove si consideri che a molte delle materie riconosciute alla competenza esclusiva statale limitatamente alle “disposizioni generali e comuni” corrisponde una materia esplicitamente attribuita alla competenza regionale[45], pare addirittura probabile che accada quanto appena accennato. Ebbene, in tutti questi casi si dovrebbe dunque continuare ritenere che la legislazione statale che voglia superare indenne il giudizio di costituzionalità dovrà predisporre adeguati procedimenti collaborativi per la propria attuazione.
Se tutto ciò è vero, non si può però nascondere che, a livello pratico, le cose potrebbero essere molto differenti, poiché, con il nuovo procedimento legislativo, le Regioni che impugnano nella sede del giudizio in via principale l’atto legislativo statale non saranno più le prime istituzioni deputate alla rappresentanza degli interessi territoriali in grado di interloquire formalmente sui temi che vengono di volta in considerazione. Prima del loro (possibile) intervento ci sarà quello (anch’esso meramente potenziale, nella maggior parte dei casi) del Senato. E non è difficile prevedere che le pretese di leale collaborazione veicolate dai ricorsi regionali saranno dotate di minor forza di convincimento, se non di minor credibilità, quando ciò avverrà a valle di un procedimento legislativo in cui l’organo deputato istituzionalmente a farsi portatore della visione territorialmente orientata dell’interesse generale non abbia avuto nulla da rilevare in tal senso, ma anzi abbia magari offerto il suo fattivo contributo per la definizione del testo normativo successivamente impugnato. In sintesi, ad oggi, le prime istituzioni rappresentative di interessi territoriali in grado di esprimere il loro punto di vista sulle leggi statali sono le Regioni nella sede della loro possibile impugnazione nel giudizio principale. Domani, a seguito della riforma costituzionale, prima e a prescindere da tale eventualità sarà il Senato a poter intervenire, addirittura nell’ambito dello stesso procedimento di formazione della legge, sia pure con un ruolo certamente subalterno rispetto a quello della Camera: è dunque possibile ritenere che i sempre possibili ricorsi regionali perderanno di forza argomentativa, ove non siano stati preceduti da un intervento senatoriale orientato nel medesimo senso. L’effetto che la riforma del Senato potrà avere, da questo punto di vista, sarà quello di depotenziare, nella loro pratica applicazione giurisprudenziale, paradigmi collaborativi comunque spendibili dal punto di vista puramente giuridico.
Differenti sono invece le considerazioni che è possibile proporre per il paradigma della cd “sussidiarietà legislativa”, che pare destinato inesorabilmente a tramontare, per le ragioni che possono essere sintetizzate come segue.
1. In primo luogo deve essere osservato che la riforma costituzionale Renzi-Boschi sana – al netto di qualunque giudizio sulla effettiva idoneità degli strumenti predisposti al fine di soddisfare le esigenze sopra richiamate – quella «perdurante assenza» della trasformazione delle istituzioni parlamentari indicata dalla giurisprudenza costituzionale come presupposto per la necessaria previsione dell’intesa forte da parte delle leggi che avocassero funzioni amministrative in materie di competenza regionale. Proprio restando nell’ambito del paradigma della sussidiarietà legislativa, dunque, stando alla giurisprudenza costituzionale sopra illustrata, verrebbe meno la necessità di prevedere quelle intense forme collaborative che ad oggi la legge statale deve contenere per superare il vaglio di legittimità costituzionale.
2. In secondo luogo, non si può non ricordare in questa sede che quello che potrebbe essere il futuro art. 117, quarto comma, Cost., prevede la possibilità, per la legge statale, di intervenire «in materie non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale». Non va dimenticato, al riguardo, che il titolo di legittimazione imperniato sull’interesse nazionale rinvia ad un giudizio politico sulla sussistenza di fenomeni di interesse ultraregionale del quale, al più, si potrà sindacare la non manifesta irragionevolezza[46]. Tramite la utilizzazione della “clausola di supremazia”, dunque, lo Stato potrà operare il “ritaglio” in proprio favore del riparto della competenza legislativa stabilita dal medesimo art. 117 Cost., con limiti quasi impalpabili, e soprattutto ben al di là di quanto ad oggi sia possibile fare per mezzo dell’istituto della cd “avocazione in sussidiarietà” su cui ci si è soffermati più sopra.
3. Infine, si deve prendere atto che la maggior parte dei settori in cui, in questi anni, ha avuto modo di dispiegare i suoi effetti il paradigma della sussidiarietà legislativa, obbligando lo Stato ad una interlocuzione penetrante con le Regioni interessate dagli interventi progettati al centro, risultano affidati, nel riparto delle funzioni legislative delineato dalla riforma costituzionale, alla competenza esclusiva dello Stato. Le materie oggetto dei più importanti interventi in sussidiarietà legislativa, infatti, vanno individuate in quelle concernenti il «governo del territorio», la «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia», le «grandi reti di trasporto e di navigazione», i «porti e aeroporti civili», nonché nella materia dell’«ordinamento della comunicazione»[47]. È agevole rendersi conto che tali interventi, una volta entrata in vigore la riforma costituzionale Renzi-Boschi, sarebbero senz’altro affidati alla competenza esclusiva dello Stato, solo in alcuni casi mitigata dalla presenza di “clausole di co-legislazione” che aprono alla normazione regionale, come quella, già ampiamente dibattuta, che legittima l’intervento legislativo del centro alle sole “disposizioni generali e comuni”[48].
5. Il paradosso del nuovo Senato, ovvero di come l’istituzione della rappresentanza territoriale rischia di condannare il punto di vista dei territori
L’esito del percorso sin qui richiamato sembra paradossale. La “grande riforma”, finalmente, è a un passo: la tanto auspicata “trasformazione delle nostre istituzioni parlamentari e dei relativi procedimenti legislativi”, infatti, è pronta a prendere corpo, e non tramite la via per certi versi “minimale” dell’attuazione dell’art. 11 della legge costituzionale n. 3 del 2001, bensì per la “strada maestra” della riforma del Senato.
Nonostante ciò la rappresentanza territoriale appare, a prima vista, in un cul de sac. Da un lato le riforme in fieri minacciano di pregiudicare, in fatto o in diritto, le dinamiche tramite le quali essa ha preso forma sin qui, per il tramite della giurisprudenza costituzionale e della prassi incentrata sul sistema delle conferenze: forma certo non soddisfacente, ma comunque dotata di un certo equilibrio. Come si è visto, il paradigma della forte incidenza e quello dell’intreccio dovrebbero teoricamente essere riproposti anche nel nuovo assetto costituzionale, ma non è implausibile, per le ragioni prima illustrate, l’ipotesi secondo la quale la giurisprudenza costituzionale sarà molto più restia a farvi ricorso mentre il paradigma collaborativo della cd sussidiarietà legislativa, dovrà quasi sicuramente essere dismesso.
La tutela delle ragioni dell’autonomia – e così andiamo al punto – dovrebbe invece essere affidata al nuovo Senato della Repubblica. Tale istituzione, tuttavia, così come delineata dal testo di riforma costituzionale, per struttura e per funzioni non solo non sembra in grado di svolgere adeguatamente il suo compito, essendo priva di idonei incentivi a garantire l’emersione della rappresentanza territoriale[49], ma con la sua sola presenza rischia anzi di determinare, paradossalmente, un saldo negativo nel bilancio del peso degli interessi territoriali nella adozione delle deliberazioni pubbliche. La ricentralizzazione delle competenze legislative e il forte indebolimento dei paradigmi collaborativi di matrice giurisprudenziale sopra richiamati, infatti, non paiono adeguatamente compensati dalle deboli “funzioni di raccordo” affidate alla nuova Assemblea. Basti ricordare, al riguardo, che l’ipotesi “minimale” del già più volte menzionato art. 11 della legge cost. n. 3 del 2001, era portatrice di una scelta probabilmente più coraggiosa ed efficace di quella che caratterizza la riforma costituzionale in itinere. Quella disposizione, da un punto di vista strutturale, pur non sciogliendo il nodo delle modalità di individuazione dei rappresentanti delle autonomie, pare in modo abbastanza inequivoco far riferimento a modalità di designazione istituzionale, che comunque candidano ad un ruolo protagonista le Giunta e i Consigli regionali[50], mentre da un punto di vista funzionale balza agli occhi la sua maggiore incidenza sul procedimento legislativo rispetto a quella che caratterizzerebbe il nuovo Senato, posto che, come si è visto, il suo parere negativo (o favorevole condizionato) nei confronti di un progetto di legge vertente sulle materie di cui all’art. 117, terzo comma, e 119 Cost., impone alla Assemblea che non voglia adeguarsi l’onere di procedere a maggioranza assoluta. L’ipotesi “minimale” in questione prevedeva dunque una incidenza della rappresentanza territoriale sulle politiche statali di interesse regionale non certo tale da giungere alla co-decisione, ma probabilmente superiore a quella che, sulle medesime materie, sarà in grado di determinare il nuovo Senato.
6. Una via d’uscita per il Senato: il suo limite sarà la sua forza
Giunto a questo punto del percorso, è naturale porsi una domanda. Il vicolo cieco in cui pare confinata la rappresentanza territoriale dalla riforma costituzionale è davvero senza uscita? Oppure è possibile muoversi “all’interno” di quello che probabilmente sarà il nuovo testo costituzionale, provando a recuperarne le sorti? La risposta a questa domanda da un lato evoca direttamente la questione della posizione delle Conferenze nel sistema che verrà, mentre dall’altro dipende parecchio da come si intenderà il ruolo e il compito di senatore della Repubblica.
Il punto può essere illustrato ricorrendo ancora una volta alla forma dilemmatica, nella maniera che segue. Vogliamo che i senatori mantengano, in virtù del libero mandato, un significativo spazio di manovra individuale, aumentando anzi considerevolmente quello di cui godono oggi, in virtù del venir meno del rapporto di fiducia, e però nel contesto di una istituzione sensibilmente depotenziata e forse anche marginalizzata? Ovvero preferiamo che i senatori rinuncino a porzioni significative di questo margine di manovra, accettando nei fatti la limitazione di quella libertà di mandato che giuridicamente rimane intangibile, ma nell’ambito di una istituzione in grado di rappresentare quell’autorevole luogo di mediazione tra centro e periferia che il suo nome la chiama ad essere? Insomma, o si potenziano i senatori, o si potenzia il Senato. A questa alternativa non c’è via d’uscita. È dunque possibile affermare, in relazione al Senato, che il suo limite sarà la sua forza.
La questione è cruciale. La nuova Assemblea di Palazzo Madama sarà chiamata, dal futuro art. 55 Cost., a “rappresentare le istituzioni territoriali”. Si è visto più sopra quali sono le paludi nelle quali questa funzione rischia di impantanarsi, e certo non basterà tale disposizione normativa ad assicurarne l’autorevole svolgimento da parte dei senatori che verranno. I “galloni” della rappresentanza territoriale andranno guadagnati sul campo. Come già si accennava, il nuovo Senato dovrà infatti svolgere la sua funzione rappresentativa a fianco di un gran numero di istituzioni in grado di sconfessare ogni giorno il suo operato, o quanto meno di metterlo alla prova. Da questo punto di vista appare evidente che la autorevolezza dell’Assemblea che opererà a Palazzo Madama dipenderà in gran parte dalla capacità di esprimere con sufficiente affidabilità il punto di vista che matura presso la maggioranza delle istituzioni regionali. Perché, ad esempio, nell’ambito delle materie sottratte alla legislazione condivisa la Camera dei deputati ed il Governo dovrebbero avere interesse a recepire le indicazioni derivanti da un recall effettuato dal Senato, se in tal modo non si riuscisse ad evitare un significativo numero di ricorsi regionali volti a contestare la legittimità costituzionale della legge, e se ciò non agevolasse l’attuazione regionale delle politiche stabilite a livello statale?
Il rischio principale che corre il nuovo Senato, dunque, è quello di essere smentito nella sua funzione rappresentativa. E tale rischio, peraltro, può manifestarsi non soltanto in relazione all’attività dei singoli enti territoriali, ma anche e forse soprattutto a causa dell’attività delle loro forme di aggregazione istituzionale. Risulta chiaro, dunque, che ad essere chiamate in causa sono soprattutto le conferenze, sia verticali che orizzontali. La questione della “sopravvivenza” del sistema delle conferenze, dunque, si intreccia fortemente con quella del nuovo Senato, prescindendo peraltro almeno in parte dalla possibilità di eliminare normativamente tali istituzioni. Ciò in quanto, ove il sistema degli enti territoriali, ed in particolare le Regioni e le Province autonome, non si sentisse adeguatamente rappresentato, potrebbe comunque proseguire ed anche irrobustire l’esperienza della Conferenza delle Regioni[51] e più in generale quello delle cd conferenze orizzontali. Il rischio da prevenire dunque è quello della strutturazione di una rappresentanza del sistema delle autonomie territoriali (o anche solo di quelle maggiori) che si sovrapponga al Senato, conquistandosi sul campo quella autorevolezza che potrebbe sfuggire a quest’ultimo.
Sul punto è stato osservato che «nulla osterebbe a perpetuare il “sistema delle Conferenze”» anche successivamente all’entrata in vigore della riforma costituzionale, «ai fini di una più compiuta realizzazione del principio cooperativo»[52], richiamandosi al riguardo anche l’esperienza comparata, nella quale – come ha efficacemente messo in luce la dottrina – i meccanismi di raccordo intergovernativo hanno sovente assunto rilievo, prescindendo dal tipo di “seconda camera” con il quale erano chiamati a convivere[53]. Si tratta di osservazioni senza dubbio condivisibili. Al riguardo si può però notare che, ove i raccordi intergovernativi convivano con una seconda Camera territorialmente caratterizzata, così come possono operare sintonicamente rispetto a quest’ultima possono anche sviluppare percorsi differenti. E – soprattutto quando ciò accade con riferimento ad una Assemblea caratterizzata da un debole legame con le istituzioni locali – ciò può portare all’indebolimento dell’unica sede istituzionalmente deputata alla rappresentanza territoriale, che è anche la sola a disporre di una posizione costituzionalmente garantita. È stato convincentemente osservato, del resto, che gli esempi comparati mostrano chiaramente come «la dispersione delle sedi cooperative non paga», rischiando anzi di ostacolare «il processo di identificazione istituzionale dei territori con un determinato organo» ed «il rafforzamento di quest’ultimo innanzi al centro»[54].
Per scongiurare il rischio appena illustrato, e per altre ragioni, è stato proposto in dottrina di legare il più possibile l’attività dei senatori al sistema delle Conferenze orizzontali[55]. Vedremo tra un attimo come ottenere tale strutturazione e quali aspetti del sistema delle conferenze dovrebbero essere privilegiati. Il punto da mettere subito in luce, invece, è il seguente. Strutturare il legame con le conferenze vuol dire, innanzi tutto, farsi guidare da queste ultime nella elaborazione di posizioni politiche, nella selezione delle priorità e, più in generale, nella definizione della visione territorialmente orientata dell’interesse generale che compete innanzi tutto al Senato.
7. La strutturazione del legame con le conferenze orizzontali
Ove si accogliesse la prospettiva sopra richiamata, naturalmente, il primo problema da affrontare sarebbe quello della individuazione delle modalità della strutturazione di tale legame. Al riguardo è possibile ritenere che una soluzione di first best potrebbe realizzarsi tramite il vero e proprio incardinamento della Conferenza presso il Senato. Tale Conferenza potrebbe poi essere modulata, nella sua organizzazione, in una sessione plenaria affiancata da una sessione regionale ed una sessione concernente le autonomie locali[56].
Da un punto di vista funzionale la soluzione più coerente con l’assetto sopra accennato sarebbe quella di dotare la Conferenza territoriale collocata all’interno del Senato di due differenti fasci di funzioni. In primo luogo, ovviamente, dovrebbero essere modulate le sue relazioni con i lavori di quest’ultimo, conferendo alla Conferenza la possibilità di dialogare assiduamente con l’Assemblea di Palazzo Madama e le Commissioni che si troveranno ad operare al suo interno. Gli strumenti tramite i quali questa interlocuzione potrebbe avvenire, evidentemente, sono tutti da definire. A titolo meramente esemplificativo, tuttavia, è possibile suggerire la possibilità di chiedere un recall da parte del Senato nei confronti di un testo normativo approvato dalla Camera dei deputati, la possibilità di richiedere la calendarizzazione di un provvedimento, o comunque di esprimere delle priorità nell’ordine dei lavori, ovvero, ancora, la possibilità di esprimere posizioni politiche su provvedimenti che dovranno essere esaminati dal Senato.
In secondo luogo, la Conferenza “orizzontale” collocata nell’ambito della struttura senatoriale dovrebbe “ereditare” il ruolo che, ad oggi, la legge (e la giurisprudenza costituzionale) assegna alle conferenze “verticali” istituite presso la Presidenza del Consiglio dei ministri. Non si pensi che lo spostamento della competenza a fornire “pareri” e “intese” da conferenze “verticali” a conferenze “orizzontali” rappresenterebbe un tradimento della ratio delle norme che li prevedono, o comunque una trasformazione della funzione che si esprime mediante tali atti. Come è stato efficacemente notato con specifico riguardo alla Conferenza Stato-Regioni infatti, nonostante la legge attribuisca questi ultimi ad un organo di raccordo tra centro e periferia «il loro contenuto è espressione non già delle sue due componenti, ma dei Presidenti delle regioni»: la composizione formalmente “mista” nasconde dunque una realtà puramente territoriale[57]. Da ciò la conseguenza secondo la quale la “ricollocazione” delle funzioni in questione dalle conferenze verticali a quelle orizzontali, lungi dal “tradirne” la ratio originaria consentirebbe l’emersione della loro reale essenza.
È mio convincimento che, ove si scegliesse di percorrere la strada sopra accennata, si otterrebbero numerosi vantaggi.
1. In primo luogo, le posizioni espresse dal Senato deriverebbero da un percorso politico che vedrebbe protagoniste le autonomie territoriali che il primo è chiamato a rappresentare: il che, evidentemente, le renderebbe molto più autorevoli. Un Senato in grado di manifestare il punto di vista autentico del sistema delle istituzioni politiche regionali è del resto un interlocutore politico molto più affidabile e interessante per il Governo e la sua maggioranza, poiché la acquisizione del suo consenso rappresenterebbe senz’altro un buon viatico per evitare (il più possibile) impugnazioni da parte delle Regioni.
2. La strada accennata rappresenterebbe inoltre una efficace attuazione della generica previsione dell’art. 55 Cost., secondo cui il Senato è chiamato ad esercitare «la funzione di raccordo tra lo Stato e le Regioni, le Città metropolitane e i Comuni». La struttura organizzativa complessa stabilita a Palazzo Madama assumerebbe così una “funzione pivotale”, interloquendo con la Camera dei deputati nell’ambito della funzione legislativa e con il Governo in relazione alle funzioni che al medesimo competono. Ovviamente alla prima mostrerebbe il proprio volto “assembleare”, mentre al secondo quello “intergovernativo”: ma sarebbe comunque assicurata la coerenza dell’operato dell’uno e dell’altro[58].
3. Ancora, accogliere una “conferenza territoriale” nell’ambito della struttura senatoriale rappresenterebbe un modo per far fronte a quella che la dottrina che più ha studiato il tema ha individuato come una delle debolezze dell’attuale sistema delle conferenze: ossia la circostanza secondo la quale la collocazione di queste ultime presso la Presidenza del Consiglio dei ministri condanna la rappresentanza territoriale ad una strutturale minorità nei confronti del Governo in generale e di quest’ultima in particolare, con significativi riflessi anche su temi importanti quali quello della fissazione dell’ordine del giorno e del calendario dei lavori[59].
4. C’è inoltre un ulteriore aspetto da non sottovalutare. La soluzione accennata consentirebbe anche di dotare la Conferenza di un personale apposito, anche di provenienza regionale, in modo non dissimile da quanto accade, ad oggi, per la Conferenza Stato-Regioni istituita presso la Presidenza del Consiglio[60]. La presenza di un adeguato personale tecnico, e la strutturazione di un legame con le Regioni anche per il tramite di questo personale, consentirebbe al Senato di esprimere posizioni maturate anche in seguito delle necessarie istruttorie su realtà ed esigenze che altrimenti conoscerebbe con molta più difficoltà. Si tratta di un punto importante, che merita di essere evidenziato. Per rappresentare le esigenze delle autonomie territoriali è assolutamente necessario conoscere gli ordinamenti di questi ultimi, nonché le esperienze legislative e amministrative che li contraddistinguono. In assenza di tale background conoscitivo, per il Senato il rischio di non riuscire ad esercitare adeguatamente la funzione che le nuove norme costituzionali gli assegnano sarebbe alto. Quello accennato sarebbe dunque anche un modo per colmare, almeno in parte, il gap informativo che altrimenti l’Assemblea di Palazzo Madama sconterebbe nei confronti del Governo e della sua maggioranza, i quali invece disporrebbero del solido supporto delle strutture ministeriali.
5. Infine, anche le Regioni avrebbero molto da guadagnare, anche rispetto a quel che accade nel regime attuale, poiché otterrebbero la possibilità di veicolare le proprie posizioni politiche direttamente nell’ambito dei procedimenti legislativi, anziché nell’ambito dell’attuazione amministrativa delle scelte operate in questi ultimi, come avviene oggi per il tramite delle conferenze, eccettuati i casi in cui queste ultime devono intervenire, in virtù di un apposito criterio direttivo della legge di delega, nell’ambito dei procedimenti di delegazione legislativa.
Per percorrere con decisione e coerenza la strada ora accennata sarebbe necessario, evidentemente, il ricorso allo strumento di una ulteriore legge di revisione costituzionale. Si tratterebbe, infatti, di una scelta che, senza stravolgerla, opererebbe in parziale controtendenza rispetto a quelle effettuate con la riforma costituzionale in itinere, sanandone almeno in parte quello che è probabilmente il principale difetto. D’altra parte, come già accennato, in tal modo si riuscirebbe a “prendere sul serio” lo svolgimento della “funzione di raccordo” che il nuovo art. 55 affida al Senato, e la stessa funzione di “rappresentanza delle istituzioni territoriali” avrebbe maggiori chanches di essere esercitata efficacemente.
Si tratta, certamente, di un esito non probabile nella presente situazione politica e costituzionale, il che avvicina lo scenario sommariamente abbozzato più ad un modello ideale da perseguire che ad una concreta proposta operativa. Se si fosse convinti della utilità di andare nella direzione più sopra illustrata, tuttavia, qualche passo sarebbe alla portata. Non mi riferisco tanto alla inclusione di diritto dei Presidenti nel Senato, che, come ha osservato la dottrina, sembra un obiettivo non perseguibile agevolmente dal legislatore statale[61], quanto ad una accorta utilizzazione dello strumento del regolamento del Senato. Ciò non soltanto al fine di favorire il più possibile l’emersione della rappresentanza dei territori al suo interno, come già auspicato in dottrina[62], ma anche per avvicinarsi al modello organizzativo sopra descritto compatibilmente con i vincoli che le norme costituzionali venture imporrebbero. A questo fine bisognerebbe valorizzare la possibilità, per le norme regolamentari, di eccedere l’ambito soggettivo dei componenti dell’Assemblea già ampiamente sfruttata soprattutto in relazione al Governo, nonché la loro possibile rilevanza esterna, proprio in nome dell’attuazione delle disposizioni costituzionali sulle funzioni del Senato.
In tale ottica, ad esempio, si potrebbero lasciare inalterate le previsioni legislative concernenti le Conferenze verticali, e prevedere, tramite il regolamento del Senato, la stabile interlocuzione di quest’ultimo con i Presidenti delle Regioni e delle Province autonome riuniti in un organo collegiale appositamente istituito, che corrisponderebbe sostanzialmente alla attuale Conferenza delle Regioni. A tale organo il Regolamento potrebbe affidare funzioni di stabile interlocuzione con l’Assemblea e le Commissioni permanenti, al fine di perseguire l’obiettivo di saldare il più possibile l’indirizzo del Senato con quello delle istituzioni regionali. Evidentemente non si può andare molto oltre, soprattutto a causa del libero mandato. Resta dunque sempre in piedi la possibilità che l’Aula sconfessi la posizione politica espressa dalla Conferenza: ma ciò accadrebbe a rischio e pericolo di chi lo fa.
8. Come poteva essere, come sarà e come potrebbe essere
Gli odierni riformatori hanno dunque le idee chiare. Il nodo che oggi ci impedisce di comporre armonicamente in sistema unità e autonomie va tagliato, optando con decisione in favore della prima, e non invece sciolto con delicatezza, nel tentativo di preservare anche le seconde. Si tratta di un modo semplice di risolvere un problema complesso, che ha i pregi e i difetti che solitamente ha questo modo di procedere. Il pregio fondamentale è che solitamente così facendo si raggiunge l’obiettivo principale dal quale si è mossi. Anche in tal caso, è probabile che sia così, e che in effetti le istituzioni centrali saranno in grado di perseguire i propri progetti politici senza che le autonomie siano in grado, da sole o come sistema, di opporre alcunché[63]. I limiti, invece, sono legati a ciò che si sacrifica in nome di tale obiettivo principale, che in tal caso è rappresentato da quote significative di autogoverno delle collettività territoriali. Si tratta, evidentemente, di un progetto politico che rientra appieno nel mondo del costituzionalmente possibile, e che legittimamente può essere sposato o avversato, essendo in gioco alternative visioni di politica costituzionale piuttosto che – come pure si è autorevolmente sostenuto nel dibattito pubblico – possibili gravi lesioni di principi supremi dell’ordinamento.
Ad ogni modo, ciò che in chiusura di questo contributo preme evidenziare è che il cuore pulsante di questo progetto istituzionale, ciò che – per come può essere calibrato – imprime un connotato ovvero un altro all’intera riforma è proprio la nuova configurazione del Senato della Repubblica.
Come accennato, si sarebbe potuto provare a “sciogliere con pazienza” l’intricato nodo che abbiamo di fronte, dando adeguato seguito alle dichiarazioni che fanno bella mostra di sé nella Relazione di accompagnamento al disegno di legge costituzionale. In tale ottica sarebbe stato necessario costruire un Senato autenticamente in grado di portare al centro il punto di vista delle istituzioni regionali, nel cui quadro il vincolo di mandato, il voto unitario di delegazione e la estromissione della componente comunale sembrano difficilmente rinunciabili. Sarebbe stato poi indispensabile coinvolgere tale Assemblea nei procedimenti legislativi centrali di maggiore interesse per le Regioni, tra i quali soprattutto quelli concernenti le scelte di finanza pubblica direttamente incidenti sulle medesime. Una volta conquistata la “lealtà federale” delle Regioni i pur necessari interventi sul versante del riparto della funzione legislativa, con un eventuale riequilibrio verso un centro autenticamente “repubblicano”, in quanto espressione anche delle autonomie, sarebbero tutto sommato secondari, poiché la via politica alla soluzione del conflitto sarebbe più a portata di mano.
Si è visto che la strada prescelta da chi oggi procede alla riforma della Costituzione è ben diversa. Il Senato delle autonomie non sarà, evidentemente, ciò che sarebbe potuto essere. E tuttavia, come si suol dire, “non tutto è perduto”. La strutturazione della nuova Camera Alta è, in parte, ancora una pagina bianca, e non solo perché non è chiaro quale sarà la via tramite la quale si darà attuazione all’emendamento Finocchiaro, poiché sarà necessario ripensare da capo l’organizzazione interna dell’Assemblea. È stato detto in dottrina che l’identità del Senato rimane ancora in gran parte “indecisa”, poiché molto di ciò che questa istituzione sarà dipenderà dalle scelte che si faranno tramite il Regolamento di autonomia[64]. Certo non tutto ciò che sarebbe necessario o quantomeno auspicabile, è alla portata di questo strumento. Non vi è dubbio, tuttavia, che se vi fosse la seria volontà politica di recuperare uno spazio significativo alle autonomie regionali nel nostro sistema istituzionale, provando al contempo a dotare davvero il Senato del ruolo e dell’autorevolezza che quelle che si candidano ad essere le nuove disposizioni costituzionali intendono consegnargli, la strada di una adeguata modulazione del Regolamento interno è l’unica a disposizione. In tale ottica il Regolamento dovrebbe provare a far emergere il più possibile nell’ambito del Senato la rappresentanza territoriale a scapito di quella politico-partitica, e provare a costituire un saldo e duraturo legame con il sistema delle conferenze orizzontali, in modo che la parola del Senato sia davvero in grado di esprimere il punto di vista delle autonomie. Solo se sarà così la nuova assemblea di Palazzo Madama sarà capace di conquistarsi la sua credibilità. E, se così sarà, questa istituzione magari riuscirà a ritagliarsi spazi di interlocuzione con la Camera dei deputati anche maggiori di quelli che suggeriscono le disposizioni costituzionali.
Non ci si può nascondere, ad ogni modo, che un simile scenario non è dei più probabili. Varie ragioni congiurano in senso opposto, quali la presumibile voglia dei senatori di non veder diminuiti i propri margini di movimento, la “cattiva stampa” che caratterizza oggi le autonomie territoriali, e persino la retorica dell’elezione diretta, che ha condotto all’approvazione dell’emendamento Finocchiaro e certo spinge contro il radicarsi delle prassi che qui si auspicano. Tuttavia, come si sa, la speranza è l’ultima a morire.
[1] M. Olivetti, Il referendum costituzionale del 2006 e la storia infinita (e incompiuta) delle riforme costituzionali in Italia, in Cuestiones Constitucionales. Revista Mexicana de Derecho Constitucional, 2008, pp. 107 ss.
[2] In tema si veda Camera dei deputati, Il bicameralismo nei progetti di riforma costituzionale, in Documentazione e ricerche, quad. n. 26, 2013.
[3] Così R. Bifulco, In attesa della seconda camera federale, in T. Groppi, M. Olivetti (a cura di), La Repubblica delle autonomie, Giappichelli, Torino, 2001, 211 ss. Il riferimento è all’art. 11 della legge cost. n. 3 del 2001, che disciplina la partecipazione dei rappresentanti delle Regioni e degli enti locali alla Commissione parlamentare per le questioni regionali «sino alla revisione delle norme del titolo I della parte seconda della Costituzione».
[4] La Relazione del presidente Silvestri citata nel testo è reperibile all’indirizzo internet www.cortecostituzionale.it/documenti/relazioni_annuali/Silvestri_20140227.pdf.
[5] Al riguardo cfr., per una ricostruzione generale, S. Agosta, La leale collaborazione tra Stato e Regioni, Giuffré, Milano, 2008.
[6] In tema si veda, se si vuole, S. Pajno, La sussidiarietà e la collaborazione interistituzionale, in R. Ferrara, M. A. Sandulli (dir.), Trattato di diritto dell’ambiente, vol. II., I procedimenti amministrativi per la tutela dell’ambiente, a cura di S. Grassi e M. A. Sandulli, Giuffré, Milano 2014, pp. 403 ss., part. pp. 431 ss., nonché G. Rivosecchi, Audizione alla Commissione parlamentare per le questioni regionali nell’ambito dell’Indagine conoscitiva sulle forme di raccordo tra lo Stato e le autonomie territoriali, con particolare riguardo al “sistema delle Conferenze” (25 febbraio 2016), in Osservatorio AIC, 10 marzo 2016.
[7] L’importante principio di diritto stabilito dalla sent. n. 88 è quello secondo il quale l’affidamento allo Stato della competenza esclusiva in tema di livelli essenziali delle prestazioni determina una «forte incidenza sull’esercizio delle funzioni nelle materie assegnate alle competenze legislative ed amministrative delle Regioni e delle Province autonome», tale per cui le scelte statali, oltre a dover essere operate con legge almeno nelle loro linee generali, devono ricevere le successive specificazioni e articolazioni tramite «adeguate procedure e precisi atti formali», anch’essi previsti e disciplinati dalla legge. Dal tenore complessivo della sentenza, peraltro, si deduce abbastanza chiaramente che le «adeguate procedure» e i «precisi atti formali» sopra accennati dovranno essere in grado di condurre ad una adeguata collaborazione con il livello regionale di governo. Ciò emerge, in particolare, dal riferimento al procedimento di cui all’art. 118 del DpR 309 del 1990 (par. 3 del Considerato in diritto), e a quello previsto dall’art. 6 del Dl n. 247 del 2011 (par. 4 del Considerato in diritto).
[8] La sentenza nella quale, senza ombra di dubbio, questo modello argomentativo è utilizzato con maggior convinzione è la n. 232 del 2009, della quale parecchi passaggi meriterebbero una citazione. Al riguardo si vedano, inoltre, le sentt. nn. 134 del 2006, 250 e 251 del 2009, 8 del 2011, 297 del 2012. Una menzione particolare merita al riguardo anche la sent. n. 88 del 2014, che ripropone lo schema logico sopra richiamato in relazione ad importanti determinazioni di finanza pubblica.
[9] In tema cfr., tra gli altri, S. Parisi, La competenza residuale, in Le Regioni, 2011, 341 ss., part. 365 ss.; R. Bin, Prevalenza senza criterio, in Le Regioni,2009, 618 ss.; M. Cecchetti, La Corte “in cattedra”! Una emblematica “sentenza-trattato” che si proietta ben oltre le contingenti vicende storiche della disciplina legislativa presa in esame, in Le Regioni, 2011, 1064 ss. Per una critica si veda, se si vuole, S. Pajno, La sussidiarietà e la collaborazione interistituzionale, cit., pp. 434 ss.
[10] Così la sent. n. 6 del 2004, par. 7 del Considerato in diritto.
[11] … funzione che peraltro può anche avere ad oggetto il semplice coordinamento di funzioni regionali. Cfr., ad es., la sent. n. 270 del 2005, in tema di Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico (IRCCS). Sul punto si rinvia, per tutti, a G. Scaccia, Sussidiarietà istituzionale e poteri statali di unificazione normativa, Esi, Napoli, 2009, pp. 141 ss.
[12] Cfr., ad es., le sentt. nn. 285 del 2005, 213 del 2006, 88 del 2007, 63 del 2008, 168 del 2008, 68 del 2009 e 76 del 2009.
[13] Cfr., in part., gli artt. 200 ss. del d.lgs n. 50 del 2016, riguardanti «le infrastrutture e gli insediamenti prioritari per lo sviluppo del Paese» (art. 200).
[14] Si tratta di una condizione certo non di difficile realizzazione. Si consideri al riguardo che è sufficiente conformare legislativamente una determinata funzione come avente un ambito valutativo ultraregionale, o addirittura nazionale, per rendere “automaticamente” inadeguata la Regione al suo svolgimento. Per restare ai casi menzionati, si pensi ad es. l’art. 1 del dl n. 7 del 2002, scrutinato dalla Corte con “famosa” sent. n. 6 del 2004. Si tratta di una disposizione che – operando nell’ambito della materia di competenza concorrente della «produzione, trasporto e distribuzione dell’energia»– istituisce un procedimento di autorizzazione unica per la realizzazione di impianti del sistema elettrico, affidando il potere autorizzatorio al Ministero per le attività produttive. In tale circostanza, che l’ambito valutativo coinvolto corrisponda all’intero territorio nazionale si desume agevolmente, in primo luogo, dall’incipit della disposizione, secondo cui la finalità dell’istituzione del procedimento di autorizzazione unica è quella di «evitare il pericolo di interruzione di fornitura di energia elettrica su tutto il territorio nazionale e di garantire la necessaria copertura del fabbisogno nazionale», nonché da alcuni altri elementi, quali la inclusione tra le opere oggetto di autorizzazione unica degli «interventi di sviluppo e adeguamento della rete elettrica di trasmissione nazionale necessari all’immissione in rete dell’energia prodotta», e la titolazione dell’articolo («Misure urgenti per garantire la sicurezza del sistema elettrico nazionale»).
Ebbene, è chiaro che la Regione è inadeguata allo svolgimento della funzione autorizzatoria in questione, perché alla medesima sfugge, per così dire “ontologicamente”, la valutazione del fabbisogno energetico nazionale. Il problema è se la legge statale possa istituire e disciplinare tale funzione, vertendosi in una materia estranea a quelle di cui all’art. 117, secondo comma, Cost., e a quali condizioni possa farlo. Il “paradigma della sussidiarietà legislativa” risponde positivamente alla prima domanda, delineando in via gradata le due condizioni – di first best e di second best – in presenza delle quali è possibile procedere in tal senso.
[15] In tema cfr. ad es., con particolare riguardo alla giurisprudenza costituzionale ad es., G. D’Amico, Rifiuti radioattivi nelle Regioni “meno reattive”? Il nimby non trova spazio alla Corte costituzionale, in www.forumcostituzionale.it, 2005.
[16] … su cui si vedano R. Bifulco, In attesa della seconda camera federale, cit., e L. Gianniti, L’attuazione dell’articolo 11 della legge costituzionale n. 3/2001, in Le istituzioni del federalismo, 2001, pp. 1114 ss.
[17] Cfr. sul punto, ad es., le sentt. nn. 33 del 2011 e 239 del 2013, nonché, più di recente, nn. 7 e 142 del 2016.
[18] Non è certo questa la sede idonea ad approfondire le molteplici ragioni che si collocano all’origine di questo fenomeno per il quale, dopo una formale ed organica revisione costituzionale che impostava in termini radicalmente nuovi il ruolo degli enti territoriali della Repubblica e le relazioni tra unità e pluralismo istituzionale e dopo una prima fase in cui la giurisprudenza costituzionale ha seriamente provato ad “accompagnare” l’implementazione in concreto del nuovo modello, la Corte è tornata ad utilizzare gli antichi canoni interpretativi applicandoli al testo riformato anche al prezzo di incorrere in evidenti quanto inedite torsioni e aporie.
Tuttavia, indipendentemente dalle molteplici cause che sarebbe necessario indicare ove si volesse offrire una compiuta spiegazione di un simile fenomeno, l’analisi della giurisprudenza costituzionale successiva alla riforma del 2001 consegna un quesito difficilmente eludibile e senz’altro di grande attualità: la nuova impostazione costituzionale dei rapporti tra principio di unità e principio autonomistico era sbagliata, era irrealizzabile con gli strumenti predisposti dal legislatore della revisione, o era addirittura utopistica? Oppure, ad essere sbagliate o, comunque, clamorosamente inadeguate rispetto alla “sfida” di quelle riforme sono state le pratiche istituzionali, normative e interpretative che, anche sul piano della Suprema giurisdizione costituzionale, hanno preteso di sostenere e dare attuazione concreta al nuovo modello? La risposta che si è andata affermando nel dibattito pubblico, fino a condurre alla riforma costituzionale di recente approvata dalle Camere, è senz’altro nel senso della radicale erroneità strategica dell’operazione compiuta nel 2001. Per affrontare compiutamente il punto sarebbe necessario ben altro spazio. Proprio il fiore mai sbocciato della integrazione della Commissione bicamerale per le questioni regionali offre tuttavia uno spunto significativo che depone con decisione in favore dell’ultima ipotesi.
[19] A. D’Atena, Luci e ombre della riforma costituzionale Renzi-Boschi, in Rivista AIC, n. 2/2015, 1.
[20] Cfr. G. Scaccia, L’ente regionale fra mitologi e federali e realtà costituzionale, in AA.VV., Riforme costituzionali: il Senato delle Autonomie, Firenze, Il Ponte, 2014, pp. 9 ss., part. 15.
[21] M. Kotzur, Federalism and Bicameralism – The German «Bundesrat» (Federal Council) as an Atypical Model, in J. Luther, P. Passaglia, R. Tarchi (a cura di), A World of Second Chambers. Handbook for Constitutional Studies on Bicameralism, Milano, Giuffrè, 2006, pp. 257 ss.
[22] Il riferimento è ai noti studi di G. Tsebelis, Decision Making in Political Systems: Veto Players in Presidentialism, Parliamentarism, Multicameralism and Multipartyism, in British Journal of Political Science, Vol. 25, No. 3 (Jul., 1995), pp. 289 ss., e Id., Veto Players. How Political Institutions, Princeton, Princeton University Press, 2002.
[23] Del resto, che il senso principale di una seconda camera sia quello di “opporsi” in qualche modo alla prima, è già stato efficacemente evidenziato in dottrina: cfr. P. Lauvaux, Quand la deuxième chambre s’oppose, in Pouvoirs, 2004, pp. 81 ss.
[24] Cfr., sul punto,S. Mattarella, Il bicameralismo, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 1983, 1161 ss., e G. Rivosecchi, Art. 55, in E. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, Milano, Utet giuridica, 2006, pp. 1101 ss.
[25] Cfr. L. Paladin, Tipologia e fondamenti giustificativi del bicameralismo. Il caso italiano, in Quad. cost., 1984, pp. 219 ss., part. pp. 231 ss.
[26] … tanto che, come è stato autorevolmente osservato, nella prassi per effetto delle prestazioni unificanti del sistema politico-partitico, il bicameralismo “strutturale” italiano ha spesso funzionato come un monocameralismo “funzionale” (S. Mattarella, Il bicameralismo, cit.).
[27] G. Doria, The Paradox of Federal Bicameralism, in www.eurac.edu/edap.
[28] In tal senso, ex plurimis, S. Mangiameli, Prime considerazioni sul disegno di legge costituzionale AS/1429 sulla modifica della seconda parte della Costituzione, 15/10/2014, in www.issirfa.cnr.it/7492,908.html; A. Ruggeri, Quali insegnamenti per la riforma costituzionale dagli sviluppi della vicenda regionale?, in Rivista AIC, n. 4/2014; G. Scaccia, I tipi di potestà legislativa statale e regionale nel progetto di riforma costituzionale Renzi-Boschi, in Ist. fed., 2/2016, 2014; M. Bignami, L’autonomia politica delle Regioni ordinarie e il riparto della funzione legislativa nel disegno di legge costituzionale Renzi-Boschi, nel presente numero di questa Rivista.
[29] Si noti tuttavia che il numero di 95 potrebbe essere solo tendenziale, poiché l’art. 39, comma 2, del testo di riforma prevede che «quando, in base all’ultimo censimento generale della popolazione, il numero dei senatori spettanti a una Regione (…) è diverso da quello risultante in base al censimento precedente», alla Regione spettano senatori «nel numero corrispondente all’ultimo censimento», e ciò «anche in deroga» al primo comma dell’art. 57 Cost., così come risultante dalla modifica costituzionale. In tema cfr. R. Bifulco, Composizione, elezione e rappresentanza: il Senato (Disposizioni transitorie e finali: art. 39, commi 1-7, e art. 40, commi 5-6), in corso di pubblicazione nel Commentario al testo di riforma costituzionale per i tipi di ESI a cura di F. Marini e G. Scaccia.
[30] In tema R. Bifulco, Composizione, elezione e rappresentanza, cit., par. 2.
[31] Cfr. ancora R. Bifulco, Composizione, elezione e rappresentanza, cit., par. 4.1.
[32] A ciò si aggiunga che il nuovo art. 57, comma 1, qualifica (solo) i senatori elettivi come «rappresentativi delle istituzioni territoriali»: il che introduce qualche elemento di incoerenza nel testo, poiché la funzione rappresentativa in questione viene riferita ora all’intero collegio (art. 55), ora solo ad una parte di esso.
[33] L. Buffoni, A. Cardone, La rappresentanza politica delle ‘istituzioni territoriali’ della Repubblica, in Le istituzioni del federalismo, 2016, 1, par. 2. Il riferimento è a C. Schmitt, Cattolicesimo romano e forma politica, trad. it. Bologna, il Mulino, 1986, pp. 49 ss.
[34] L. Buffoni, A. Cardone, La rappresentanza politica delle ‘istituzioni territoriali’ della Repubblica, cit., par. 2.
[35] Cfr., ancora, L. Buffoni, A. Cardone, La rappresentanza politica delle ‘istituzioni territoriali’ della Repubblica, cit., par. 2, i quali opportunamente citano al riguardo le sentenze della Corte costituzionale nn. 379 del 1996 e 10 del 2000.
[36] … dottrina, come si sa, fatta propria almeno in parte anche dalla giurisprudenza costituzionale (cfr. la ben nota sent. n. 199 del 2012, che ha dichiarato la illegittimità costituzionale della disciplina legislativa dei servizi pubblici locali di rilevanza economica sostanzialmente riproduttiva di quella colpita dal precedente referendum del 2011).
[37] Si può richiamare qui il notissimo passo della sent. n. 106 del 2002 secondo cui «l’articolo 1 della Costituzione, nello stabilire, con formulazione netta e definitiva, che la sovranità “appartiene” al popolo, impedisce di ritenere che vi siano luoghi o sedi dell'organizzazione costituzionale nella quale essa si possa insediare esaurendovisi». Ciò in quanto «le forme e i modi nei quali la sovranità del popolo può svolgersi, infatti, non si risolvono nella rappresentanza, ma permeano l’intera intelaiatura costituzionale: si rifrangono in una molteplicità di situazioni e di istituti ed assumono una configurazione talmente ampia da ricomprendere certamente il riconoscimento e la garanzia delle autonomie territoriali» (par. 3 del Considerato in diritto).
[38] Sul punto, per una disamina, cfr. E. Cheli, Art. 88, in Il Presidente della Repubblica, Tomo II - Commentario della Costituzione a cura di G. Branca, Bologna-Roma, Zanichelli-il Foro italiano, 1983, p. 14 e pp. 65 ss.
[39] Cfr. le conclusioni che sul punto si raggiungono in L. Buffoni, A. Cardone, La rappresentanza politica delle ‘istituzioni territoriali’ della Repubblica, cit., par. 2, che ritengono senz’altro la rappresentanza territoriale compatibile con il libero mandato e declinabile nei termini di una rappresentanza “politica”, osservando in quest’ottica come il nuovo art. 55 configuri ciascun senatore non come «il delegato della propria istituzione o del proprio ‘territorio’», bensì come membro di un collegio – il Senato – chiamato, nel suo insieme, ad essere «il rappresentante di tutte le istituzioni territoriali, nel senso che riconduce (da leggersi: deve ricondurre) le plurime volontà ad una volontà unitaria». Operazione, quest’ultima, che sarebbe realizzabile solo bell’ambito di un meccanismo di “rappresentazione”.
[40] M. Bignami, L’autonomia politica delle Regioni ordinarie e il riparto della funzione legislativa nel disegno di legge costituzionale Renzi-Boschi, cit., par. 8.
[41] G. Scaccia, Prime note sull’assetto delle competenze legislative, cit., p. 16.
[42] La previsione del libero mandato anche per i componenti del Senato è stata criticata da una parte significativa della dottrina. Si vedano, ad es., F. Bilancia, Oltre il bicameralismo paritario. Osservazioni a margine del ddl Renzi, cit., (che la definisce «del tutto insensata»); G. De Vergottini, Sulla riforma radicale del Senato, in www.federalismi.it, n. 8/2014, p. 2; A. Poggi, Funzioni e funzionalità del Senato delle autonomie, in www.federalismi.it, p. 3; G. Puccini, La riforma del bicameralismo in Italia, in Astrid Rass., n. 6/2014, 27-28; A. Ruggeri, Quali insegnamenti, cit., p. 14; C. Salazar, La riforma dello Stato regionale in Italia, cit., par. 2; A. Morelli, Audizione nell’ambito dell’Indagine conoscitiva sulle forme di raccordo tra lo Stato e le autonomie territoriali, con particolare riguardo al “sistema delle Conferenze”, in Osservatorio AIC, 18 aprile 2016. Una valutazione positiva emerge invece da B. Caravita, Glosse scorrendo il testo della proposta Renzi, cit., pp. 2 s. Si veda, in tema, anche L. Buffoni, A. Cardone, La rappresentanza politica, cit., passim.
[43] Si era provato ad avanzare una proposta di tal genere in S. Pajno, Per un nuovo bicameralismo, tra esigenze di sistema e problemi relativi al procedimento legislativo, in ww.federalismi.it, n. 4/2014, cui sia consentito rinviare.
[44] G. Rivosecchi, Audizione alla Commissione parlamentare per le questioni regionali nell’ambito dell’Indagine conoscitiva sulle forme di raccordo tra lo Stato e le autonomie territoriali, con particolare riguardo al “sistema delle Conferenze” (25 febbraio 2016), in Osservatorio AIC, 10 marzo 2016.
[45] In tema cfr. E. Gianfrancesco E., Torniamo a Zanobini (?!), in Osservatorio AIC, 2014, e G. Rivosecchi, Riparto legislativo tra Stato e Regioni: le cd “disposizioni generali e comuni”, in www.gruppodipisa.it, 2014.
[46] Cfr., per tutti, A. D’Atena, Legge regionale (e provinciale), in Enc. dir., XXIII, Giuffré, Milano, 1973, 969 ss., nonché – con specifico riferimento alla riforma in itinere – E. Gianfrancesco, La “scomparsa” della competenza ripartita e l’introduzione della clausola di supremazia, in www.issirfa.cnr.it//7576,908.html, 2014.
[47] Per un approfondimento del tema si veda, se si vuole, S. Pajno, Il peso della mitologia giuridico-politica nelle vicende della revisione costituzionale in itinere,in www.rivistaaic.it, n. 3/2015.
[48] Su tale clausola di co-legislazione si vedano, tra gli altri, G. Rivosecchi, Riparto legislativo tra Stato e Regioni: le cd “disposizioni generali e comuni”, in www.gruppodipisa.it; C. Salazar (2014), Il procedimento legislativo e il ruolo del nuovo Senato, in www.issirfa.cnr.it.; I tipi di potestà legislativa statale e regionale nel progetto di riforma costituzionale Renzi-Boschi, in Ist. fed., 2/2016; E. Gianfrancesco, Torniamo a Zanobini (?!), cit.; M. Salvago, Le clausole di “co-legislazione” nel disegno di riforma costituzionale del Governo Renzi: qualche spunto di riflessione, in www.forumcostituzionale.it, 2015.
[49] Sul punto, efficacemente, N. Lupo, La (ancora incerta) natura del nuovo Senato: prevarrà il cleavage politico, territoriale o istituzionale?, in www.federalismi.it, n. 4/2016, nonché G. Rivosecchi, Audizione alla Commissione parlamentare per le questioni regionali nell’ambito dell’Indagine conoscitiva sulle forme di raccordo tra lo Stato e le autonomie territoriali, con particolare riguardo al “sistema delle Conferenze” (25 febbraio 2016), cit.
[50] Cfr., sul punto, R. Bifulco, L’integrazione della Commissione parlamentare per le questioni regionali: in attesa della Camera delle Regioni, in A. Manzella, F. Bassanini, Per far funzionare il Parlamento. Quarantaquattro modeste proposte, Bologna, il Mulino, 2007, pp. 87 ss.
[51] Su cui, per tutti, cfr. G. Carpani, La Conferenza Stato-Regioni. Competenze e modalità di funzionamento dall’istituzione a oggi, Bologna, il Mulino, 2006.
[52] Al riguardo si vedano, ad es., le audizioni di A. Morelli e G. Rivosecchi dinanzi alla Commissione parlamentare per le questioni regionali, nell’ambito dell’Indagine conoscitiva sulle forme di raccordo tra lo Stato e le autonomie territoriali, con particolare riguardo al “sistema delle Conferenze”,ambedue in Osservatorio AIC, rispettivamente 18 aprile 2016 e 10 marzo 2016.
[53] R. Bifulco, Il modello italiano delle Conferenze Stato-Autonomie, in Le Regioni, 2006.
[54] I. Ruggiu, Contro la Camera delle Regioni. Istituzioni e prassi della rappresentanza territoriale, cit., p. 378.
[55] In dottrina una proposta similare è stata avanzata in modo convincente ed efficace da N. Lupo, La (ancora incerta) natura del nuovo Senato: prevarrà il cleavage politico, territoriale o istituzionale?, in www.federalismi.it, n. 4/2016. Tale Autore si riferisce però alle Conferenze cd verticali, che come è noto comprendono anche il rappresentante del Governo. Appare preferibile invece, per le ragioni che si proverà ad illustrare nel testo, riferirsi alle cd “conferenze orizzontali”, che come è noto non contemplano la presenza dello Stato.
[56] A parte, ovviamente, la collocazione istituzionale “all’interno” del Senato, in tale direzione va la proposta di I. Ruggiu, Contro la Camera delle Regioni, cit., pp 377 ss.
[57] Cfr. G. Carpani, La Conferenza Stato-regioni, cit., p. 43.
[58] Sulla poliedricità della “funzione di raccordo”, e sulla sua capacità di proiettarsi sia in relazione all’attività legislativa che a quella governativa, cfr. A. Morelli, Audizione, cit.
[59] I. Ruggiu, Contro la Camera delle Regioni, cit., 386. Cfr., sul punto, anche G. Carpani, La Conferenza Stato-regioni, cit., pp. 25 ss.
[60] Cfr. ancora G. Carpani, La Conferenza Stato-regioni, cit., pp. 47 ss.
[61] Al riguardo si vedano, ad es., le audizioni di A. Morelli e G. Rivosecchi dinanzi alla Commissione parlamentare per le questioni regionali, nell’ambito dell’Indagine conoscitiva sulle forme di raccordo tra lo Stato e le autonomie territoriali, con particolare riguardo al “sistema delle Conferenze”, ambedue in Osservatorio AIC, rispettivamente 18 aprile 2016 e 10 marzo 2016.
[62] Così N. Lupo, La (ancora incerta) natura del nuovo Senato: prevarrà il cleavage politico, territoriale o istituzionale?, cit., pp. 12 ss., che si spinge fino ad ipotizzare una revisione regolamentare in grado di far si che i poteri del Senato nel procedimento legislativo siano ordinariamente esercitati da un’unica Commissione permanente composta da 21 membri, uno per ogni Regione o Provincia autonoma. In tal senso cfr. anche G. Rivosecchi, Audizione, cit.
[63] Non manca comunque qualche significativo punto interrogativo circa la effettiva idoneità della riforma costituzionale in progress a realizzare una efficace semplificazione del sistema istituzionale tramite la ricentralizzazione del sistema delle competenze. Il tema ovviamente meriterebbe più spazio di quello che è consentito dedicarvici in questa sede. Qui si accenna solo a due aspetti. Il primo riguarda la anodina formula delle «disposizioni generali e comuni» con cui si è ritenuto di definire (e delimitare) la competenza legislativa statale in un numero significativo di materie, che ha già dato luogo ad un intenso dibattito dottrinale e che, è presumibile, darà luogo ad un altrettanto intenso contenzioso costituzionale. Il secondo concerne, invece, una volta rotta la monoliticità dell’attuale art. 70 Cost., la individuazione del corretto procedimento legislativo da seguire, che potrà dar luogo a non pochi problemi.
[64] N. Lupo, La (ancora incerta) natura del nuovo Senato: prevarrà il cleavage politico, territoriale o istituzionale?, cit., 14, secondo cui il margine di libertà di cui disporrà il nuovo Regolamento potrebbe essere addirittura «disorientante».