La riforma costituzionale e la sua incidenza sulla oscillazione del pendolo verso l’“anima politica” della Corte costituzionale
I riflessi della riforma sulla Corte costituzionale sono analizzati attraverso alcuni temi classici della giustizia costituzionale ed alla luce delle novità introdotte dal disegno di legge sottoposto a referendum. Vegono in rilievo, così, la composizione della Corte, il contenzioso costituzionale Stato/Regioni, il possibile incremento dei vizi formali delle leggi, la nuova competenza “preventiva” e rapporti di quest'ultima con il potere di rinvio del Capo dello Stato.
Quale anima della Corte prevarrà? Quella “politica” o quella “giurisdizionale”?
1. Premessa. Il momento attuale della giustizia costituzionale ed i sintomi dell’emergere della natura politica della Corte costituzionale
Con questo scritto intendo svolgere alcune considerazioni in ordine alla possibile incidenza della riforma costituzionale – sulla quale saremo chiamati a pronunciarci il prossimo ottobre attraverso il referendum previsto dall’art. 138 della Costituzione – in ordine al funzionamento della Corte costituzionale ed al ruolo da questa assunto nel nostro sistema istituzionale dopo sessanta anni di attività.
Con riguardo a questo secondo aspetto, concernente il noto e classico problema della natura del Giudice costituzionale, ci potremmo chiedere se la riforma approvata dal parlamento possa determinare uno spostamento del pendolo della giustizia costituzionale verso l’anima politica oppure verso quella giurisdizionale.
Il problema assume una certa importanza soprattutto in considerazione del particolare momento della nostra Corte, la quale negli ultimi anni è sembrata aumentare in maniera considerevole la vocazione “politica” ed il suo dialogo quindi con il legislatore, rispetto a quella “giurisdizionale”, venendo quindi a prestare una minore attenzione ai rapporti con l’autorità giudiziaria ed i concreti interessi fatti valere nel giudizio costituzionale attivato in via incidentale.
Appaiono come espressione del suddetto spostamento del pendolo, alcune note decisioni di questi ultimi anni, a partire ovviamente da quelle in materia di elezioni.
La dichiarazione di incostituzionalità della legge elettorale nazionale del 2005 (sent. 1/2014) è stata infatti pronunciata dopo che la Corte ha superato i dubbi circa la ammissibilità della questione propostale dalla Corte di cassazione attraverso una lettura “generosa” dei propri precedenti in ordine alla necessità di un petitum distinto da quello proprio del giudizio “a quo”, ma la parte certamente più significativa a proposito di quanto stiamo dicendo è rappresentata dalle ulteriori motivazioni aggiunte ad adiuvandum (la Corte usa significativamente l’espressione «per di più»), secondo le quali leggi quale quella elettorale, che definisce le regole essenziali per il funzionamento di un sistema democratico, non possono essere immuni dal sindacato della Corte, pena il determinarsi di una zona franca e quindi di un vulnus intollerabile per l’ordinamento costituzionale complessivamente considerato.
Il Giudice costituzionale introduce inoltre, con la stessa decisione, una importante limitazione al proprio ruolo di garante dei diritti fondamentali e della costituzionalità delle leggi, sostenendo che il limite delle «leggi a contenuto costituzionalmente necessario», elaborato con riguardo all’ammissibilità delle richieste di referendum abrogativo, sia applicabile anche alle sentenze di incostituzionalità della Corte.
Questo significa che, di fronte ad una legge costituzionalmente necessaria ma incostituzionale, la Corte, venendo all’evidenza meno al suo ruolo, non può procedere alla dichiarazione di incostituzionalità qualora a seguito di quest’ultima non risulti una normativa immediatamente applicabile.
Un tipo di limitazione rilevante nella misura in cui certamente la Corte non possiede tutti gli strumenti necessari allo scopo e può pertanto rischiare di svolgere un ruolo che non le è proprio, come pare dimostrare proprio il caso della sent. 1/2014, in cui essa ha operato in effetti in modo che la lacuna non si creasse ed attraverso la quale dato vita al cd “consultellum”.
L’“ampliamento” all’accesso ricavabile dalla ricordata decisione ha determinato che, in tempi molto ravvicinati, la Corte sia stata chiamata a pronunciarsi su altre questioni simili, aventi ad oggetto la legge elettorale per il parlamento europeo e quella per l’elezione del consiglio regionale lombardo.
Nel primo caso la questione è stata dichiarata inammissibile ed a questo scopo ha assunto un ruolo decisivo nell’economia della pronuncia il fatto che, a differenza del caso risolto con la sent. 1/2014, il dubbio di costituzionalità poteva essere fatto valere attraverso la via incidentale e non poteva quindi parlarsi di “zona franca” (sent. 110/2015).
Ciò che pertanto nel primo caso aveva assunto il ruolo di argomento “ad abundantiam”, diviene adesso invece elemento decisivo per la dichiarazione di inammissibilità.
Anche la questione di costituzionalità della legge regionale della Lombardia è stata dichiarata inammissibile, relativamente alla parte in cui prevede un particolare premio di maggioranza e, mentre nella sent. 1/2014 la Corte si era mossa su un piano del tutto astratto e senza riferimento ad una specifica consultazione elettorale, nel caso della legge regionale al contrario la conclusione è stata fondata sopra una valutazione tratta dalla applicazione della legge al caso concreto, il Giudice costituzionale infatti osserva come «la disposizione censurata non ha prodotto alcuno degli effetti incostituzionali paventati dal rimettente: la maggioranza assoluta dei seggi, infatti, non è stata attribuita ad una coalizione votata da una frazione minuscola dell’elettorato; il presidente a cui le liste erano collegate non è risultato eletto con un numero esiguo di voti; né il voto disgiunto ha comportato voti per le liste collegate inferiori a quelli del presidente» (sent. 193/2015).
Una simile oscillazione di fronte a questioni sostanzialmente analoghe non può non dare l’impressione di scelte eccessivamente discrezionali da parte del Giudice delle leggi e guidate da ragioni che possono sembrare di opportunità politica.
Lo stesso può dirsi a proposito di un momento di estrema importanza per il giudizio di costituzionalità delle leggi, quale quello della efficacia delle dichiarazioni di incostituzionalità e conseguentemente del rispetto delle regole del processo costituzionale.
In occasione della dichiarazione di incostituzionalità della cd robin tax, la Corte infatti, contrariamente a quanto pare derivare dalle regole fissate in proposito dalla Costituzione e dalle leggi attuative, ha stabilito che la stessa non doveva valere per il giudizio in corso, ma solo per il futuro, nonostante avesse accertato che la incostituzionalità denunciata sussisteva ab origine e non poteva quindi ritenersi sopravvenuta in un momento successivo alla sua entrata in vigore (sent. 10/2015).
Solo dopo pochi mesi la Corte costituzionale, con riguardo al blocco degli scatti per i dipendenti pubblici contrattualizzati, di fronte alla analoga esigenza di limitare la incidenza degli effetti finanziari della dichiarazione di incostituzionalità sulle casse dello Stato, ha seguito invece la differente, già sperimentata soluzione della illegittimità costituzionale sopravvenuta.
Sempre a proposito della efficacia delle dichiarazioni di incostituzionalità, può essere ricordata anche la sent. 170 del 2014, in tema di cd divorzio imposto, con cui la Corte ha dichiarato incostituzionali gli art. 2 e 4 l. 14 aprile 1982 n. 164, nella parte in cui non prevedono che la sentenza di rettificazione dell’attribuzione di sesso di uno dei coniugi, che provoca lo scioglimento del matrimonio o la cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio, consenta, comunque, ove entrambi lo richiedano, di mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata, che tuteli adeguatamente i diritti ed obblighi della coppia medesima, con le modalità da statuirsi dal legislatore.
La particolarità consiste nel fatto che la Corte, accanto alla questione principale relativa alla disciplina del cd divorzio imposto (nella sostanza dichiarata infondata), ne affronta un’altra, connessa ma del tutto differente, relativa alla mancata disciplina della vita di coppia per una unione omosessuale, dichiarandola invece incostituzionale.
In realtà ciò che viene dichiarato incostituzionale finisce quindi per essere la “pura e semplice” omissione del legislatore e la decisione viene pertanto inevitabilmente a determinare una notevole incertezza – come dimostrato dalle diverse ed opposte soluzioni evidenziate dalla dottrina – in ordine al comportamento che dovranno tenere in proposito il giudice a quo e gli altri giudici.
Le ragioni della incertezza derivano in larga misura dal fatto che la Corte si sia ritenuta competente a giudicare, e quindi anche a dichiarare incostituzionale, la “pura e semplice” omissione del legislatore, con tutte le conseguenze che da questo, anche per il futuro, discenderanno.
La riforma costituzionale viene a investire alcuni importanti aspetti della giustizia costituzionale che potranno incidere sulla oscillazione del pendolo verso l’una o l’altra “anima” e riguardano più specificamente: a) la composizione della Corte; b) l’incidenza della modifica del titolo V della parte seconda sul contenzioso costituzionale tra lo Stato e le Regioni; c) il possibile incremento dei vizi formali delle leggi e le vie di accesso allo scopo di farli valere davanti al Giudice costituzionale; d) la previsione di una nuova competenza della Corte a giudicare sulla legge elettorale nazionale in via preventiva e la particolare sua “prima applicazione”; e) i riflessi della riforma sulla relazione tra il controllo della Corte ed il rinvio delle leggi da parte del Capo dello stato.
Questi pertanto gli aspetti che vorrei porre in luce rispetto alla riforma costituzionale Renzi-Boschi.
2. La riforma costituzionale e la nuova disciplina per la elezione dei giudici costituzionali
A nessuno sfugge la stretta connessione che viene a porsi tra la individuazione dell’elettorato attivo e di quello passivo per la elezione dei giudici costituzionali e la natura del Giudice costituzionale.
Costantino Mortati, all’indomani della entrata in vigore della Costituzione e ben prima dell’inizio del funzionamento della Corte costituzionale, osservava come «di tutti gli istituti può dirsi che la loro sorte è affidata alla capacità dei titolari; ma questo vale in modo particolare per i giudici di una Corte costituzionale perché essi devono riunire doti, le quali non facilmente vanno insieme: la profondità della cultura giuridica ed il pieno possesso di tutte le risorse e le sottigliezza della tecnica giuridica, e nello stesso tempo la conoscenza della storia e delle istituzioni costituzionali dei Paesi di civiltà europea; la piena indipendenza dalle parti politiche in contrasto, ma d’altra parte, l’informazione precisa della posizione di ogni formazione politica, della loro ragion d’essere, dei loro programmi, del loro peso, la consapevolezza delle aspirazioni popolari, dei termini dei problemi sociali che vanno elaborandosi nella coscienza delle moltitudini» (La Corte costituzionale e i presupposti per la sua vitalità (1949), in Scritti Mortati, 1972, III, 683-684).
La tripartizione del potere di nomina prevista dal Costituente (Parlamento, alte magistrature e presidente della Repubblica) è risultata, all’atto pratico, una scelta felice, la quale ha consentito alla Corte di avvalersi di una sensibilità politica, di una capacità tecnica e di una posizione di indipendenza e di imparzialità dei suoi componenti.
L’aspetto negativo, più volte sottolineato, è rappresentato dai ritardi nelle nomine parlamentari, dovuti in certi momenti alla difficoltà delle forze politiche di trovare un accordo sulla ripartizione tra le stesse delle nomine e soprattutto sulle persone da eleggere, come accaduto anche di recente.
A più riprese, in dottrina e nei progetti di riforma costituzionale che si sono succeduti, si è posto il problema relativo alla attribuzione, in varie forme e modalità, anche alle regioni di poter svolgere una loro incidenza nelle nomine dei giudici costituzionali.
Diverse le motivazioni poste a sostegno di una simile richiesta: a) la considerazione del fatto che la Corte decide questioni nelle quali sono parti le Regioni e della incidenza quindi di tali decisioni nella definizione del ruolo e delle competenze regionali; b) la necessità di dotare la Corte di una “sensibilità regionalista”; c) il ruolo acquisito e riconosciuto alle regioni nel nostro sistema costituzionale.
Le prime due motivazioni paiono senza dubbio prive di fondamento, dal momento che, con riguardo alla prima, molti altri sono i destinatari delle decisioni della Corte che dovrebbero quindi rivendicare un loro coinvolgimento nella scelta dei giudici costituzionali, mentre allo scopo meglio sembrerebbero utilizzabili differenti strumenti a garanzia degli interessi delle autonomie territoriali (quali ad esempio un ampliamento dell’accesso o della partecipazione al giudizio costituzionale).
Quanto alla necessità che i giudici costituzionali siano dotati di una non meglio specificata “sensibilità regionale”, ciò parrebbe, contro ogni evidenza, negare che finora tutti i giudici eletti dal parlamento debbano considerarsi “statalisti”, poco o per niente sensibili agli interessi delle regioni.
La terza motivazione appare maggiormente apprezzabile, purché le modalità di elezione siano tali da non attribuire ad alcuni giudici il mandato di “avvocati delle Regioni”, tenuti in ogni caso a difenderne le ragioni e gli interessi.
Le differenti stesure della riforma in esame mostrano in proposito un andamento ondivago, dal momento che è stata prevista, poi esclusa ed infine di nuovo reinserita, una disposizione che attribuisce l’elezione dei cinque giudici di nomina parlamentare tre alla Camera dei deputati e due al Senato, richiedendo allo scopo una maggioranza qualificata.
La ragione è vista anche nella necessità di evitare nel Parlamento in seduta comune il prepotere della Camera (630 deputati) rispetto al Senato ridotto a 100 membri, anche se per alcuni (A. Pace e A. Di Todaro, Domande e risposte sul referendum costituzionale, www.sollevazione.blogspot.it, 27 giugno 2016) il criterio seguito urta contro il principio di proporzionalità.
È stato giustamente osservato (E. Rossi, Una costituzione migliore? Contenuti e limiti della riforma costituzionale, Pisa, 2016, 166) come ciò poteva essere perseguito in altro modo, ossia diversificando i quorum necessari per la elezione dei giudici costituzionali (due terzi del totale, di cui almeno la metà più uno dei senatori), cui può aggiungersi che per coerenza lo stesso avrebbe dovuto essere previsto, per le medesime ragioni, anche per la elezione di un terzo dei componenti il Consiglio superiore della magistratura.
La riforma non pare certamente risolvere il problema dei ritardi nelle nomine se non nel senso di aggravarli, mentre la capacità di realizzare la partecipazione delle Regioni e degli enti territoriali alla nomina dei giudici costituzionali dipenderà molto da quello che sarà in concreto il ruolo che svolgerà il nuovo Senato, al momento davvero difficile da prevedere.
La riforma attribuisce alla Camera la rappresentanza della nazione, mentre riconosce al Senato quella di rappresentare le istituzioni territoriali.
Una vera rappresentanza degli interessi degli enti territoriali porterebbe a caricare i giudici eletti dal Senato di una sorta di “mandato regionalista” poco consono ad un giudice costituzionale ed al ruolo che questi è chiamato a svolgere nel collegio, mentre il più probabile raggruppamento dei senatori in ragione dei partiti di cui sono espressione, toglierebbe significato alla suddivisione delle nomine tra Camera e Senato, dal momento che la funzione in esame parrebbe meglio realizzata unitariamente da un organo unico, quale il Parlamento in seduta comune.
3. La modifica del titolo V della parte seconda della Costituzione e la sua incidenza sul contenzioso Stato-Regioni di fronte alla Corte costituzionale
Negli ultimi anni – a seguito della riforma costituzionale del titolo V della parte seconda della Costituzione e soprattutto della mancata approvazione delle necessarie norme di attuazione – si è prodotto un notevole innalzamento del contenzioso Stato-Regioni davanti alla Corte costituzionale, soprattutto attraverso lo strumento del giudizio in via principale.
Abbiamo infatti addirittura assistito ad uno storico sorpasso delle sentenze pronunciate a seguito di giudizi in via diretta rispetto a quelle che hanno definito il giudizio in via incidentale, entrato “in crisi” anche a seguito della diffusione tra i giudici comuni del ricorso alla interpretazione costituzionalmente conforme che ha determinato spesso il superamento dei dubbi di costituzionalità in via interpretativa.
Qualcuno ha parlato di una trasformazione della Corte da giudice dei diritti a giudice dei conflitti e nelle relazioni annuali dei presidenti della Corte costituzionale il fenomeno è stato quasi sempre sottolineato con preoccupazione, invitando al contempo il Parlamento e le forze politiche ad intervenire per porvi rimedio.
Una delle ragioni attraverso le quali è stata giustificata la ulteriore modifica del titolo V della parte seconda della Costituzione è stata infatti proprio quella di porre rimedio all’alto contenzioso tra i due enti territoriali.
La delimitazione delle competenze tra lo Stato e le Regioni ha vissuto, come noto, una storia particolare nel nostro Paese, dove l’attuazione delle seconde, a statuto ordinario, ha subito un ritardo di oltre venti anni, dopo essere diventato una rivendicazione ricorrente delle forze politiche di sinistra.
L’attuazione dopo molti anni avvenne in maniera piuttosto prudente e con la preoccupazione di non creare rischi alla unità della Repubblica, mentre successivamente le richieste del riconoscimento di una maggiore autonomia furono riconosciute con le riforme costituzionali del 1999 (autonomia statutaria) e 2001. Nello stesso segno si muoveva anche la riforma costituzionale del 2005 approvata dal Parlamento e poi bocciata dal corpo elettorale con il referendum del 2006.
L’attuale riforma costituzionale segna invece una chiara ed evidente inversione di tendenza nel senso di una pesante riduzione dell’autonomia delle Regioni ed un accentramento delle competenze in capo allo Stato.
Più in particolare vengono previsti due cataloghi di materie, il primo (che arriva alla lettera z) comprende le materie in cui lo Stato ha “legislazione esclusiva”, il secondo quelle in cui la Regione ha “potestà legislativa”, cui si aggiunge la competenza residuale per tutte le materie non espressamente riservate alla competenza esclusiva dello Stato.
Viene pertanto soppressa l’ipotesi di una competenza concorrente, che aveva rappresentato l’elemento forse più caratterizzante della disciplina dei rapporti tra Stato e Regioni, quale strumento di possibile collaborazione e cooperazione tra i due enti.
La stessa viene invece all’evidenza individuata come il capro espiatorio e la ragione dell’alto contenzioso costituzionale.
In realtà, a parte ogni altra considerazione, una volta abolita la competenza concorrente “all’italiana”, la riforma fa nascere nuove e diverse ipotesi di potestà concorrente, allorché stabilisce la competenza statale solo limitatamente alle «disposizioni generali e comuni» di diverse materie (ad esempio tutela della salute, sicurezza alimentare, tutela e sicurezza del lavoro, istruzione e formazione professionale, governo del territorio) oppure alle «disposizioni di principio» (ad esempio sulle forme associative dei comuni) oppure «al livello nazionale» o «di interesse nazionale».
Una evidente possibile invasione dello Stato nelle materie riconosciute di competenza regionale deriva poi dalla previsione della cd clausola di supremazia, in base alla quale «su proposta del Governo, la legge dello Stato può intervenire in materie non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica ovvero la tutela dell’interesse nazionale».
La riforma costituzionale pare aver tenuto a base della stessa il testo costituzionale come risultante dalla riforma del 2001 e molto meno quello “vivente”, derivante cioè dalla cospicua elaborazione giurisprudenziale ad opera della Corte costituzionale.
D’altra parte, proprio l’esame della giurisprudenza costituzionale e delle molte questioni di costituzionalità proposte in via principale, sembrano mostrare come la ragione dell’alto contenzioso non risieda affatto nella previsione di una competenza concorrente, ma molto di più nell’uso delle materie esclusive dello Stato come materie trasversali oppure la sovrapposizione tra materie statali e regionali. Una ragione dell’aumento del contenzioso può inoltre essere individuata nell’avvenuta abolizione del carattere preventivo del ricorso statale che consentiva l’avviarsi di una trattativa tra lo Stato e le Regioni.
Difficile pensare che la riforma possa determinare una riduzione del contenzioso, mentre tutto lascia pensare che, al contrario, essa possa causare un ulteriore innalzamento dello stesso, dopo che negli ultimi anni è dato registrare una flessione, dovuta proprio alla definizione dei rapporti derivante da una giurisprudenza costituzionale che è venuta progressivamente consolidandosi almeno su alcuni aspetti determinanti.
La riforma, come detto, mantiene la previsione di cataloghi di materie ed in proposito non pare che il problema sia quello di una migliore o peggiore scrittura delle materie ivi previste, dal momento che sempre e comunque si daranno problemi interpretativi per la determinazione del loro concreto contenuto, quanto quello di individuare una soluzione di carattere politico.
La modifica dei cataloghi delle materie, la reintroduzione della nozione di “interesse nazionale”, eliminata con la riforma del 2001, nonché i contorni sfumati della clausola di supremazia («tutela della unità giuridica o economica della Repubblica»), lasciano supporre che la Corte costituzionale, da un lato, non potrà far riferimento alla propria pregressa giurisprudenza e, anche a fronte delle medesime espressioni, dovrà collocare le stesse in un contesto costituzionale assai differente.
Dall’altro lato pare innegabile l’attribuzione al Giudice costituzionale di una margine di discrezionalità ancora maggiore di fronte ai futuri, prevedibili conflitti.
Sulle reali possibilità che la riforma determini una diminuzione del contenzioso costituzionale risultano significative le risposte fornite da molti esperti della materia ai quesiti formulati dalla rivista le Regioni e pubblicate in un fascicolo (1/2015) interamente dedicato a “regioni e riforme costituzionali”.
A parte la posizione di chi sostanzialmente nega l’esistenza del problema, non condividendo la “fobia contro il contenzioso costituzionale”, ritenendo lo stesso fisiologico al sistema e necessario ogni qual volta avviene una riforma della disciplina costituzionale e sostenendo che questa è in fondo la ragione per la quale la Corte costituzionale è stata prevista (Fusaro).
Altri ritengono opportuna l’attribuzione al Senato di una funzione di monitoraggio e valutazione del contenzioso in via principale da parte sia della Regione che dello Stato (Gianfrancesco).
La generalità delle risposte è nel senso che la riforma non determinerà affatto una riduzione del contenzioso, «a meno che si affermi davvero l’inaccettabile linea istituzionale per la quale di norma è la legge ordinaria statale la fonte liberamente legittimata a determinare i confini tra le diverse competenze» (De Siervo).
Sul presupposto che l’esplosione dei ricorsi, deciso dagli apparati ministeriali, è anche frutto della eliminazione del controllo preventivo, viene proposto di prevedere una procedura rapida e collaborativa che costituisca una garanzia per le Regioni contro la burocrazia ministeriale (Bin).
Molti (ad esempio Tarli Barbieri, Violini) concordano che la soluzione all’alto contenzioso deve essere di natura politica ed anche l’allora presidente della Corte costituzionale Gaetano Silvestri, nell’attribuire la ragione dell’alto contenzioso ad una disciplina costituzionale inadeguata, mise in guardia nel senso che «negli ordinamenti giuridici moderni nulla può sostituire forme efficaci di cooperazione tra i diversi livelli di governo né la ricerca di determinazioni sempre più analitiche e complesse delle competenze legislative può prendere il posto di istituzioni, poste all’interno del processo di decisione politica nazionale, destinate a comporre, in via preventiva – già nell’iter di formazione delle leggi statali – le esigenze dell’uniformità e quelle dell’autonomia» (Relazione relativa alla attività della Corte costituzionale per l’anno 2013).
Il “nuovo” Senato, rappresentativo delle istituzioni territoriali, dubito che possa costituire la soluzione politica richiesta.
L’ipotesi da alcuni avanzata in base alla quale nelle leggi bicamerali le Regioni, in quanto rappresentate dal Senato che ha approvato la legge, non potrebbero successivamente impugnare la stessa davanti alla Corte costituzionale risulta, allo stato attuale della normativa, del tutto impraticabile, anche perché, ad abundantiam, forti dubbi possono nutrirsi verso la capacità del Senato, composto nel modo indicato dalla riforma, a rappresentare le Regioni.
In proposito è stato ad esempio rilevato come, all’interno dello stesso organo, potrebbero venirsi a creare due gruppi distinti, uno in rappresentanza delle Regioni (consiglieri regionali) e l’altro dei comuni (sindaci) (Di Cosimo, Ruggeri), anche se la probabile aggregazione dei futuri senatori per affiliazione politica finirebbe per sfumare notevolmente il carattere rappresentativo delle istituzioni territoriali.
Del resto in ragione della prevista composizione del Senato e della elezione dei consiglieri regionali e dei sindaci, parrebbe altresì da escludere l’ipotesi di un “voto di delegazione”, che verrebbe a porsi in palese contrasto con la rappresentanza delle minoranze all’interno del consiglio regionale ed il divieto di mandato imperativo.
Una riforma in conclusione che, da un lato, non sembra risolvere i problemi del contenzioso costituzionale e, dall’altro, determina, per le ragioni viste, un ampliamento dello spazio di scelte discrezionali della Corte costituzionale nella risoluzione dei conflitti di competenza tra stato e regioni.
4. Il possibile incremento dei vizi formali delle leggi e le vie di accesso per farli valere nel giudizio costituzionale
Il superamento del bicameralismo paritario a favore di un bicameralismo differenziato, per il riconoscimento comunque di una competenza legislativa in capo al Senato, ha determinato la previsione di tutta una serie di differenti procedimenti, analiticamente analizzati da Emanuele Rossi (Procedimento legislativo e ruolo del Senato nella proposta di revisione della Costituzione, in Le Regioni, 2015, 203 ss.), che ha parlato in proposito di un vero e proprio “ginepraio”.
Dall’accurato esame di Rossi risultano nove differenti procedimenti e precisamente: il procedimento bicamerale; quello monocamerale, con la possibilità per il Senato di richiedere modifiche o integrazioni; quello monocamerale con ruolo rinforzato per il Senato nel caso di leggi espressive della cd clausola di supremazia; quello particolare relativo ai disegni di legge, ai sensi dell’art. 81, 4° comma, Cost.; quello abbreviato per ragioni di urgenza; quello “a data certa”; quello relativo a leggi di conversione di decreti-legge; quello per le proposte di legge di iniziativa popolare ed infine quello conseguente alla richiesta del Senato, ai sensi dell’art. 71, 2° comma, Cost.
La previsione di differenti procedimenti legislativi, con la indicazione di presupposti, termini da rispettare e quanto altro potrebbe determinare, con ogni probabilità, un deciso aumento di possibili vizi formali della legge, ipotesi finora realizzatasi in un numero decisamente basso di casi e da considerarsi quasi eccezionale.
A dimostrazione di ciò è possibile procedere con alcuni esempi.
Le leggi bicamerali, per le quali pertanto permane il regime del bicameralismo perfetto, sono previste in relazione ad un ampio ed articolato numero di materie, rispetto al quale risulta davvero arduo individuarne una ratio unitaria. Per tali leggi è poi previsto uno status particolare nel senso che le stesse debbono avere un «oggetto proprio» e possono essere abrogate, modificate o derogate solo in forma espressa e da leggi bicamerali, mentre nessun accorgimento è stato previsto, come invece in occasione di altri progetti di revisione costituzionale, allo scopo di evitare la navette parlamentare senza limiti, ad esempio attraverso la previsione di un organo misto (deputati e senatori) con il compito di conciliazione.
Una simile previsione pone già il difficile problema di individuare quale sia il significato dell’obbligo, per le leggi bicamerali, di un «oggetto proprio» e di quale sia in concreto l’applicazione del principio della abrogazione espressa, specie nella considerazione, più generale, che è ben prevedibile la possibilità di leggi a contenuto non omogeneo, vale a dire contenenti sia disposizioni rientranti tra le materie riservate alla legge bicamerale, sia altre di competenza monocamerale.
La previsione di materie riservate alla legge bicamerale, con competenza della legge monocamerale per tutte le altre, pone all’evidenza, al pari di quanto verificatosi nei rapporti tra legge statale e legge regionale, un problema di interpretazione del significato e del contenuto da riconoscere alle singole materie indicate al fine di individuare in concreto quale sia la competenza (bi o monocamerale).
La riforma stabilisce che «i presidenti delle Camere decidono d’intesa tra loro, le eventuali questioni di competenza, sollevate secondo le norme dei rispettivi regolamenti».
Una soluzione quindi, quella della intesa, priva di alternative, quale ad esempio poteva essere la previsione di un comitato paritetico, nell’ipotesi in cui l’intesa non si realizzasse.
Nella riforma costituzionale approvata dal parlamento nel 2005 e poi bocciata l’anno successivo dal corpo elettorale, era ugualmente prevista, per decidere sulle eventuali questioni di competenza, l’intesa fra i presidenti delle Camere, precisando però la possibilità per gli stessi di deferire la decisione ad un comitato paritetico (quattro deputati e quattro senatori, da loro designati), nonché che la decisione dei presidenti o del Comitato «non è sindacabile in alcuna sede».
Quest’ultima previsione aveva suscitato molti dubbi di conformità alla disciplina generale sul controllo di costituzionalità della legge, per la limitazione introdotta.
Per quanto concerne invece le leggi monocamerali, il procedimento “normale” prevede che ogni disegno di legge approvato dalla Camera sia immediatamente trasmesso al Senato, il quale, entro dieci giorni, può richiedere di esaminarlo, su richiesta di almeno un terzo dei suoi componenti. Se ciò avviene il Senato ha poi trenta giorni per deliberare proposte di modifica sulle quali la Camera dei deputati si pronuncia in via definitiva.
Potrebbe porsi il problema se la Camera, in sede di esame degli emendamenti proposti dal Senato, possa modificare, anche radicalmente, il testo originariamente approvato o debba al contrario limitarsi a pronunciarsi in ordine alle richieste del Senato e, in caso di risposta affermativa al primo aspetto, se il Senato possa richiedere un nuovo esame della parte “nuova”, non connessa alla richiesta di emendamenti, al fine di evitare un possibile aggiramento, da parte della Camera, del potere di esame e di emendamento del Senato.
Con riguardo alle già ricordate leggi con cui lo Stato decide di intervenire in materie non riservate alla legislazione esclusiva, quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica ovvero la tutela dell’interesse nazionale (cd clausola di supremazia), qualora le proposte di modifica del Senato siano approvate dalla maggioranza assoluta dei suoi componenti, la Camera può non conformarsi solo pronunciandosi nella votazione finale a maggioranza assoluta dei propri componenti.
La formulazione non certo impeccabile della disposizione pone alcuni problemi interpretativi.
Il primo riguarda la possibilità per il Senato di proporre modifiche solo a maggioranza assoluta, con esclusione quindi di farlo con una maggioranza relativa.
Il secondo concerne l’ipotesi in cui la Camera non raggiunga la maggioranza richiesta (assoluta) per non conformarsi alle modificazioni proposte, ma ad esempio la maggioranza semplice.
In questo caso potremmo ritenere che il mancato raggiungimento della maggioranza richiesta dalla norma per «non conformarsi» alle modificazioni proposte comporti l’obbligo per la Camera di conformarsi, con l’effetto quindi di far ritenere approvate le modifiche proposte dal Senato.
Questo parrebbe contrastare con il fatto che si tratta di una legge monocamerale, che dovrebbe escludere comunque la possibilità che la stessa, anche in parte, non sia approvata dalla Camera.
L’ipotesi in cui la proposta di modificazione, approvata a maggioranza assoluta dal Senato, non venga respinta con voto della maggioranza assoluta della Camera, parrebbe meglio far concludere per la mancata approvazione della legge e quindi per la impossibilità di procedere alla sua promulgazione e, nel caso in cui invece lo fosse, la legge sarebbe impugnabile davanti alla Corte costituzionale per vizio del procedimento.
Possibili vizi formali della legge sono configurabili pure con riferimento al nuovo istituto del procedimento legislativo “a data certa”, in base al quale il Governo può chiedere alla Camera che un disegno di legge, ritenuto essenziale per l’attuazione del programma di governo, sia iscritto con priorità all’odg. La Camera, entro cinque giorni, deve deliberare in proposito e, in caso di accettazione, la pronuncia definitiva della Camera deve intervenire entro settanta giorni dalla suddetta deliberazione. È previsto un rinvio al regolamento parlamentare per la disciplina delle modalità e dei limiti del procedimento, anche con riferimento all’omogeneità del disegno di legge.
Sono previsti alcuni limiti al possibile utilizzo del suddetto procedimento, dal momento che lo stesso non può essere richiesto, e quindi utilizzato, per le materie riservate alla competenza della legge bicamerale, che richiede un intervento del Senato in condizioni di parità rispetto alla Camera, nonché comunque per le leggi in materia elettorale, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali, di amnistia e di indulto, di bilancio, ai sensi dell’art. 81, 6° comma, Cost.
La violazione dei limiti di materia appena ricordati, della omogeneità del disegno di legge e pure della sua complessità, anche con riguardo alla possibilità di un ampliamento dei tempi di decisione, potrebbero rappresentare ipotesi di vizio formale della legge, mentre appare invece destinato a svolgere il ruolo di una mera clausola di stile il carattere essenziale per l’attuazione del programma di governo richiesto per il disegno di legge, non potendo certo la Corte costituzionale sindacare una simile indicazione fatta da parte del Governo.
Trattandosi di un procedimento il quale deve concludersi entro un termine prefissato (settanta giorni, prorogabili per altri quindici), potrebbe porsi inoltre il problema di quali siano gli effetti per il caso in cui questo termine non sia osservato.
Parrebbe doversi escludere la conseguenza secondo cui lo spirare del termine produrrebbe una sorta di “decadenza” della Camera dal potere di decidere, dovendo il procedimento riprendere dall’inizio, così come pure da escludere parrebbe, in caso di voto della Camera oltre i termini previsti, l’esistenza di un vizio del procedimento denunciabile davanti alla Corte costituzionale.
La scadenza del termine infatti, a mio avviso, non impedirebbe alla Camera di decidere comunque e non determinerebbe alcun vizio denunciabile in sede giurisdizionale, ma solo la possibilità di farlo valere in sede politica nei rapporti tra la Camera ed il Governo.
Con riguardo alla decretazione d’urgenza la riforma costituzionale procede, con poche innovazioni, alla costituzionalizzazione di quanto già stabilito dalla legge 400/1988, nonché dalle più recenti affermazioni della Corte costituzionale, specie relativamente alla natura speciale della legge di conversione.
Risulta, per tabulas, che il decreto legge può essere utilizzato anche nelle materie di competenza della legge bicamerale, mentre un problema interpretativo, e quindi un possibile vizio formale, si pone in ordine alla possibilità che la legge di conversione possa essere bicamerale o debba al contrario essere solo monocamerale.
La prevalente dottrina, fondandosi specificamente sulla lettera del nuovo art. 77 Cost. dove si fa riferimento, per la conversione, alla sola Camera oppure sul fatto che tra le leggi necessariamente bicamerali non compaiano le leggi di conversione, si è espressa nel primo senso (R. Tarchi, Il disegno di legge di riforma costituzionale n. 1429 del 2014. Osservazioni sparse di carattere procedurale e sostanziale, in Osservatoriosullefonti.it, 2/2014; A. Simoncini, Le fonti del diritto, in A. Cardone (cur.), Le proposte di riforma della Costituzione, Napoli, 2014, 129 ss.; D. Chinni, Interventi diretti e indiretti sulla decretazione d’urgenza nel disegno di legge di revisione costituzionale. Primi appunti, AIC, Osservatorio costituzionale, giugno 2015).
Altri propongono una diversa lettura, specie nella considerazione che il testo della riforma non risulta sul punto certamente chiarissimo ed appare anzi contraddittorio, sostenendo che in questi casi la legge di conversione debba essere bicamerale, con la sola differenza, rispetto alla regola generale, che il relativo disegno di legge debba essere presentato comunque alla Camera (E. Rossi, Una costituzione migliore? cit.; R. Romboli, Le riforme e la funzione legislativa, in Riv. AIC, 2015 2015, n. 3).
Evidente pertanto la possibilità di una espansione dei possibili vizi formali, dal momento che gli stessi consistono nella violazione delle regole procedurali e di competenza previste dalla Costituzione per l’approvazione della legge, indubbiamente meno frequenti nel caso di un procedimento pressoché unico, rispetto ai nove differenti procedimenti previsti dalla riforma.
Per questo potemmo chiederci se il nostro attuale sistema di giustizia costituzionale e in particolare le vie di accesso al Giudice costituzionale siano da ritenere adeguate per questo compito, anche se, per alcuni (C. Fusaro, in Le Regioni, 2015, 159 ss.) è considerato addirittura prioritario tener fuori da un simile controllo la Corte costituzionale.
In ordine alle vie di accesso lo strumento della impugnazione in via principale da parte della Regione risulta senz’altro percorribile, anche se assai ridotto dalla necessità per la stessa di dimostrare, in base alla consolidata giurisprudenza costituzionale, la “ridondanza” del vizio denunciato sulle competenze regionali.
Lo stesso vale per il conflitto tra enti, mentre quello tra poteri potrebbe vedere l’utilizzo dello strumento da parte del Senato contro la decisione della Camera di procedere attraverso il procedimento monocamerale su materie rientranti, a giudizio del primo, tra quelle di competenza bicamerale.
Infine ovvia la possibilità di far valere il vizio attraverso la via incidentale, anche se in questo caso, oltre alle note strettoie poste dalla legge, il vero problema, come esattamente sottolineato da Paolo Passaglia (Il presumibile aumento delle denunce di vizi procedurali e l’ampliarsi di una “zona d’ombra” della giustizia costituzionale, in Federalismi.it, 2 marzo 2016), appare quello di creare le condizioni perché certi vizi possano realmente essere rilevati e venire, anche materialmente, a conoscenza dei possibili ricorrenti.
Per il tipo di vizio in questione – che coinvolge l’intero testo normativo ed è riscontrabile in astratto, indipendentemente cioè dagli esiti di una interpretazione e applicazione in concreto della legge da parte dei giudici o di altri – un controllo preventivo sarebbe pertanto certamente più idoneo rispetto a quello successivo sulla legge.
Quanto invece ai soggetti legittimati a farlo, parrebbe quasi immediato individuare in proposito le minoranze parlamentari, sia sulla base delle esperienze di altri Paesi (tra cui in particolare quello della saisine parlementaire), sia perché soggetti maggiormente in condizione di conoscere il vizio e quindi di proporre il ricorso davanti alla Corte costituzionale.
Il controllo preventivo da parte delle minoranze parlamentari, pur presente in molte esperienze di giustizia costituzionale simili alla nostra, ha spesso sollevato obiezioni relativamente alla eccessiva politicizzazione che potrebbe derivare per l’attività della Corte, specialmente in considerazione della situazione politica italiana.
Questo rischio pare potersi ritenere ridotto in caso di denuncia di vizi procedimentali rispetto a quanto potrebbe accadere per la denuncia dei vizi di merito e comunque risulta eccessiva la posizione assunta dall’allora presidente della Corte costituzionale Criscuolo nel criticare, senza alcun distinguo, l’introduzione di un controllo preventivo, sostenendo che esso tradirebbe il ruolo della Corte affidando alla stessa un ruolo di consulenza preventiva che non le spetta.
La riforma al contrario non ha ritenuto di introdurre un ricorso delle minoranze parlamentari, nonostante il riferimento, contenuto nella stessa, allo «statuto delle opposizioni», che viene però rimesso alla disciplina contenuta nel regolamento della Camera dei deputati, il quale non potrà stabilire il ricorso delle minoranze, stante in proposito una riserva di legge costituzionale.
5. Il controllo preventivo delle leggi elettorali della Camera e del Senato e la particolare sua “prima applicazione”
Una nuova competenza viene invece assegnata alla Corte costituzionale con riguardo alla verifica della costituzionalità delle leggi elettorali del Senato e della Camera.
La riforma prevede infatti che tali leggi possano essere impugnate con ricorso motivato davanti alla Corte prima che le stesse entrino in vigore (controllo preventivo) a iniziativa di almeno un quarto dei deputati o un terzo dei senatori. Qualora la legge venga dichiarata incostituzionale, la medesima non potrà essere promulgata e quindi non entrerà in vigore.
La materia elettorale rientra tra le ipotesi maggiormente segnalate di “zone franche” della giustizia costituzionale, ma l’evidente scopo della riforma non risulta essere tanto quello di porre rimedio alla stessa, ma trova invece la sua ragione nella ricordata decisione della Corte costituzionale con la quale è stata dichiarata l’incostituzionalità della legge elettorale del 2005.
Se appare certamente eccessivo parlare a proposito di tale decisione della introduzione, per via giurisprudenziale, di un ricorso diretto – il quale è caratterizzato infatti dal superamento del potere delibatorio del giudice e dall’aver spesso ad oggetto proprio le sentenze di giudici – può ugualmente ritenersi che sia stato aperto un varco più ampio alle ipotesi di lites fictae, attraverso la sostanziale eliminazione della condizione della necessaria pregiudizialità.
È facile quindi supporre che la previsione di un controllo preventivo della legge elettorale abbia avuto il chiaro intento di anticipare il giudizio della Corte e di ridurre le ipotesi di questioni di costituzionalità sollevate successivamente, con evidenti conseguenze in ordine alla legittimazione del Parlamento eletto (come nel ricordato caso della sentenza di incostituzionalità n. 1 del 2014) o comunque alla certezza delle regole elettorali.
Quanto alla titolarità del ricorso ci si è chiesti se, a seguito del superamento del bicameralismo paritario, tale possibilità sia riconosciuta ai senatori solo con riguardo alla legge elettorale del Senato e ai deputati a quella della Camera oppure entrambi possano farlo sia per l’una che per l’altra.
Nonostante possa apparire poco conforme al nuovo assetto costituzionale che un terzo del Senato, in quanto rappresentativo delle autonomie territoriali, possa impugnare la legge elettorale della Camera, monocamerale, la lettera della disposizione parrebbe non lasciare grossi dubbi in proposito, nel senso della legittimazione di entrambi i soggetti per entrambe le leggi elettorali.
Con riferimento a questa nuova competenza riconosciuta alla Corte costituzionale vorrei solo sottolineare alcuni aspetti particolari del relativo processo che potrebbero svolgere una influenza nella oscillazione del pendolo dell’azione della Corte verso il polo politico, nonché poi svolgere, in stretta connessione, una valutazione conclusiva.
Un primo aspetto è relativo al ricorso, il quale deve essere «motivato» e presentato entro dieci giorni dalla approvazione della legge. Nella versione approvata dal Senato era invece previsto che il ricorso recasse «l’indicazione degli specifici profili di incostituzionalità».
Dovendosi dare un significato alla modifica apportata dalla Camera, si deve ritenere che la motivazione del ricorso – avente all’evidenza ad oggetto rilievi di legittimità costituzionale, dal momento che la Corte non può conoscere vizi di merito – possa anche limitarsi ad indicare la violazione di individuati principi costituzionali senza la necessità di indicazioni specifiche, al pari di quelle richieste al giudice a quo al momento di sollevare una questione di costituzionalità in via incidentale.
Ci potremmo chiedere se, specie nel primo caso, la Corte costituzionale sia tenuta a rispondere solamente a quanto richiesto oppure abbia la possibilità, a sua scelta, di controllare l’intera legge o ancora che ciò rappresenti per il Giudice costituzionale un obbligo.
La risposta credo derivi dal contenuto del ricorso, nel senso che lo stesso può legittimamente essere motivato con riguardo a vizi che possono inficiare la legge nel suo complesso (si pensi ad un vizio formale, ma anche a vizi sostanziali attinenti alle fondamenta della legge) oppure relativamente ad un singolo e ben individuato contenuto della stessa (ad esempio la disciplina del premio di maggioranza).
La necessità di un ricorso motivato delle minoranze parlamentari vale indubbiamente a distinguere questa ipotesi da quella di un controllo generalizzato su tutte le leggi, quale quello del presidente della Repubblica in sede di promulgazione.
Nel caso di impugnazione della legge elettorale con riguardo ad un aspetto specifico, la Corte costituzionale sarà tenuta a pronunciarsi solamente su quello e non potrà prendere in esame di propria iniziativa aspetti differenti, mentre per quanto concerne il parametro costituzionale sarei dell’avviso che la Corte possa prendere in considerazione qualsiasi disposizione o principio costituzionale, indipendentemente dal fatto che il ricorso vi abbia o meno fatto espresso riferimento.
Un limite quindi per il Giudice costituzionale relativamente all’oggetto, risultante dal ricorso, ma non al parametro costituzionale.
Un secondo aspetto concerne il rapporto che viene a porsi tra il controllo preventivo, introdotto dalla riforma, e la possibilità di un controllo successivo, nel caso in cui la questione di costituzionalità sia stata dichiarata infondata dalla Corte costituzionale.
Salvo una diversa previsione nelle leggi di attuazione, una pronuncia di infondatezza nell’ambito del controllo preventivo astratto non attribuisce una patente di legittimità alla legge, neppure con riguardo agli specifici aspetti esaminati, per i quali essa rappresenterà ovviamente un importante precedente, ma non impedirà certamente la riproposizione della medesima questione.
La soluzione seguita in Francia appare infatti difficilmente trasferibile nel nostro Paese, dove il rapporto tra autorità giudiziaria e Giudice costituzionale ha avuto una disciplina ed una applicazione assolutamente differente, che ha di conseguenza caratterizzato la nostra Corte come un giudice, seppure dotato necessariamente di una particolare sensibilità politica.
Il terzo ed ultimo aspetto riguarda invece la tipologia delle decisioni della Corte nell’ambito del giudizio preventivo sulle leggi elettorali della Camera e del Senato e la loro efficacia.
Innanzi tutto pare indubbio che la pronuncia possa essere di tipo processuale e pertanto che si potrà avere una decisione di inammissibilità per mancanza dei presupposti richiesti dalla Costituzione (ad esempio totale assenza di motivazione per il ricorso, ricorso presentato da un numero di senatori o di deputati inferiori a quello previsto, impugnazione di legge non ritenuta rientrare tra quelle «che disciplinano l’elezione dei membri della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica»).
In questo caso pare evidente che la legge possa essere promulgata, dal momento che il ricorso deve rispettare termini rigorosi e non può pertanto essere riproposto, eliminando i vizi rilevati dalla Corte. Il Capo dello Stato però in questo, messo sull’avviso dalle ragioni sostenute nel ricorso, qualora ritenga le stesse meritevoli, potrebbe rinviare la legge con richiesta di riesame, ai sensi dell’art. 74 Cost.
Quanto alle pronunce di merito, la decisione di infondatezza sembrerebbe condurre a maggior ragione alla promulgazione della legge, anche nell’ipotesi in cui si trattasse di una sentenza interpretativa di rigetto.
Questo tipo di pronuncia infatti può ritenersi certamente ammissibile anche con riguardo alla competenza in esame, anche se val la pena di sottolineare come in questo caso non varrebbe il suo utilizzo allo scopo di non creare un vuoto normativo o di raggiungere il maggior risultato possibile, anche di fronte all’inerzia del legislatore, trattandosi di un ricorso che precede l’entrata in vigore della legge.
La decisione interpretativa di rigetto d’altra parte, seppur pronunciata in astratto e non nel corso di un giudizio in via incidentale, non potrebbe avere il significato di una sorta di interpretazione autentica delle legge – certamente fuori dalle competenze attuali della Corte e dal ruolo di giudice da questa assunto – ma, pur se non vincolante, potrebbe valere a fondare un futura questione di costituzionalità proposta successivamente all’entrata in vigore della legge.
La decisione di illegittimità costituzionale della legge elettorale impedisce la promulgazione della stessa, per cui ciò esclude la possibilità di pensare a pronunce di tipo manipolativo (additive, sostitutive ecc.).
La dichiarazione di incostituzionalità, anche sulla base del contenuto del ricorso, potrà essere totale oppure parziale.
La previsione costituzionale secondo la quale «in caso di dichiarazione di illegittimità costituzionale, la legge non può essere promulgata» deve ritenersi riferita ad entrambe le suddette ipotesi.
Mi parrebbe infatti da escludere la possibilità di una promulgazione parziale, sul tipo della esperienza siciliana ora dichiarata incostituzionale, vale a dire della parte non colpita dalla dichiarazione di incostituzionalità, dal momento che la maggioranza parlamentare o della Camera che ha approvato la legge potrebbe non riconoscersi nella stessa amputata di una sua parte, la quale potrebbe essere stata determinante per convincere a votarla. Per questo una nuova approvazione parlamentare o della Camera sembrerebbe comunque assolutamente necessaria.
Certamente non potrebbe valere, in questo caso, il limite, autoimpostosi dalla Corte, di non poter dichiarare incostituzionale una legge elettorale se non a condizione che la disciplina di risulta sia tale da consentire la elezione delle Camere, data la natura preventiva del controllo.
La Corte costituzionale è chiamata ad intervenire «entro trenta giorni», durante i quali il termine per la promulgazione rimane sospeso.
Il termine potrebbe ritenersi di carattere ordinatorio, nel senso che la Corte costituzionale non decade dal potere-dovere di decidere alla scadenza dei trenta giorni, ma è pure vero che, trascorsi i trenta giorni, il Capo dello stato potrebbe promulgare la legge senza attendere la decisione del Giudice costituzionale, il quale se ciò avvenisse perderebbe la possibilità di pronunciarsi dal momento che il controllo deve mantenere necessariamente la natura di controllo preventivo, con la possibilità di impedire la promulgazione e non può pertanto trasformarsi in un controllo successivo.
Venendo infine ad una valutazione di ordine più generale sull’inserimento di questa nuova, particolare competenza tra quelle attribuite alla Corte costituzionale, ritengo davvero eccessivo sostenere che ciò determinerebbe uno snaturamento del nostro sistema di giustizia costituzionale e della natura della Corte.
Certamente la nuova competenza non è paragonabile alle precedenti (controllo delle leggi regionali in via principale) o alle attuali (controllo degli statuti delle regioni ordinarie) ipotesi di controllo preventivo, né al controllo esercitato su tutte le leggi da parte dell’altro custode della Costituzione in sede di promulgazione.
La “politicità” della questione, nel nostro caso, risulta certamente assai più alta, sia in ragione dei titolari del ricorso (minoranze parlamentari), sia del tipo di legge oggetto del giudizio (legge elettorale), sia del fatto di intervenire a ridosso della scelta politica.
Trattandosi di un giudizio avente ad oggetto un solo tipo di legge, la quale tradizionalmente non è soggetta a mutamenti troppo frequenti, c’è da attendersi che la Corte sarà chiamata ad esercitare questa nuova competenza solo sporadicamente, per cui escluderei di parlare di stravolgimento del modello, anche se appare indiscutibile che essa segnerebbe un altro, ulteriore elemento tale da determinare uno spostamento del Giudice costituzionale verso l’“anima politica” a scapito di quella “giurisdizionale”.
La disciplina contenuta nella riforma risulta essere assai essenziale e, per molti aspetti, bisognosa di una normativa di attuazione, che valga a chiarire punti che adesso risultano incerti.
Questa legge – meglio se di rango costituzionale o almeno ordinario, escludendo che ciò possa avvenire attraverso l’approvazione di norme integrative da parte della stessa Corte costituzionale – dovrebbe servire a meglio definire la nuova competenza ed i suoi aspetti processuali e quindi eventualmente a limitare, ma certo non ad eliminare, l’esposizione politica del Giudice costituzionale.
Tra le disposizioni finali della riforma una prevede una particolare «prima applicazione» dell’istituto del controllo preventivo sulla legge elettorale, introdotto dalla stessa riforma.
In base a tale disposizione è possibile richiedere, da parte dei soggetti indicati, di sottoporre al controllo di costituzionalità le leggi elettorali approvate nella stessa legislatura in corso alla data di entrata in vigore della riforma.
La previsione esprime chiaramente l’accordo intervenuto tra le forze politiche che sostengono (o sostenevano) la riforma di sottoporre a verifica, prima della sua applicazione, la recente legge elettorale (cd Italicum) approvata appunto nella corrente legislatura, nell’ambito della quale si spera che possa entrare in vigore anche la riforma costituzionale. Ciò anche in considerazione dei molti dubbi da più parti sollevati circa la conformità di tale legge ai principi espressi dalla Corte costituzionale nella sent. n. 1 del 2014, che ha dichiarato incostituzionale la precedente legge elettorale e che sarà chiamata ad ottobre a pronunciarsi su alcune questioni già sollevate in giudizi in via incidentale e pendenti davanti alla stessa.
Assai discutibile che quella appena ricordata possa essere definita come una «prima applicazione», dal momento che trattasi di un tipo di controllo sostanzialmente differente in molti degli aspetti essenziali e caratterizzanti, in realtà un giudizio ad hoc ed una tantum riguardo ad una specifica legge.
Innanzi tutto si tratterebbe di un controllo successivo e non più preventivo, essendo la legge impugnata ormai entrata in vigore, anche se non ancora applicata (e divenuta applicabile solo dal 1° luglio 2016).
Questo comporta che difficilmente si possa pensare ad un ricorso rivolto genericamente a contestare la legittimità costituzionale, dal momento che in questo caso saranno applicabili le regole relative ai giudizi di costituzionalità in via successiva, tra cui anche il principio del chiesto e pronunciato e quelle relative alla efficacia delle pronunce di incostituzionalità.
La sentenza della Corte non avrà infatti l’effetto di impedire la promulgazione della legge, ma quello di dichiarare l’incostituzionalità di alcune parti della stessa, con il risultato di poterne modificare il contenuto a seguito della eliminazione della parte dichiarata appunto incostituzionale.
Al proposito varrà pertanto quanto la Corte costituzionale ha affermato nella ricordata decisione n. 1 del 2014, vale a dire che la stessa Corte non può procedere alla dichiarazione di incostituzionalità di una legge elettorale o di parti della medesima qualora il risultato dell’intervento demolitorio conduca ad una legge non automaticamente applicabile, data la natura di «legge costituzionalmente necessaria» della legge elettorale.
6. I riflessi della riforma sulle relazioni tra il controllo della Corte costituzionale ed il potere di rinvio del Capo dello Stato
Concludo con alcuni brevi osservazioni in ordine alla incidenza che potrebbe svolgere la riforma costituzionale sul rapporto esistente tra il controllo delle leggi da parte del Capo dello Stato e quello esercitato dalla Corte costituzionale.
È stato infatti sostenuto (F. Dal Canto, Qualche osservazione sulla proposta di introduzione del ricorso preventivo di costituzionalità avverso le leggi elettorali, in ConsultaOnline, 27 maggio 2015, fasc. II, 460 ss.) che la previsione di un controllo preventivo sulla legge elettorale avvicinerebbe il controllo della Corte costituzionale a quello esercitato dal Presidente della Repubblica ai sensi dell’art. 74 Cost.
Da tempo la dottrina assolutamente prevalente ha evidenziato come la ricostruzione che vede due custodi della Costituzione, che esercitano il medesimo ruolo di garanzia attraverso la stessa funzione (controllo sulla conformità delle leggi ai principi costituzionali), l’uno (il Presidente) in via preventiva attraverso il rinvio, l’altro (la Corte) in via successiva, non corrisponda né al disegno costituzionale, né, tanto meno, alla sua realizzazione pratica.
Se indubbia è l’esistenza di alcuni elementi di contatto o di vicinanza tra le due funzioni, altrettanto vero è che molto maggiori e di decisiva importanza sono invece quelli che valgono a distinguerli nettamente.
Accanto al carattere preventivo o successivo infatti la verifica del Presidente della Repubblica è prevista indistintamente, in sede di promulgazione, per tutte le leggi approvate dalle Camere, mentre il controllo della Corte costituzionale opera solo dietro iniziativa dei soggetti legittimati all’accesso e quindi solo per le leggi impugnate; la verifica presidenziale avviene per l’intero testo normativo e con riguardo alla violazione di qualsiasi disposizione costituzionale ed anche per vizi di merito, seppure nel senso del «merito costituzionale», mentre la Corte può svolgere il proprio controllo solo per vizi di legittimità e nel rispetto del principio del chiesto-pronunciato, ossia solo per le norme impugnate e con riferimento ai parametri costituzionali denunciati; la verifica del Capo dello Stato conduce, per il caso in cui sia stata riscontrata l’esistenza di vizi, alla richiesta di riesame da parte delle Camere, mentre il Giudice costituzionale, nelle stesse circostanze, procede alla dichiarazione di incostituzionalità della normativa impugnata, rendendo la stessa inapplicabile dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza sulla Gazzetta ufficiale.
Più in generale, seppure esercitata in posizione di neutralità, l’attività del Capo dello Stato rappresenta una garanzia a carattere essenzialmente politico, a fronte di quella offerta dalla Corte costituzionale, la quale assume invece principalmente i connotati della giurisdizione, come pare derivare già dal fatto che il potere di rinvio per il Presidente rappresenta una facoltà da esercitare discrezionalmente e tenuto conto di tutta una serie di elementi, anche collegati al tipo di provvedimento ed al particolare contesto politico in cui lo stesso è stato approvato, mentre ha Corte, una volta investita di una questione, ha l’obbligo di decidere.
Gli elementi distintivi di cui sopra, a seguito della nuova competenza attribuita alla Corte dalla riforma in esame, permangono praticamente tutti, tranne quello del carattere preventivo ed una attenuazione (ma non eliminazione) del principio del chiesto e pronunciato.
Una incidenza sul controllo presidenziale e della Corte costituzionale, la riforma costituzionale parrebbe però svolgere con riguardo al ricordato fenomeno di un presunto aumento di possibili vizi formali, nonché ovviamente, per alcuni aspetti, a seguito dell’inserimento della nuova competenza a giudicare in via preventiva sulla legge elettorale della Camera e del Senato.
Con riguardo ai vizi formali la riforma, come detto, non ha ritenuto di prevedere un quanto mai opportuno ricorso preventivo delle minoranze parlamentari, sulla falsariga di quello invece previsto per la legge elettorale. I termini assai stretti entro i quali è possibile l’impugnativa e deve intervenire la risposta del Giudice costituzionale, avrebbero potuto tranquillizzare quanti potevano temere un utilizzo del ricorso parlamentare in chiave ostruzionistica.
I vizi formali per loro natura, a differenza di quelli sostanziali, possono risultare maggiormente idonei, per la maggiore facilità di individuazione, ad essere fatti oggetto di un rinvio presidenziale, così come accaduto per i più recenti rinvii relativi a vizi attinenti ad una cattiva tecnica legislativa (R. Romboli, Il rinvio delle leggi, in A. Ruggeri (cur.), Evoluzione del sistema politico-istituzionale e ruolo del Presidente della Repubblica, Torino, 2011, 39 ss.).
Per questo potremmo pensare ad un uso più ampio del potere di rinvio da parte del Capo dello Stato nel caso di rilevati o segnalati vizi del procedimento legislativo, stante appunto la più facile rilevabilità e, almeno in certi casi, la minore “politicità”, come accaduto nella nostra esperienza costituzionale per il rilievo attinente alla mancata copertura finanziaria delle leggi (motivo assolutamente prevalente dei rinvii presidenziali fino ad oggi esercitati).
Per quanto invece concerne la nuova competenza attribuita alla Corte costituzionale, questa – a differenza di quanto può accadere per l’ipotesi di vizi formali, nella quale essa è chiamata ad intervenire dopo il controllo del Capo dello Stato – può essere investita della questione di costituzionalità prima e pertanto la sentenza della Corte verrà a svolgere certamente una incidenza sul potere di controllo del Presidente in sede di promulgazione, senza ovviamente escludere la facoltà di rinvio, ex art. 74 Cost.
Ciò dipenderà in buona sostanza dal tipo di decisione con cui la Corte risolverà la questione di costituzionalità, per cui una pronuncia processuale di inammissibilità lascerà del tutto impregiudicato il potere di rinvio, salvo la possibilità del Capo dello Stato di valutare a tal fine le ragioni poste alla base di ricorso delle minoranze parlamentari.
Nel caso di sentenza di infondatezza, il Presidente potrà rinviare per ragioni ed aspetti diversi rispetto a quelli esaminati dalla Corte, oltre che per vizi di «merito costituzionale», mentre parrebbe da escludere in pratica, anche se certamente non in teoria, la possibilità di un rinvio per le stesse ragioni giudicate infondate dalla Corte, che porrebbe il Capo dello Stato in aperto contrasto con quest’ultima.
Qualora il giudizio preventivo di costituzionalità si concluda invece con una pronuncia di accoglimento, sia esso totale o parziale, la legge torna direttamente alle Camere che l’hanno approvata, non potendo il Presidente, per le ragioni dette, procedere alla promulgazione della parte di legge non colpita dalla incostituzionalità, neppure in caso di accoglimento parziale.
La legge elettorale, eventualmente riapprovata in diversa versione dalle Camere ed eventualmente non impugnata di nuovo davanti alla Corte dalle minoranze parlamentari, sarà trasmessa al Presidente per la promulgazione e, in quella sede, quest’ultimo potrà, tra l’altro, anche verificare se i vizi di incostituzionalità rilevati, durante il controllo preventivo, dalla Corte costituzionale, siano stati eliminati nella nuova legge oppure permangano ancora.