La replica a Luciano Violante
La riflessione di Luciano Violante vola alta, richiamando le condizioni nelle quali oggi si trovano le istituzioni non solo nel nostro Paese. Sottoscriverei molte delle sue diagnosi. Non la terapia, cioè l’appoggio a questa riforma.
Anzitutto perché essa non ha i meriti che si vorrebbero ascriverle. Non garantisce la stabilità dei governi, che peraltro non è compromessa dal bicameralismo. La stabilità, semmai, è l’obiettivo della legge elettorale (la quale non ha di per sé a che fare con la riforma costituzionale: non c’è nessun “combinato disposto”, solo si è data per già approvata questa riforma, omettendo di intervenire sulla legge elettorale per il Senato). Obiettivo perseguito però a spese del principio di rappresentanza, per di più senza combattere l’eccesso di frammentazione politica (soglia del 3%). Sul punto Violante non si esprime fino in fondo, preferendo rimettersi a quanto potrà dire la Corte costituzionale; e curiosamente confida che, nonostante il premio che assicura la maggioranza assoluta alla Camera, il partito vincitore sia indotto a «costruire una coalizione di governo», in contrasto con il dichiarato intento di chi ha voluto questa legge elettorale.
La riforma non introduce nessuno dei meccanismi di ulteriore “razionalizzazione” del parlamentarismo (oltre a quelli già esistenti, come il voto di fiducia espresso e per appello nominale) di cui parla Violante. Egli propone il modello tedesco: magari si puntasse su quello! Una Camera politica e una (il Bundesrat) che rappresenta davvero le autonomie regionali (i Länder), con poteri significativi; una disciplina esplicita delle crisi di governo (sfiducia costruttiva, scioglimento), una legge elettorale proporzionale con soglia del 5% (che consente e favorisce la formazione di governi se del caso di coalizione, e anche di larga coalizione, come l’attuale). Il nostro riformatore propone invece solo il voto a data certa su alcuni progetti del Governo in cambio di una limitazione della decretazione d’urgenza: sono d’accordo, è una delle pochissime innovazioni positive. Se si fosse approvata una legge costituzionale con questo unico oggetto, e non un “pacchetto” eterogeneo e sgangherato come quello che si vuol sottoporre ad un unico voto referendario, il mio sì sarebbe stato entusiastico.
Luciano Violante svolge considerazioni in gran parte condivisibili sulle tendenze odierne alla personalizzazione o “presidenzializzazione” della politica e sulla crisi dei partiti. Ma il punto è se si debbano favorire e non invece controllare le spinte nel senso della personalizzazione e di un “premierato assoluto”; e se davvero l’esigenza di stabilità debba essere perseguita con artifici istituzionali a danno della rappresentanza, costruendo artificiosamente un bipartitismo o bipolarismo oggi inesistente, o non piuttosto agendo sul e nel sistema politico, combattendo le tendenze alle contrapposizioni “totali” che favoriscono gli estremismi e svuotano di senso il processo democratico. Tutto ciò peraltro, non ha a che fare col contenuto reale della riforma costituzionale.
Né si può dire che la riforma favorisce la democrazia diretta: in realtà, come ricorda anche Violante, si rinvia ad una futura legge costituzionale l’introduzione concreta (qui solo promessa) di referendum propositivi o di indirizzo; intanto si stabilisce illogicamente un quorum differenziato per il referendum abrogativo a seconda di chi lo chiede (500.000 elettori o cinque consigli regionali, da un lato, ovvero 800.000 elettori dall’altro).
Infine, Violante tace quasi completamente su quello che secondo me è l’aspetto più negativo della riforma, cioè la forte spinta alla ri-centralizzazione di poteri, a scapito delle autonomie territoriali costituzionalmente garantite. Egli si limita, a quanto sembra, ad allinearsi alla curiosa tesi corrente per cui, siccome la Corte costituzionale ha già provveduto in sede di interpretazione della Costituzione in vigore a restringere molto i confini dell’autonomia delle Regioni, va bene che in sede di riforma si dia il colpo finale, rendendo definitivamente marginale il ruolo delle Regioni anche nei settori più tipici del loro intervento, come il governo del territorio e i servizi alla persona: salvo lasciare intatti (fino a future revisioni “d’intesa”) gli statuti delle cinque Regioni ad autonomia differenziata, andando così molto al di là delle ragioni vere e ancora attuali della specialità.