In nome del popolo sovrano?
Introduzione a “Verso il referendum costituzionale”
Le ragioni e le modalità di un obiettivo interamente dedicato alle riforme costituzionali, tra necessità di approfondimento scientifico del tessuto normativo e volontà di interrogarsi sulle forme e i possibili cambiamenti della democrazia.
Correva l’anno 2006 e, alla vigilia del secondo referendum costituzionale della storia repubblicana, Franco Ippolito, nell’introdurre il volume Salviamo la Costituzione, scriveva che «con il referendum la parola passa ai cittadini» e che in gioco era, insieme alla Costituzione del 1947, «l’idea stessa di costituzionalismo, come insieme di principi e di regole generali per limitare il potere». L’appuntamento elettorale si sarebbe svolto il 25 e il 26 giugno del 2006 e quella pubblicazione voleva costituire «uno strumento democratico per partecipare attivamente alla lotta culturale, politica e civile per mobilitare il Paese nella difesa Costituzione»[1]. Gli esiti della consultazione sono noti a tutti: 15.783.269 cittadini, pari al 61,29% dei votanti, scelsero di opporsi alla “Costituzione di Lorenzago”, il progetto di riforma della parte II della Carta perseguito dall’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi.
A distanza di dieci anni esatti, ci troviamo di nuovo nell’imminenza di un referendum costituzionale, con il quale verrà chiesto al popolo italiano di rifiutare o approvare un’altra riforma globale della parte II: quella coagulata nel testo di legge Renzi/Boschi, approvato in via definitiva dalla Camera il 12 aprile 2016 a maggioranza assoluta, ma inferiore ai due terzi.
Non inganni la brevità, in prospettiva storica, dell’intervallo temporale. Quei dieci anni esatti sono stati percorsi dalla più grave crisi economico-sociale dopo quella del ’29 e hanno lasciato sul tappeto – lo annota Livio Pepino nella sua analisi politica della riforma – un «impoverimento diffuso, la crescita delle differenze economiche, il tramonto dell’idea stessa di piena occupazione, l’abbattimento del welfare, la sostituzione dello Stato sociale con lo Stato penale, la subordinazione della politica all’economia e ai poteri forti interni e internazionali».
A livello di fenomenologia istituzionale, inoltre, si è assistito a un capovolgimento dei rapporti di forza tra gli schieramenti parlamentari e al definitivo ingresso nell’agone politico di una nuova soggettività, il Movimento 5 Stelle. Dal bipolarismo più o meno coatto si è così passati a un sempre più saldo assetto tripolare, ma il rilievo della rappresentanza politica si è gravemente appannato in ragione della crisi della partecipazione democratica, platealmente testimoniata da un astensionismo che arriva a coinvolgere quasi metà dell’elettorato. La lotta politica, al contempo, si è personalizzata e risolta (ridotta) in contesa della premiership da parte dei “capi”, mentrei partiti hanno smarrito gran parte della loro funzione storica di incorporazione delle masse e l’Esecutivo (meglio: il vertice dell’Esecutivo) si è intestato una posizione di supremazia a scapito del Parlamento.
In questo scenario ha ripreso vigore l’ “ansia di riforma” della Costituzione e, all’esito di un iter parlamentare serrato nei tempi e blindato nel dibattito dalla maggioranza di Governo, è stato approvato il disegno di legge noto come «Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi del funzionamento delle istituzioni, la soppressione del Cnel e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione».
Come noto, in Parlamento non è stata raggiunta la maggioranza dei 2/3 prevista dall’art. 138 della Costituzione e, con le scansioni che ci illustra Massimo Villone, il testo di legge sarà sottoposto a referendum popolare.
In autunno, dunque, la parola passerà una volta ancora ai cittadini, al popolo sovrano. È allora doveroso interrogarsi su contenuti, obiettivi e metodo della riforma.
C’è ancora bisogno di una mobilitazione civile in difesa della Costituzione e del suo programma di emancipazione o le necessità dei “tempi postmoderni” rendono invece inevitabile, se non auspicabile, questo passaggio di presunta modernizzazione? Più a fondo, quale idea di democrazia è sottesa al nuovo edificio istituzionale della Repubblica? E ancora: chi si oppone a queste trasformazioni ha dalla sua, per dirla con Barthes, soltanto il linguaggio tautologico della fascinazione nei confronti della Costituzione più bella del mondo o può contare su proposte alternative da opporre al mantra del preteso valore salvifico di ogni cambiamento, quali che siano il contenuto e il verso dello stesso?
L’approfondimento che presentiamo su questa Rivista rappresenta il tentativo di rispondere a tali domande e, se possibile, di suscitarne di nuove. Abbiamo provato a tenere insieme gli argomenti giuridici e le visioni politiche, a legare l’esegesi dei testi con la riflessione critica sui modelli di sovranità presupposti dalle scelte normative.
Le preziose summe delle ragioni del Sì e di quelle del No, affidate rispettivamente a Luciano Violante e Valerio Onida, consentono ai lettori di farsi un quadro immediato e completo delle diverse opzioni politico-culturali che si contendono il campo.
Allo stesso tempo, tuttavia, mettiamo a fuoco un giudizio limpido. A tal proposito, piace citare il primo editoriale di Quale giustizia:«crediamo nel confronto delle idee, ma ne paventiamo la confusione»[2]. I contributi offerti alla lettura, pertanto, non cedono mai alla presunzione della “verità in tasca”, ma evidenziano con nettezza le criticità palesate da queste riforme, a partire dal carattere potenzialmente autocratico che infondono alla democrazia repubblicana e del movimento verso l’alto che imprimono alla sede della sovranità.
Si scorgerà, anche, il senso profondo dei motivi che hanno indotto il gruppo dei giudici che si riconosce in Magistratura democratica ad aderire alla campagna referendaria per il No. Su un argomento, infatti, ci sentiamo di esprimere una certezza: la riforma in questione deve interessare da vicino i magistrati e non può ritenersi neutrale rispetto ai progetti che essi, soprattutto come associati, coltivano per l’organizzazione e l’esercizio della giurisdizione; tanto più quando quei magistrati, nel loro lavoro quotidiano e nei loro provvedimenti, intendono avvicinare l’orizzonte inclusivo della Carta.
È proprio l’ultima considerazione sopra svolta a dare l’abbrivio all’obiettivo. L’intervento di Giovanni Zaccaro espone e rivendica le ragioni della legittimità dell’intervento di Magistratura democratica nel dibattito pubblico precursore del voto referendario. Le recenti polemiche sulle dichiarazioni di esponenti del gruppo, nonché sull’adesione stessa al Comitato per il NO, costituiscono così l’occasione per ragionare sul diritto di partecipazione politica dei magistrati e per ridare cittadinanza a esiti culturali che consideravamo acquisiti. In particolar modo, per vedere riaffermata un’interpretazione autentica del principio di imparzialità del giudice, da intendersi non come indifferenza ai valori e neutralità di pensiero, ma come equidistanza dalle parti in causa e dagli interessi coinvolti in un singolo procedimento.
L’approfondimento, quindi, continua con le già ricordate sintesi delle ragioni del Sì e del No, interpretate da voci autorevoli quali quelle di Luciano Violante e Valerio Onida. A seguire, poi, insieme a un inquadramento sistematico e politico di Livio Pepino, si collocano i brani monografici dedicati agli snodi fondamentali delle riforme e ai contenuti specifici di queste ultime.
Usiamo il plurale riforme non a caso. Il progetto di revisione costituzionale, infatti, deve obbligatoriamente essere letto in combinato disposto con la legge elettorale 52/2015, meglio nota come Italicum. È proprio l’“incrocio pericoloso”[3] tra queste due riforme a rendere tangibile il rischio di una verticalizzazione della democrazia. Lo si legge con chiarezza nelle riflessioni su «Governo forte e Costituzione debole» di Massimo Villone, in quelle sulle criticità costituzionali della legge elettorale di Gaetano Azzariti e nei ragionamenti di Gianni Ferrara in ordine alla compressione della rappresentanza politica e all’incidenza delle riforme sulla forma di governo parlamentare.
Gli altri tratti salienti del disegno di legge di revisione costituzionale vengono poi scandagliati a fondo: così, mentre le argomentate valutazioni di Marco Bignami involgono le prospettive di modifica del titolo V della II parte, il testo di Ugo De Siervo si occupa dei nuovi procedimenti legislativi e quello di Simone Pajno dell’opportunità mancata con la riforma del Senato. Non viene tralasciata, inoltre, una prospettiva di diritto comparato europeo, affidata a Barbara Guastaferro.
Due articoli, a cura di Francesco Rimoli e Silvia Niccolai, mettono al centro dell’attenzione le ricadute del nuovo assetto istituzionale sugli organi di garanzia costituzionale e, più in generale, su quello che nel linguaggio scientifico e dei media prende il nome di sistema di checks and balances. Nella stessa sfera di ragionamenti si muove anche il contributo di Roberto Romboli, che si interroga sul pericolo di una riforma potenzialmente maieutica dell’anima “politica” della Corte costituzionale.
Si tratta di un passaggio particolarmente delicato e controverso delle riforme e, come magistrati che aspirano alla tutela costituzionale dei diritti, abbiamo il dovere di metterne in risalto tutto l’azzardo. Il forte premio di maggioranza attribuito alla Camera alla lista vincente, l’annullamento della rappresentanza politica del Senato in favore di un’ambigua ed effimera rappresentanza delle istituzioni territoriali, la prevedibile remissività di tale ramo nel Parlamento ai desiderata del premier, la ripartizione dell’elezione dei giudici della Consulta – a Costituzione vigente attribuita al Parlamento in seduta comune – tra Camera e Senato (nel rapporto di 3 a 2) sono tutti fattori che rischiano di avvicinare le istituzioni di garanzia alla maggioranza di Governo. La soglia del pericolo è ulteriormente abbassata, in una sorta di moltiplicatore keynesiano applicato al diritto, dalle modalità di elezione del presidente della Repubblica (con il suo “patrimonio” cinque giudici della Corte costituzionale) – dal settimo scrutinio in poi eleggibile con la maggioranza dei 3/5, ma dei votanti! – e dalla possibile riconducibilità alla maggioranza di governo anche dei componenti laici del Consiglio superiore della magistratura (elezione le cui tappe, in termini di quorum, sono peraltro sancite da una legge ordinaria, la cui modificazione finisce, con leggi ipermaggioritarie, nella disponibilità del Governo).
A fronte di queste distorsioni non appare rassicurante sedersi sulla mera logica dei numeri, in politica mai ferrea. Basti una considerazione: la fluidità intergruppo dell’attuale legislatura, la XVII, è la più alta che si sia mai registrata dalla XIII, dal momento che, a maggio 2016, circa il 26% del Parlamento aveva cambiato gruppo di appartenenza[4]. Molto più che le appartenenze ideologiche e programmatiche, infatti, hanno finito col «contare le occasionali e volatili convenienze individuali dei singoli deputati o senatori, impegnati in una girandola di microaggregazioni che trovano nell’Esecutivo – e nella sopravvivenza della legislatura – una pragmatica calamita»[5]. Uno stato dell’arte, questo, con ogni probabilità destinato a modificarsi in senso ulteriormente peggiorativo, posto che, come molti dei brani proposti mettono in rilievo, le riforme costituzionali ed elettorali finiscono per consolidare l’esistente. Occorre chiedersi con serietà, allora, se nel tessuto di queste riforme non si debba leggere la filigrana di una concentrazione di potere tale da rendere più difficile la garanzia e la tutela costituzionale dei diritti.
In quest’ottica, l’approfondita analisi di Silvia Niccolai sul giudizio preventivo di legittimità costituzionale segnala ulteriori possibili mutamenti genetici della Corte costituzionale, il cui ruolo potrebbe essere snaturato e strumentalizzato da maggioranze politiche che intendano avvalersi di “certificazioni” della legittimità, se non dell’opportunità, degli orientamenti legislativi.
Un’altra considerazione merita di essere svolta. I lettori noteranno immediatamente che molti autori, nell’elaborare il giudizio su queste riforme, pongono, accanto a questioni di merito e contenuto, questioni di metodo. In particolare, l’attenzione è concentrata sulla condotta del Governo e della maggioranza parlamentare, che hanno monopolizzato il procedimento di revisione costituzionale e hanno impropriamente colorato in senso plebiscitario il referendum, nella persuasione che modificazioni delle regole della Carta e operazioni di ingegneria elettorale possano trascinare con sé un reale miglioramento della politica e della società. Si tratta di un vecchio e resistente convincimento, sul quale vale la pena di interrogarsi.
Nell’introduzione del proprio volume dedicato alla Costituzione, Elvio Fassone illustrava magistralmente che la nostra Carta, entrata in vigore il 1° gennaio 1948, ha vissuto per più di venti anni nell’attesa che venissero realizzati gli organismi istituzionali previsti, tra i quali la Corte costituzionale, il Consiglio superiore della magistratura, le Regioni. La data della definitiva messa in opera delle istituzioni repubblicane coincise, infatti, con l’attuazione delle Regioni nel 1970.
Già nei primi anni Ottanta, tuttavia, iniziò a montare il vento delle riforme, poiché i lavori della prima commissione di riforma costituzionale (la commissione Bozzi) presero avvio nel 1983. Di lì in poi i tentavi di ogni maggioranza di rimodellare la Costituzione, per adattarla alle contingenti ragioni dell’attualità politica, hanno scandito ciclicamente la vita parlamentare: commissione De Mita–Jotti nel 1992, Comitato Speroni nel 1994, Bicamerale D’Alema nel 1997, riforma del Titolo V della parte II nel 2001, progetto di riforma nel 2005 (bocciato dal referendum del 2006), bozza Violante nel 2007, cronoprogramma Letta nel 2013; adesso, le riforme Renzi-Boschi.
Nella sostanza, come annota Fassone, «di una Costituzione in buona salute, liberata da attese di attuazione e immune da ansie di cambiamento, abbiamo goduto per poco più di un decennio»[6]. Un decennio, come scriveva l’autore di Una Costituzione amica – e come ci ricorda anche Livio Pepino nel suo articolo – che è stato «il più fecondo di riforme dell’intera storia repubblicana»: statuto dei lavoratori e processo del lavoro, riforma della carcerazione preventiva e ordinamento penitenziario, divorzio, aborto e riforma del diritto di famiglia, sistema sanitario nazionale e leggi di tutela della maternità e molto altro ancora.
A che fine questo esercizio di memoria storica?
Un insegnamento, probabilmente si può trarre ed è lì a far presente che nella capacità espansiva della Costituzione si possono ancora trovare con profitto le risposte e «le terapie per una democrazia in affanno»[7]. È un monito che non va certo nella direzione della nostalgia e dell’inerzia, ma che, semmai, richiede riforme diverse, che rendano più efficace la rappresentanza ed estesa la partecipazione, ripensino la governabilità tenendo conto del “per cosa” debba essere esercitata[8], restituiscano ai cittadini la loro voce fatta di diritti sociali e politici. Cambiamenti che sappiano coniugare stabilità e partecipazione, istanze di governo ed esigenze di rappresentatività. Il panorama europeo offre modelli in questo senso e lo stesso Violante lo ricorda.
Sono riforme possibili, a patto di considerare la Costituzione, come continuava a ribadire Calamandrei, come preludio di una rivoluzione legalitaria ancora da compiere e di recuperare quello “sguardo presbite” che dovrebbe impedire di pensare alla Carta come a un vestito che le contingenti maggioranze politiche possono cucirsi addosso.
[1] D. Gallo, F. Ippolito (a cura di), Salviamo la Costituzione, Chimienti, Taranto 2005, p. 11.
[2] “Quale giustizia?” in Quale giustizia, I, 1970.
[3] In questi termini, L. Carlassare, Incrocio pericoloso, in La Costituzione bene comune, Ediesse, Roma, 2016, p. 49.
[4] Riferimenti precisi si trovano nel dossier Giro di valzer 2016 – Quanto deputati e senatori cambiano gruppo, partito e schieramento, reperibile su www.openpolis.it.
[5] M. Calise, La democrazia del leader, Laterza, Bari 2016.
[6] E. Fassone, Una Costituzione amica, Garzanti, Milano 2012, p. III.
[7] S. Petrucciani, Democrazia, Einaudi, Torino 2014, p. 223.
[8] La critica alla pretesa neutralità del concetto di governabilità è acutamente svolta da S. Rodotà in Contro l’apatia e il disincanto, in La Costituzione bene comune, ivi, p. 70.