Tra Ottocento e Novecento: dai diritti sul proprio Corpo ai diritti della persona
Il lavoro mira a dare una traccia del processo culturale e giuridico relativo all’emersione al piano normativo dei diritti della persona.
Si è trattato di un procedimento complesso, inerendo alla struttura del diritto soggettivo ed alla sua tutela.
La proprietà privata – paradigma delle libertà nello stato liberale, grazie al suo contenuto politico di concretizzazione del principio di libertà – è divenuta il modello tipico di garanzia dei diritti dell’individuo, iniziando tuttavia a profilarsi quale strumento inadeguato alla tutela di situazioni giuridiche afferenti più propriamente alla dimensione dell’essere che non a quella dell’avere. Inadeguatezza che è gradualmente emersa nella difficoltà di ridurre le situazioni giuridiche della sfera personale a diritti sulla propria persona, sul proprio corpo.
1. La struttura dei diritti della personalità
Il tentativo che ci si propone è quello di dare una traccia dell’emersione al piano normativo dei cd diritti della persona[1]. Si tratta di un procedimento di qualificazione giuridica – circoscrivibile tra il XIX ed il XX secolo – che porta con sé il travaglio culturale, spesso inconscio, della cognizione di quei diritti, ovvero della loro comparsa al grado di coscienza collettiva. Attualmente può ritenersi affiorato l’alto grado di complessità di ogni singolo individuo, la cui dignità è valore costitutivo dell’ordine giuridico. Tuttavia, la continua frizione tra sfera individuale e collettiva che si riscontra in ogni procedimento di acquisizione al piano normativo di situazioni giuridiche più propriamente personali, mostra quanto la complessità del tema sia irriducibile alle classiche modalità di operare qualificazioni giuridiche.
Nello Stato liberale l’individuo era compiutamente divenuto soggetto giuridico, quantomeno su di un piano formale: le acquisizioni generalmente culturali e filosofiche in merito al concetto di persona non potevano non tradursi nell’ambito più propriamente giuridico. L’essere umano era divenuto valore pre-costituzionale ed era un dato dal quale il legislatore non avrebbe potuto prescindere, almeno idealmente.
L’uomo soggetto giuridico viene infatti considerato pienamente capace di autodeterminarsi nella gestione dei propri interessi: la potenzialità di essere destinatario ed attore di effetti giuridici è ormai considerata attributo di qualunque essere umano, tanto che si acquista con la nascita. Ciascuno, infatti, con la nascita acquisisce la capacità giuridica ed è come se l’ordinamento lo riconoscesse; in seguito, verificandosi specifiche circostanze, la capacità giuridica si accresce di quella d’agire, e cioè il soggetto può modificare giuridicamente la realtà nella quale si muove.
Tuttavia, e non casualmente, è proprio in questo momento che subentrano numerose cautele, ovvero rispetto all’azione, che infatti inizia a profilarsi come concetto più radicale di quello che legalisticamente potrebbe apparire. Al soggetto viene riconosciuta giuridicità, ed è come se in questo modo l’ordinamento garantisse il valore uomo; ma quando quella giuridicità deve farsi attiva, è necessario che vi siano di volta in volta specifici presupposti predeterminati: la capacità d’agire non è un logico precipitato di quella giuridica (come se l’agire non lo fosse dell’essere).
L’individuo che agisce lo fa sulla spinta di un interesse ed è così che si manifesta e che entra in contatto con gli altri, traducendo una relazione. È un rapporto che ha in sé una dimensione etica e conflittuale, poiché esprime l’unicità dei soggetti coinvolti, ed è rapporto giuridico. Questo fa si che ogni situazione giuridica – ogni diritto – non si possa circoscrivere al singolo individuo, essendogli organica la dimensione sociale. Ed è un’organicità ontologica, che a fatica si può limitare ad un ambito meramente tecnico: il soggetto giuridicamente capace che è mosso dall’interesse ad agire per il conseguimento di un bene che l’ordinamento ritiene meritevole di tutela, è una rappresentazione la cui portata normativa è indiscutibile, ma della quale facilmente si coglie la portata assoluta, sol che ci si soffermi sui singoli concetti adoperati. È senza dubbio tipico della dimensione artificiosa connessa al fenomeno giuridico, tendere a relegare in quell’ambito la valenza di categorie più propriamente antropologiche, quali senz’altro sono capacità, interesse, azione, che rimandano inevitabilmente al volere, ovvero alla libertà.
Questa ineludibilità dell’intreccio tra dimensione individuale e sociale, ontologicamente presente nell’agire umano, svela tutta la sua complessità nel campo dei diritti della personalità, rispetto ai quali emerge come parlare di bilanciamento di interessi del singolo con quelli della collettività rischi di impoverire la dimensione propriamente primaria del fenomeno giuridico. Le codificazioni ottocentesche non potevano prescindere dall’idea di persona e questo – a meno di non volerne svuotare la sostanza – avrebbe dovuto tradursi nel conferire a ciascun soggetto giuridico la piena capacità di agire, ovvero di autodeterminarsi nel senso più profondo di esprimersi, in particolare attraverso quei diritti traducenti la sua personalità. La capacità d’agire così intesa, però, tarda a farsi effettiva, rimanendo circoscritta alla mera dimensione artificiosa del diritto, come se il mondo giuridico fosse altro dal mondo tout court; ciò che consentiva, al di là di ogni retorica, la dimensione autoritaria della legislazione, tesa ad orientare sensibilmente l’agire del soggetto giuridico, al fine di garantire l’ordine sociale fondato su quegli interessi ai quali effettivamente veniva attribuito valore costituzionale, ovvero famiglia e patrimonio.
2. Forza del modello proprietario
È chiaro che il piano attuativo del diritto è decisivo per dargli contenuto: un diritto pieno è tale perché viene naturalmente esercitato e, quando è leso, viene tutelato attraverso la giurisdizione. Per poter agire in giudizio il soggetto deve avere un interesse ad agire, riconosciuto il quale – attraverso una valutazione pregiudiziale – può tentare di ottenere, con il processo, il conseguimento del bene oggetto del suo diritto. La tutela è classicamente modulata sullo schema proprietario: il rapporto tra soggetto giuridico e bene diviene il paradigma delle libertà nello Stato liberale.
Il punto è che l’evoluzione del concetto di persona non ha solo ampliato a dismisura la sfera dei diritti, ma ne ha fatto emergere una nuova struttura, che difficilmente si ingabbia nell’archetipo dell’avere, attenendo più propriamente a quello dell’essere: sono le modalità molteplici attraverso cui ciascuno può esprimersi agendo, che possono diventare oggetto di tutela giuridica, possono essere cioè diritti. E la questione è tutta nella qualificazione di diritto – e specificamente di diritto soggettivo – che, per essere tale, deve necessariamente correlarsi alla tutela.
È per questo che i diritti della persona sono stati qualificati diritti sulla persona, sul proprio corpo, non potendo prescindere dall’individuazione del bene oggetto di garanzia. «Ma può la persona essere oggetto di un diritto? Ed eccoci così passati ad una delle obiezioni più comunemente addotte contro i diritti sulla propria persona, e cioè che ripugna l’ammettere che la persona possa essere oggetto di un diritto»[2].
Non mancavano, infatti, coloro che sostenevano l’esistenza di diritti sul proprio corpo e generalmente sulla propria persona fino alle conseguenze più estreme, forti di solide argomentazioni logico-deduttive, ben sorrette dal paradigma proprietario[3]. Tuttavia, è proprio su questo piano formale che diviene difficile sostenere la realità della persona, non confacente alla sua dignità, ed è per questo che appare percorribile riguardare alla struttura del diritto soggettivo più che alla sua tutela, acuendo l’elemento della pretesa verso gli altri, ovvero la pretesa giuridica che una persona compia una determinata azione (da intendersi anche in termini di astensione). In questo modo, appare possibile ammettere diritti soggettivi – quali potrebbero essere appunto i diritti della personalità – nei quali la modulazione tra facoltà e pretesa propende per la centralità della pretesa: la tutela è accordata imponendo la generica pretesa di astensione verso tutti ed al contempo è escluso il ricorso al concetto di dominio, inapplicabile ad un rapporto tra esseri umani. Non si escludono elementi di soggezione nei rapporti, ma la signoria alla quale una persona può essere sottoposta non può mai porsi come un factum, ma esclusivamente come un obbligo giuridico.
Tuttavia, se questa impostazione appare congrua a risolvere il problema dei diritti della persona esercitati verso altri, la questione non cessa di complicarsi nel suo aspetto più decisivo, ovvero la qualificazione dei diritti sulla propria persona: «(…) Ora quando siamo ai diritti sulla propria persona che sono, come tutti riconoscono, diritti assoluti, se non si vuole distruggere la dignità della persona che è oggetto del diritto, bisogna imporre a lei giuridicamente l’obbligo della soggezione; e allora abbiamo un diritto della persona verso se stessa, cioè un mostro giuridico (…). Se si vogliono sfuggire queste gravi conseguenze, non c’è che riconoscere che le parti o posizioni della persona che si prendono ad oggetto del diritto sono considerate come cose, e che il diritto sulla propria persona è un diritto reale. (…) Ma quando io abbia ridotto i diritti sulla propria persona a diritti reali, ho con me quasi tutti i moderni sostenitori della teoria, che versan fiumi d’inchiostro gridando allo scandalo».
L’unico modo per evitare lo scandalo della realità è spingere i diritti personali oltre il sistema giuridico, considerandoli non diritti, ma loro presupposti: «questi diritti della personalità sono poi, in fin dei conti, gli antichi diritti innati». (…) «[È necessario] determinare un certo minimum di diritti, se non esistessero più i quali, la persona non sarebbe più riconosciuta come tale. Questo minimum è costituito dai diritti essenziali della persona. (…) Ma quello che è il fondamentale dei diritti essenziali, e che in qualche misura bisogna assolutamente che sia riconosciuto, è il diritto di libertà. La libertà è quella per mezzo di cui si esercitano e si acquistano i diritti: l’uomo a cui sia tolta assolutamente la libertà non è più persona, non è più soggetto di diritto».
Ed è la libertà il punto critico del problema, il dato di fatto dal quale non si può prescindere. La questione della qualificazione dei diritti della personalità, come si vede, involge formae mentis radicate, svelando la reale portata della forza performativa delle costruzioni giuridiche, dovuta anche all’intenso substrato politico sul quale sono fondate. La natura di diritto innato della libertà era un dato storicamente già acquisito e che, sul piano normativo, era stato risolto proprio grazie al riconoscimento della proprietà privata: un individuo che non fosse padrone dei frutti del proprio lavoro non era libero, e perciò la proprietà ha efficacemente riempito di contenuto la libertà[4].
«Se la libertà è proprietà è senza dubbio un diritto. (…) Vale quindi poco affermare che la persona non può essere oggetto di proprietà; ma bisogna invece cercare se contro la riduzione della libertà a proprietà non vi siano degli argomenti più generali e più decisivi».
Questi argomenti sono di natura logico-deduttiva e consistono nel ritenere che nella scienza giuridica, come in ogni scienza, vi siano dei postulati originari e segnatamente «un concetto indipendente dagli altri e che si possa spiegare senza ricorrere a concetti di ordine giuridico», a meno di non voler chiudere l’intera giurisprudenza in un circolo vizioso: «la libertà è dunque questo elemento primo che andavamo cercando».
Si tratta evidentemente di un procedimento formalistico che però, pur nella sua astrazione, svela tutta la complessità del tema, proprio attraverso lo sforzo di qualificare i diritti della personalità oltre lo schema proprietario, pur garantendone al contempo l’assolutezza. Come ogni costruzione formalistica, tuttavia, a contatto con la realtà svela ogni suo punto debole, sol che si rifletta su quanto possa essere vacuo definire essenziale il diritto di libertà (rectius le libertà), senza prevedere adeguati meccanismi di tutela.
3. Socialità dei diritti familiari
Senza dubbio le ricadute più immediate del diritto essenziale di libertà della persona si riscontrano nella famiglia, che ha sempre rappresentato la difficoltà di bilanciare la sfera del singolo con quella dell’istituzione primaria nella quale è inserito, proprio per la forte ambivalenza – in termini di assolutezza e relatività – che caratterizza questi rapporti. Si pensi, infatti, che questi diritti sono stati tradizionalmente interpretati come diritti misti, poiché sintetizzavano situazioni giuridiche contenenti al contempo elementi di natura obbligatoria, quali gli obblighi derivanti ai coniugi dal matrimonio, ed altri indiscutibilmente rapportabili al dominio, come nell’istituto della patria potestà[5].
Storicamente è acquisizione della modernità l’eliminazione della distinzione tra sfera pubblica e privata. Quando questa distinzione era netta e potremmo dire costitutiva della comunità, le questioni personali (rectius i diritti) erano chiuse nello stretto ambito familistico. Tuttavia, la graduale individualizzazione della società, per cui ciascuno è divenuto componente immediato della comunità sociale, non ha fatto perdere alla famiglia il suo contenuto d’istituzione, divenendo l’irrisolto tratto d’unione, o se si vuole il filtro, tra la società e l’individuo, che diventato lui stesso valore, non poteva non proiettarsi autonomamente sul piano sociale[6]. Questa ambivalenza, probabilmente irrisolvibile, è stata colta dal legislatore dello Stato liberale, che l’ha sbrigativamente risolta ritenendo di definire accuratamente i ruoli familiari, basandosi sull’idea che dall’ordine stabilito in quella sede si proiettasse l’ordine sociale, e a tal fine accantonando tutti gli elementi che potessero apparire perturbatori del sistema. E quell’ordine si fondava proprio sulla famiglia, basata sul matrimonio[7].
La filiazione legittima era considerata il supporto della solidità familiare e perciò era l’unica protetta e garantita dall’ordinamento. A tal fine era previsto un sistema normativo che si fondava sul principio per il quale la questione relativa alla legittimità (e all’illegittimità) della prole spettasse esclusivamente al padre, prevedendo a tal fine il divieto d’indagini sulla paternità, con tutti i precipitati connessi, sostanziabili nella circostanza che i diritti personali (rectius essenziali) delle madri e dei figli naturali erano di fatto fuor di tutela, essendo fuori della giuridicità (rectius liceità)[8]. È chiaro che si tratta di una vicenda complessa e dai riscontri molteplici, di cui non si può in questa sede dar conto. Ma ciò che è utile rilevare è la grave limitazione all’azione di alcuni soggetti, alla loro libertà di individui riconosciuti come valore fondativo dell’ordinamento e quindi alla loro potenzialità di esprimersi, imponendo la severa restrizione della sfera giuridica più delicata, ovvero dei loro diritti essenziali. In quel contesto, l’interesse di alcuni dei soggetti coinvolti – madre e figli – era di frequente misconosciuto a vantaggio del valore considerato primario, ovvero la famiglia. È chiaro che storicamente non si ponesse – almeno su di un piano consapevole – il problema del bilanciamento dei differenti diritti in gioco: forte anche di tutto l’humus culturale relativo a donne e bambini, il legislatore aveva disegnato la famiglia frustrando a tal fine i singoli. Questo non certo a vantaggio di un’effettiva armonizzazione sociale, quanto piuttosto della sua salvaguardia formale, se non proprio esteriore.
Tuttavia, proprio la sensibilità crescente nei confronti di donne e bambini non poteva non avere riverberi su di un piano più propriamente giuridico, quanto meno in termini di aspirazione. E questo a riprova di quanto rischino di apparire vuote quelle statuizioni normative che ostinatamente non tengano conto di certe evoluzioni, come se davvero quelle evoluzioni dipendessero dalla legge. Ed infatti, anche nella rassicurante società ottocentesca, il problema della tutela della sfera personale dell’individuo iniziava a porsi come dato di fatto, costituito dalla realtà di madri e figli abbandonati, spesso a seguito di convivenze more uxorio, liquidate al rango del concubinato. Deve dirsi, infatti, che da subito vi furono critiche serie al sistema codicistico, ritenendo di doverlo adeguare alla realtà, quantomeno in relazione alla ricerca della paternità. Ma sicuramente era sul piano giurisdizionale che queste problematiche non potevano essere eluse: il giudice adito per una questione attinente al riconoscimento della prole – poteva trattarsi di disconoscimento, di contestazione dello status, di riconoscimento della maternità o della paternità – si trovava immediatamente a contatto con i fatti, che potevano emergere chiari in corso di causa e che dovevano essere risolti. Il più delle volte la questione veniva affrontata – com’è ovvio – sulla base dello strumentario tecnico a disposizione; e nello schema di tutela approntato dal legislatore – e sedimentato – l’elemento più duttile appariva senza dubbio l’interesse ad agire: la sfera personale del singolo inizia quantomeno ad assurgere al grado di pre-valutazione giuridica attraverso il concetto di interesse, ovvero di uno degli elementi costitutivi dello schema proprietario.
L’interesse ad agire è fattispecie complessa, innanzitutto per la sua mancata qualificazione[9]; ma proprio la sua indefinibilità – già ben espressa dalla polisemanticità del termine “interesse” – lo ha reso uno strumento incredibilmente elastico nelle mani del magistrato. A lui spettava verificare, con una valutazione pregiudiziale, se l’attore (ma anche il convenuto) avesse uno scopo potenzialmente meritevole di tutela per poter azionare la giurisdizione. Cioè, ancor prima di addentrarsi nel procedimento, il giudice doveva verificare se il diritto preteso fosse azionabile, e lo faceva valutando la sua corrispondenza a quei valori che a priori erano stati considerati giuridici. Ancor più si coglie la decisività della valutazione se si riflette sulla circostanza che potesse trattarsi anche di un interesse morale, come spesso accadeva in tema di diritti della sfera familiare. Il giudice poteva negare l’accesso a quell’interesse oppure ammetterlo, proprio grazie alla duttilità dei concetti in questione.
E di fatto è proprio la fattispecie dell’interesse ad esser stata decisiva a favorire l’emersione dei diritti della sfera personale degli individui, proponendo interpretazioni che gradualmente lo svincolassero dal bene giuridico tradizionalmente oggetto di tutela.
Chiaramente questo è avvenuto secondo l’occasionalità del giudizio e quindi in maniera discontinua e graduale, ma proprio nel campo dei diritti familiari si faticava a non riconoscere gli interessi personali e morali dei soggetti coinvolti, sebbene non sempre questo riconoscimento comportava un accoglimento della domanda[10].
L’interesse ad agire, nella sua duplice facoltà di evocare interesse ed azione, ovvero categorie antropologiche, è divenuto lo strumento per accogliere gradualmente nel sistema giuridico fattispecie che altrimenti non sarebbero state ammissibili sul piano dell’intrinseca logicità formale del sistema. Al di là dei fini perseguiti nei singoli processi, è certo che la graduale ammissione di un interesse semplicemente morale per poter agire in giudizio ha tradotto l’insofferenza per il modello proprietario quale schema unico di tutela, che non poteva più rispondere alle esigenze di una società che andava facendosi complessa, poiché aveva al centro l’essere umano, con tutto il corredo culturale di cui si era arricchito.
L’effettività del valore riconosciuto dall’ordinamento alla complessità della personalità umana può senz’altro misurarsi con il costante aumento di tutela di quei diritti attraverso cui si esprime l’unicità di ogni individuo.
Si è fatto riferimento al tenore ideologico del diritto proprietario, quale effettivo contenuto di libertà[11]; questa idea, però, ha finito per sclerotizzare la libertà nel dominio, e sono note le critiche socialiste rispetto ad una costruzione politica che tenesse volutamente ai margini i soggetti più deboli. In realtà, e quasi per paradosso, era il soggetto tout court ad essere tenuto ai margini: lo schema funzionava solo se un suo elemento era dato per inamovibile, ovvero il soggetto giuridico, cioè di quanto meno inamovibile vi sia. Il modello proprietario frustrava ormai l’intrinseca socialità (ovvero giuridicità) umana. In effetti, è proprio la dimensione strutturalmente relazionale del fenomeno giuridico che diviene ineludibile riguardo ai diritti della personalità, le cui sfumature possono cogliersi sforzandosi di non impoverirli ad una presunta sfera di libertà individuale, ma anzi valutandoli nel contesto comunitario nel quale si producono. La dimensione propriamente relazionale – etica – di ogni diritto, è insuperabile soprattutto per quelle manifestazioni che vengono perentoriamente invocate quali espressioni della libertà di ognuno: i diritti personali non accrescono il singolo individuo, come isolandolo, ma anzi, rendendolo pienamente evidente, lo pongono all’istante in contatto con il mondo.
Si tratta di una complessità – ancora oggi, in un quadro radicalmente mutato – irriducibile alla richiesta di tutela di un qualsiasi diritto della propria personalità ed irriducibile alla negazione di tutela in nome di una presunta precostituita società. È proprio la famiglia, ancora, a svelare questa ambivalenza: si discute di diritto ad essere madre, ad essere padre; di diritto a venire al mondo in condizioni ottimali, di diritto ad avere una famiglia, e così via. Ma nessuno di questi diritti può seriamente essere invocato a salvaguardia della propria personalità, se non è al contempo invocato a tutela della comunità che continuamente si costruisce. Un dibattito serio – nelle sue componenti dinamiche di legislazione giurisprudenza e dottrina – non può prescindere dal tenere in considerazione i dati di fatto emergenti e la necessità di prenderne atto con scopi armonizzanti e di distensione delle conflittualità.
[1] Si utilizza l’espressione “diritti della persona” nel suo senso più ampio, prescindendo dall’adesione a qualcuna delle differenti posizioni che si sono registrate sul tema. «Nello sviluppo del pensiero giuridico, le teorie che sino ad oggi si sono disputate il campo per dare una definizione al problema della tutela della persona si possono in definitiva far rientrare in due gruppi, apparentemente contrapposti: la persona (…) come risultante di tutta una serie di diritti espressamente riconosciuti dal legislatore a tutela di interessi connaturati alla persona stessa, ma specificamente individuati; o invece come espressione dell’azione di tutto l’insieme delle leggi positive che hanno come scopo la conservazione e lo sviluppo del soggetto, da una parte, e delle intrinseche potenzialità della persona emergenti nell’ordinamento, dall’altra». Cfr. D. Messinetti, Personalità (diritti della), in Enciclopedia del Diritto, XXXIII, Giuffrè, Milano, 1983, p. 356.
[2] Cfr. A. Ravà, I diritti sulla propria persona (nella scienza e nella filosofia del diritto), in Rivista Italiana per le Scienze Giuridiche, XXXI, Torino, 1901, p. 36. Il saggio si svolge su di un piano eminentemente formale e proprio sotto questo profilo appare particolarmente espressivo delle difficoltà connesse alla normativizzazione dei diritti della persona. Le citazioni di seguito nel testo provengono da questa stessa fonte.
[3] Valga come esempio la posizione del Ferri, che giungeva a riconoscere un diritto al suicidio. Cfr. A. Ravà, op. cit., pp. 35-36.
[4] Può semplificarsi evocando generalmente la centralità dell’istituto proprietario nel processo di codificazione moderna del diritto civile, per il quale si rinvia al mio La politicità dell’interpretazione alle origini del positivismo giuridico. Esperienze di diritto vivente nel Codice Napoleone, in Rivista di Storia del Diritto italiano, vol. LXXXV, anno LXXXV (2012).
«Il diritto dei coniugi è nello stesso tempo un diritto sul coniuge e verso il coniuge; tanto è vero che per esempio, per l’obbligo della coabitazione, in caso di fuga della moglie, noi troviamo nei vari diritti la possibilità da un lato di obbligare la moglie a ritornare, dall’altro di procedere contro chi la detenga; appunto perché al diritto del marito corrisponde in quanto è diritto verso la moglie, il dovere giuridico di questa, in quanto è diritto sulla moglie, il dovere di tutti i terzi a rispettare quel rapporto. La patria potestà si presenta più come diritto sul figli che verso il figlio, ma pur partecipa di ambedue i caratteri». V. A. Ravà, op. cit., p. 43.
[6] «La contraddizione tra privato e pubblico, tipica degli stadi iniziali dell’età moderna, è stata un fenomeno temporaneo che cedette ad una totale estinzione della differenza tra sfera pubblica e privata, e all’assorbimento di entrambe in quella sociale». V. H. Arendt, Vita Activa. La condizione umana, Bompiani, Milano, ed. 2011, p. 50.
[7] Il riferimento normativo è rappresentato dal primo codice civile dell’Italia unita, quello del 1865.
[8] L’elemento perturbatore del sistema familiare era senza dubbio costituito dal mistero che avvolgeva la paternità: di fatto, anche la filiazione legittima si fondava su di una presunzione, per la quale il figlio concepito in costanza di matrimonio era ritenuto legittimo, e solo il padre poteva eventualmente disconoscerlo. La dichiarazione della madre in merito alla paternità della propria prole, anche quando fosse supportata da prove ulteriori, non aveva alcun valore. Per un quadro sulla famiglia legittima del codice civile unitario, segnatamente in merito alla filiazione, si rinvia a A.,Cicu, La Filiazione, Unione tipografico-editrice, Torino, 1939.
[9] Il codice di procedura civile del 1865 prevedeva all’art. 36 che per poter agire in giudizio fosse necessario avervi interesse. La norma ha originato il ricco dibattito sul concetto d’azione, che ha caratterizzato la processualcivilistica novecentesca, e non solo. Cfr. R. Orestano-S. Satta, Azione in generale, in Enciclopedia del Diritto, IV, Giuffrè, Milano, 1954.
[10] Il divieto d’indagini sulla paternità era temperato solo nei casi di ratto e stupro violento (art. 189 cc). Sul piano applicativo – del quale non può fornirsi neppure un breve excursus – il sistema codicistico subiva una serie di temperamenti, pur avvertendosi il peso del rigore del divieto. Ai fini di questo lavoro appare interessante come, in tema di diritti familiari, il giudice non potesse evitare di negare la personalità e la moralità dei diritti coinvolti, segnatamente del diritto di ricercare il proprio padre, anche se poi, nei casi specifici ed utilizzando prettamente argomentazioni formali, questo non si traduceva nell’ammissibilità dell’azione di riconoscimento. Si veda a mero scopo dimostrativo la sentenza della Corte d’appello di Roma, datata 2 maggio 1908, riportata in Giurisprudenza Italiana, LX (1908), Torino, pp. 592-596. Il caso atteneva ad una richiesta di risarcimento dei danni della signora Beretta nei confronti del signor Lupidi, perché sedotta con promessa di matrimonio ed in seguito abbandonata, insieme con il figlio nato da quell’unione e non riconosciuto dal padre. La Corte dichiara personali e morali i diritti coinvolti e, pur svolgendo un’indagine indiretta di accertamento della paternità, riconosce soltanto il risarcimento del danno, conformemente alla giurisprudenza dell’epoca.
[11] La vitalità del modello proprietario, in particolare nella duplice valenza di evocare libertà ed economicità, si coglie senz’altro nella sua applicazione più rivoluzionaria, ovvero nella disponibilità di ciascun individuo della propria forza lavoro. Cfr. Proprietà e comunismo, in K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi, Torino (ed. 2004).