Editoriale
La ruota della storia gira veloce, ma forse di ruote ve n’è più d’una e non tutte girano alla medesima velocità. C’è un tempo storico che si snoda attraverso la serie degli eventi politici – le guerre, i trattati, il succedersi delle forme di governo – di cui gli uomini hanno appreso a registrare accuratamente il succedersi sin da quando hanno avuto coscienza di sé e del proprio vivere sociale. C’è un tempo che si esprime nello sviluppo delle tecniche e che modifica progressivamente gli strumenti materiali del vivere ed i modi stessi di vita dell’intera umanità (anche se non dappertutto contemporaneamente né con la stessa intensità). E c’è un tempo di evoluzione delle mentalità, dei costumi, del sentire morale e sociale, di cui sono le forme di espressione artistica quelle che riescono talvolta a cogliere per prime e meglio la manifestazione. Insomma, come già sul finire degli anni venti del secolo scorso avevano messo bene in luce gli storici francesi della celebre Scuola degli Annali fondata da Marc Bloch e Lucièn Fevbre, la storia politica, che è essenzialmente évènementielle¸ non sempre coincide con la storia delle mentalità, che si misura sulla longue durée.
Anche il filo del diritto si dipana nello scorrere del tempo e, se può ben dirsi (accantonata ogni suggestione giusnaturalistica) che in esso si esprime anzitutto la volontà politica di chi esercita la sovranità in un determinato ambito territoriale ed in una determinata epoca, è indubbio che vi si rispecchi anche il sentire morale e sociale di una comunità, e perciò la mentalità da cui quella comunità è permeata. Uno dei punti in cui più significativamente s’incontrano questi due piani è sicuramente la Costituzione: atto giuridico non solo fondativo – ed appunto perciò costitutivo – della forma dello Stato e delle istituzioni che in esso operano ed attraverso cui esso opera, ma anche ricognitivo delle ragioni stesse di un aggregato umano che non potrebbe esistere se i suoi partecipanti non avessero coscienza di un nucleo di principi etici e sociali che li accomunano.
Perciò non può certo sorprendere che anche le costituzioni si modifichino, ed è stata felice la scelta del nostro costituente di prevedere un modello di carta costituzionale, definito semirigido, che contempla possibilità di cambiamento del testo (fatti salvi i principi fondamentali) ma ne disciplina le modalità per far sì che ogni modifica avvenga all’esito di una riflessione che dovrebbe risultare particolarmente approfondita (donde la duplice votazione in ciascuno dei rami del Parlamento) e che, ove non condivisa da una maggioranza qualificata di parlamentari, comporta la possibile investitura diretta del corpo elettorale mediante referendum. Nella pur ancor (relativamente) breve storia della nostra Repubblica ne abbiamo avuto già ripetuti esempi, e quindi le modifiche da ultimo apportate dal Parlamento al testo costituzionale ed il relativo annunciato referendum popolare potrebbero apparire null’altro che uno dei tanti passaggi fisiologici dell’evoluzione costituzionale. Invece non è così, ed il prossimo confronto referendario ha in palio una posta assai elevata perché la dimensione delle modifiche costituzionali di cui questa volta si discute è senza precedenti: non si tratta soltanto di ritocchi, ma di una serie di modifiche assai rilevanti, destinate ad incidere fortemente sui connotati di alcune tra le principali istituzioni repubblicane, a cominciare dallo stesso Parlamento. È vero che non ne è direttamente interessata la prima parte del testo costituzionale, in cui sono espressi i principi fondamentali, ma l’effettiva attuazione di molti di quei principi passa ovviamente attraverso i meccanismi istituzionali disegnati negli articoli seguenti della Carta, o comunque li coinvolge, ed è innegabile che la conformazione degli organi costituzionali e la disciplina dei loro reciproci rapporti – basti pensare al rapporto tra potere legislativo ed esecutivo – formino anch’essi parte essenziale del disegno costituzionale.
Non per questo, evidentemente, non cioè per la sola ampiezza e rilevanza del prefigurato cambiamento sarebbe giustificato opporre un pregiudiziale rifiuto alla riforma costituzionale. Basta considerare che la Costituzione italiana, figlia dell’antifascismo e della resistenza, si conforma ad un’idea di democrazia che presuppone la centralità del ruolo dei partiti politici (la cui dialettica era stata soppressa dal fascismo), ed è sotto gli occhi di tutti la crisi profonda in cui i partiti sono caduti oggi: un po’ per l’attenuarsi della tensione morale ed ideale che ne aveva accompagnato la ricostituzione postbellica, un po’ per il sopravvenire di nuove tecnologie di comunicazione che sembrano inesorabilmente spingere verso un superamento delle tradizionali forme di partecipazione politica attraverso cui, a partire dalla rivoluzione francese, prima alcuni circoli elitari e poi man mano le masse hanno cercato di far sentire la loro voce nella storia. Non vi sarebbe certo quindi da scandalizzarsi alla sola idea di ripensare alcuni aspetti dell’architettura costituzionale, quantunque essa continui a rappresentare un modello di straordinario equilibrio. Ma un dibattito approfondito ed attento ci vuole: un dibattito in cui ci si misuri con vero spirito di laicità (se posso dir così) con i non piccoli nodi problematici che dal nuovo testo costituzionale elaborato dal Parlamento emergono (anche in combinazione sistematica con la novellata legge elettorale) e tra questi, prima fra tutti, la chiara scelta di privilegiare l’esigenza di rapidità ed efficienza della decisione rispetto alla preoccupazione, assai fortemente avvertita dai Costituenti del 1948, di approntare meccanismi di garanzia e bilanciamento dei poteri in grado di evitarne straripamenti e prevaricazioni.
Ci è parso perciò doveroso che a questo dibattito di idee, su un tema così fondamentale per l’assetto giuridico e per l’equilibrio sociale del Paese, anche Questione giustizia partecipasse innanzitutto con due autorevoli interventi volti ad evidenziare in sintesi le principali ragioni favorevoli e contrarie alla riforma e, quindi, con una serie di scritti destinati a mettere in luce i diversi profili critici che nella medesima riforma sono implicati. La lucida introduzione di Riccardo De Vito mi esime da ulteriori considerazioni in proposito. Vorrei solo aggiungere che proprio perché, come prima accennavo, i mutamenti costituzionali sono sì, necessariamente, il frutto di scelte e di lotte politiche ma devono anche saper rispecchiare l’evolversi di un comune sentire, sapendo coniugare la storia politica (la “politique politicienne”) con quella del costume sociale e delle mentalità, che talvolta hanno un passo diverso, sarebbe quanto mai indispensabile che il dibattito oggi in corso in Italia sul tema della riforma costituzionale si elevasse al di sopra delle contingenti ragioni che animano il conflitto politico del momento. Occorrerebbe che davvero quel dibattito si concentrasse sulle istanze di fondo e sulle prospettive di lungo periodo che una simile riforma schiude: che sapesse insomma misurarsi con i tempi della storia più che della politica minuta. L’avere invece pubblicamente enunciato che dall’esito del referendum costituzionale dipenderà la sopravvivenza politica dell’attuale Governo, oltre ad apparire un azzardo politico, rischia di inquinare il significato profondo di un atto di alta democrazia, quale è il referendum, confondendo i piani e stimolando motivazioni di voto che dovrebbero rispondere invece a criteri di scelta ben diversi ed assai più meditati. Il referendum è uno strumento delicato e difficile al tempo stesso: è delicato perché richiede grande chiarezza nel sollecitare i cittadini ad esprimersi su questioni fondamentali che li riguardano, senza banalizzazioni e personalizzazioni improprie; ed è difficile perché, specie quando investe temi oggettivamente assai complessi, quali son quelli attinenti all’architettura costituzionale dello Stato, presuppone un livello d’informazione e di riflessione elevato, e dunque uno sforzo di onestà intellettuale per far comprendere a tutti argomenti dei quali, di regola, si occupa soltanto una più o meno limitata cerchia di addetti ai lavori. Ma questo è uno sforzo indispensabile, come lo è il far comprendere per quanto possibile i pregi ed i difetti della scrittura di un testo normativo che, al di là degli enunciati di principio più o meno propagandistici, sarà poi destinato a vivere nella sua concreta formulazione. Sarei perciò d’accordo solo fino ad un certo punto con l’autorevole storico Paolo Pombeni quando, nell’ultima pagina di un suo recentissimo bel libro sulla storia della Costituzione (La questione costituzionale in Italia, edito quest’anno da Il Mulino), nel deprecare il «costituzionalismo ansiogeno» di quanti prevedono che la riforma costituzionale provocherà disastri, osserva che «se quel testo sarà capace di portare frutti positivi dipenderà dalla qualità del Paese e non dalla maggiore o minore perfezione delle norme che sono state scritte». Che le norme – costituzionali e non – camminino sulle gambe degli uomini e che per dare buoni frutti debbano esser bene applicate è fuori discussione, ma l’esperienza quotidiana di tutti coloro che operano sul terreno del diritto insegna quanti danni produce nella concreta realtà applicativa la cattiva formulazione di un testo normativo. Mi rendo conto che questi possono apparire tecnicismi di scarso peso in vista di una competizione referendaria, ma nondimeno credo valga la pena di discuterne, e perciò anche di questi aspetti ci si occupa nelle pagine che seguono.
Il secondo argomento che anima questo numero – il corpo ed i diritti – è introdotto da alcune belle pagine di Stefano Celentano alle quali nulla vi sarebbe da aggiungere. Vorrei solo sottolineare come anche a questo proposito si manifesti una forte discrasia tra l’evolversi nel tempo dell’ordinamento giuridico ed il passo della storia: sia quanto al progresso scientifico e tecnico, che qui forse ancor più che altrove ha avuto un’accelerazione impressionante negli ultimi decenni, sia quanto al mutamento delle mentalità e dei costumi, anche quotidiani, che inevitabilmente ne è seguito.
Né potrebbe essere altrimenti giacché il tema del Corpo coinvolge davvero una grande pluralità di piani diversi e tocca aspetti centrali della nostra esperienza esistenziale. Il Corpo è al tempo stesso, sin dalla nascita, elemento di identità e di comunicazione con l’altro; distingue le persone e le congiunge; può essere oggetto di coercizione e di violenza, ma anche strumento di relazione in grado creare o favorire legami personali non soltanto fisici; vi si incrociano sentimenti primordiali, quali la vanità ed il pudore; interessa l’alfa e l’omega della nostra vita: la nascita al pari della morte. È un testo sul quale il tempo ed il destino iscrivono i loro segni con mano instancabile, ma può essere segnato in profondità anche dalla mano dell’uomo.
Il diritto non può dunque non occuparsene – e sempre infatti se ne è occupato – ma con esso si intrecciano necessariamente profili medico-scientifici e profili etico-sociali, di cui talvolta il diritto tarda a recepire il significato e la portata. Non desta perciò sorpresa che questo sia uno dei terreni nei quali forse maggiormente si esercita la spinta evolutiva della giurisprudenza, come non pochi degli articoli ospitati in questo numero della rivista ben dimostrano; e sul quale non di rado si combattono strenue battaglie ideologiche che finiscono per soverchiare largamente i profili tecnico-giuridici delle questioni di volta in volta affrontate. Non potrebbe essere forse altrimenti, perché qui nuovamente si fronteggiano spesso le ragioni dell’individuo e quelle della polis, e non è un dettaglio insignificante che nella tragedia sofoclea il confronto tra Antigone e Creonte avesse ad oggetto proprio il trattamento da riservare ad un Corpo, quello del defunto Polinice.