“Dal” Corpo e “sul” Corpo della donna.
Il reato di stupro tra Ottocento e Novecento
Il presente lavoro si propone di tracciare un breve percorso relativo alla questione sull’uguaglianza di genere ed a quella dei diritti ad essa concatenati nonché al dibattito che ne deriva in ambito civilistico e penalistico di fine Ottocento sulla rappresentazione della “soggezione” femminile e del reato di stupro che evidenzia come, soprattutto nell’ambito penale, il diritto aveva come finalità il controllo della sfera della sessualità nella definizione e costruzione di reati come quelli di adulterio, aborto, stupro, seduzione, o infanticidio. A tal riguardo, non è marginale rammentare che per il codice penale i reati di violenza sessuale e incesto erano rispettivamente parte «Dei delitti contro la moralità pubblica e il buon costume» (divisi in «delitti contro la libertà sessuale» e «offese al pudore e all’onore sessuale») e «Dei delitti contro la morale familiare». Pertanto, prima di arrivare al dettato costituzionale che attraverso l’emersione d’un “valore ideale” quale l’uguaglianza tra sessi darà vita ad uno stravolgimento di comportamenti discriminatori fortemente consolidati, si assisterà all’infausto fenomeno del “ridimensionamento”, appunto tra Otto e Novecento, del reato di stupro proprio grazie alla legittimazione normativa all’interno d’un sistema di mille contesti che giustificavano tale crimine, tante quante le mille avallanti interpretazioni della dottrina e della giurisprudenza.
1. «Molteplici, naturalmente, sono i piani in cui il diritto misura la sua forza. Il suo compito e il suo concreto esercizio non sono solo quelli di governo e regolazione di conflitti, di costruzione di limiti, ma anche di produzione e di riproduzione del simbolico […]. La norma, in questo modo, pur regolando un determinato ambito, si riverbera necessariamente anche sul resto. Può essere interessante, perciò, dar senso alle forme, spesso solo simboliche, della differenziazione del femminile nei rituali della giustizia e della pena che ricorrono nella nostra storia passata. Nel diritto stesso possono poi trovarsi anche le tracce di importanti contraddizioni, rispetto alla soggezione femminile, che testimoniano della capacità di erosione da parte delle donne del potere patriarcale anche attraverso lo strumento giuridico»[1].
La violenza sulle donne, declinata nel tempo con modalità e tipologie assai diverse, sembra appartenere, è quasi superfluo sottolinearlo, alla storia stessa del genere umano.
Quella sessuale all’interno della coppia, altrettanto antica, pare oggi, almeno agli occhi del mondo occidentale, ancor più intollerabile, proprio in considerazione del contesto nel quale si consuma, a prima vista il più improbabile e il meno adatto per il manifestarsi di comportamenti di sopraffazione.
Ritenere però che lo stupro coniugale si perpetri, oggi, esclusivamente in contesti sociali e religiosi arcaici o culturalmente arretrati […] esprime tutta l’ipocrisia di chi non vuole riconoscere «nel nostro passato il loro presente».
Basta, infatti, andare neanche tanto indietro nel tempo per ritrovare in azioni, fino a ieri giudicate «con indulgenza dal nostro ordinamento giuridico» in sintonia con la mentalità comune, il presente di quelle società, nelle quali consuetudini e normative misogine si fondano ancora su un ampio consenso sociale che la cultura occidentale ritiene ormai, non sempre a ragione, largamente e/o definitivamente superate.
Va invece non soltanto sottolineato come quei retaggi resistano, annidati nelle pieghe delle ricche ed evolute società postindustriali, ma occorre anche ricordare come le «figure dello stupro coniugale e del delitto d’onore […] ancora fra XIX e XX secolo» avrebbero goduto di «un qualche favore fra giudici, legislatori e, soprattutto, pratiche sociali»[2].
La spinosa questione sull’uguaglianza di genere e quella dei diritti ad essa concatenati nonché il dibattito che ne deriva in ambito civilistico e penalistico di fine Ottocento sulla rappresentazione della “soggezione” femminile e del reato di stupro, non potevano essere meglio introdotti dalle stimolanti riflessioni prima di Marina Graziosi che – nel suo saggio infirmitas sexus – evidenzia come, soprattutto nell’ambito penale, il diritto aveva come finalità il controllo della sfera della sessualità nella definizione e costruzione di reati come quelli di adulterio, aborto, stupro, seduzione, o infanticidio; e poi dalle ragguardevoli considerazionidi Daniela Novarese che – in Sul Corpo delle donne. Stupro e debitum coniugale in Italia fra Otto e Novecento[3] – spiega distintamente come l’attuale fenomeno-reato delle realtà “altre”[4] non si discosti così significativamente dalla situazione italiana, una situazione che dovrà attendere la metà degli anni ’70 del Novecento per assistere ad un peculiare cambiamento di prospettiva[5]. Per comprendere appieno quest’affermazione, basti pensare come fino a pochi anni addietro per la dottrina e la giurisprudenza era addirittura inconcepibile che, all’interno del rapporto coniugale, potessero rinvenirsi comportamenti configurabili come violenza sessuale e che il marito, che avesse indotto a compiere o subire atti sessuali alla propria moglie, potesse essere accusato di reato di violenza carnale[6]. Peraltro, la stessa legislazione penale – la quale traduceva nel dettato dell’art. 519 le istanze di una mentalità socio-giuridica e culturale che voleva punire con “severità” chiunque con violenza o minaccia avesse costretto alla congiunzione carnale –, nell’esigenza viva di erigere un piedistallo etico su un reato[7] che ledeva la “morale ed il buon costume”, non sembrava però sortire effetti nei confronti di un pater familias la cui sopraffazione veniva legittimata come ius corrigendinei confronti della donna-moglie[8] oltre che dei figli.
Ed è proprio: «Prendendo le mosse da queste considerazioni, si cercherà di seguire alcuni dei momenti che hanno segnato e sancito il passaggio dal possesso e dal controllo del Corpo femminile, che giustificava il ricorso non solo allo ius corrigendi ma anche alla violenza sessuale, all’idea di rispetto reciproco, di un sesso partecipato e mai subito, quale può nascere esclusivamente da una concezione paritaria dei rapporti interpersonali»[9].
2. E tutto parte “dal” Corpo e “sul” Corpo della donna. E non è, ovviamente, solo questione di “preposizioni”. È che al di sotto di quelle “preposizioni” si nasconde tutto un modo di valutare il problema “giuridico” della “discriminazione di genere”, e di risolverlo; si nasconde tutto un atavico retaggio culturale ed un sistema concettuale su quello elaborato. Quelle “preposizioni” stanno cioè a significare un modo di concepire il Corpo femminile e di relazionarsi a quel Corpo da cui dipenderanno scelte e comportamenti della dottrina e della giurisprudenza dalla peculiarità inconfondibile[10]. Ed è a queste scelte e comportamenti che si vuole gettare uno sguardo fugace, con la preoccupazione di cogliere in essi il senso di un ordinamento nel suo “continuo divenire”, di domandare ad essi una più efficace motivazione del volto di quello, certi come siamo che dalla frizione tra teoria e prassi che scaturiscono le reazioni più autentiche di un’esperienza storica in incessante evoluzione.
Abbiamo detto: scelte e comportamenti specifici, e la dottrina di fine Ottocento, su cui ci soffermeremo, evidenzia questa idea di peculiarità della devianza femminile tanto acuita da sorprendere chi vi ponga attenzione con la mentalità di un moderno; e non già per la risolutezza, nel dibattito postunitario, di “legittimare le differenze legate al sesso” che ormai sembravano praticamente scomparse dalle legislazioni continentali, quanto per la ratio di quelle motivazioni che testimoniano inequivocabilmente la scelta – nell’indicare la “minorazione” tout court delle donne – di arrestare l’emergere delle rivendicazioni femminili a cui bisognava rispondere sottolineando una visione ancora inequivocabilmente e fortemente radicata ai dogmi classici[11].
Per comprendere appieno il processo mentale e le conclusioni dei giuristi e, poi, delle Corti giudicanti di fine Ottocento, si dovrebbe dunque rinunciare a buona parte della nostra mentalità che vorrebbe “risolvere” finalmente la difficile conciliazione tra diritto soggettivo e Corpo, vale a dire “definire” il concetto di diritto soggettivo come potere della volontà d’un soggetto–donna e della proprietà (del suo Corpo) quale diritto soggettivo per eccellenza[12]; e non è un caso se ancora oggi, in un clima di intensa ed approfondita riflessione e revisione di tante disposizioni[13] sul tema dei diritti soggettivi, non rinunciamo mai alla tentazione di qualificare – come esempio – la proprietà, in ogni suo aspetto e tipo, come concetto etico e di farne la insopprimibile “proiezione della persona umana”[14]. Al contrario del secolo scorso in cui la riflessione giuridica, nell’”approfondire e tematizzare la questione della subalternità femminile”, tendeva a raffigurare, in campo civile, il Corpo della donna quale «oggetto di quell’usus utendi et abutendi che il diritto romano riconosceva ai proprietari sugli schiavi o anche di quel ius vita ac necis riservato al padre sui figli»[15], cosicché :
[…] la donna in qualunque regime matrimoniale, è schiava o minore. […] per avere reale possesso di se stessa e delle cose sue, mai non dovrebbe piegare il collo al giogo del matrimonio[16];
in campo penale, a rapportare la fisiologia del Corpo femminile con le sue implicazioni emotive e comportamentali alle capacità di raziocinio e così di incidenza sulla comprensione delle norme, anche qui riprendendo un concetto romanistico, quello dell’infirmitas sexus[17], in quanto:
[…] gli organi della generazione hanno molta più influenza su quelli che servono all’intelletto. Nelle femmine la midolla spinale è più debole e delicata che non lo è nei maschi. Quindi han quelle più deboli le forze dello spirito e più fermi i mezzi di acquistare le idee fornite loro dalla natura[18].
E tutto ciò è comprensibile in una società dove ogni fenomeno tendeva a risolversi all’interno di un sistema di norme autoritative cosicché, per vincolarlo entro chiusure rigorose, i giuristi cercavano avallo nella loro “educazione romanistica”. Mai, come sul tema del sesso – quale causa di “diminuzione” e “differenziazione” –, il diritto romano si dimostrava quale paradigma da proporre come doveroso atto di “ossequio” per la ricerca di “risposte coerenti”. A tal proposito, un primo dato, che agli occhi di taluno potrebbe apparire persino inaccettabile, ma inaccettabile non è sol che si pensi a certi “ambienti culturali”[19], è che il Corpo femminile si riconosceva nel solo rapporto sessuale che, a sua volta, era inteso in senso unisoggettivo e materialistico come atto di incontro che manifesta la propria libido ed un Corpo che si fa strumento del soddisfacimento di detto piacere, un “corpo irrilevante” che solo dalla metà del Novecento sembrò acquisire una “dimensione giuridica”:
[…] anche in ragione di una sempre maggiore sensibilizzazione verso i valori personalistici cristallizzati dalla Costituzione, [dove] si è superata detta concezione a favore di una sessualità valorizzata come un veicolo di espressione della personalità umana e strumento di comunicazione interpersonale cui è estranea qualsivoglia forma di riduzione ad oggetto del corpo umano[20].
3. Tuttavia, prima di arrivare al dettato costituzionale che attraverso l’emersione d’un “valore ideale” quale l’uguaglianza tra sessi[21] darà vita ad uno stravolgimento di comportamenti discriminatori fortemente consolidati, si assisterà all’infausto fenomeno del “ridimensionamento”, appunto tra Otto e Novecento, del reato di stupro[22] proprio grazie alla legittimazione normativa[23] – espressione del formalismo giuridico[24] – all’interno d’un sistema di mille contesti[25] che giustificavano tale crimine, tante quante le mille avallanti interpretazioni della dottrina e della giurisprudenza[26]:
Come dimostrano anche i processi per stupro e violenza carnale, in cui i giudici si muovono sempre dal presupposto che se per il maschio era un fatto naturale «trarre profitto dalle occasioni», «la femmina non consenziente» aveva a disposizione e doveva dimostrare di aver usato tutti «i mezzi istintivi e preventivi per sfuggire alla seduzione […]»[27]. Nelle disposizioni delle sentenze primeggiava la tesi che «nel massimo numero dei casi e forse sempre, il maschio può accoppiarsi solamente con quelle femmine che vi annuiscono» e questo naturalmente riduceva o annullava quasi completamente i casi di «colpabilità maschile»[28].
La più puntuale spiegazione di tale contingenza che sottolinea proprio il limite della “giustizia criminale ottocentesca” ce la dà uno storico del diritto, Mario Sbriccoli, che ragionevolmente rimarcava come «per lungo tempo la storia del crimine e della giustizia criminale ha ignorato […] i profili di genere dell’oggetto che trattava»[29]; ed è una testimonianza rilevante sotto due profili: perché lo stupro era considerato un “reato passionale” ed in quanto tale le emozioni contavano diversamente nella valutazione della responsabilità penale a seconda del genere; e perché la forte distinzione di genere si rispecchiava sulle stesse emozioni che assumevano rilevanza giuridica “diversa”[30]. Ed ecco così che nel pieno dibattito sulla riforma del diritto penale di fine Ottocento, dalle aule universitarie a quelle giudiziarie, i reati passionali “sul” Corpo della donna, erano «scusati sull’onda dell’ira e del dolore, della gelosia che obnubila la coscienza del reo»[31], come pure – «sull’onda dell’onore» – quelli commessi dalla donna su ciò che usciva “dal” suo Corpo: basti pensare all’infanticidio che la dottrina[32] e la giurisprudenza penale trasformarono in «omicidio scusato»[33], formalmente, perché «il neonato con la sua esistenza metteva in pubblica evidenza il disonore in cui era caduta la madre»[34], sostanzialmente, per coprire: il suo seduttore, su cui si stendono facilmente i sorrisi e i veli non lasciando alla sola infamata altro sfogo che quello di farsi giustizia con le proprie mani o di far scomparire, in un disperato delirio, le tracce di un’immensa gioia che si convertirono per lei sola in un’immensa sventura[35].
Non erano, invece, “altrettanto discolpati” quei delitti commessi dalla donna per ciò che faceva “col” suo Corpo ed è da qui l’emergere di un atteggiamento tutt’altro che passivo delle donne/prostitute, impegnate in una continua “trattativa” con le istituzioni, la polizia, i medici, le tenutarie, secondo precise strategie per sfuggire alla loro “reclusione” fisica ed al loro isolamento sociale[36] tenendo ben presente anche che «[…] accusare una donna di adescamento o di essere una prostituta, aveva il suo compenso in termini penali in quanto, “naturalmente”, l’art. 350 del codice diminuiva notevolmente la pena quando la violenza era perpetrata ai danni di una meretrice». La motivazione di un tale scontro risiedeva nel fatto che la violenza contro una prostituta «non offende[va] il pudore individuale o lo offende[va] in misura assai attenuata»[37].
Senza andare ad approfondire quest’ultimo aspetto che richiederebbe un profluvio di riflessioni che andrebbero necessariamente sviscerate sembra però inevitabile rammentare come quei «comportamenti licenziosi delle donne che si pagano», non erano del tutto sconosciuti anche alla moglie sottomessa al debitum coniugale che, proprio in miseri contesti, molto spesso era costretta dal coniuge a prostituirsi:
A volte «[…]era lo stesso marito a prostituire la moglie facendola divenire adultera[…]». Vi era altrimenti chi, per così dire “affittava” la propria moglie per periodi più o meno lunghi.
Ed ecco esemplificarsi lo ius in corpus che – soprattutto nei primi anni del Novecento – legittimava il potere maritale ad imporre con ogni mezzo al Corpo femminile una sessualità non scelta ma subita. In ogni caso: ci sembra superfluo notare, perché lo si è potuto constatare, che l’adultera dalle relazioni dei Carabinieri e della magistratura venga rappresentata più o meno come una prostituta, senza mai dar peso a motivazioni, spesso presenti di maltrattamenti coniugali[38].
Tutto ciò non può che sottolineare, nelle trame di un discorso che potrebbe continuare all’infinito per l’immane apporto storiografico e per gli ampi strumenti interpretativi che il tema richiama, la complessità del “genere femminile” e della sua polivalenza che è tale da generare perplessità sulla unilateralità dell’apodittico atteggiamento a volte di condanna, a volte di mediazione e contrattazione, oltre che di repressione, che dottrina e giurisprudenza per molti anni hanno declamato nei confronti della donna e del suo Corpo; una complessità che è tale da alimentare dubbi sull’atteggiamento – seguito per l’addietro – di fare di ogni erba un fascio e, generalmente, proprio nella regolamentazione del reato di stupro, di risaltare la discriminazione di genere; una complessità che non può non sollecitare curiosità e soprattutto disponibilità a veder meglio e più a fondo nell’intrico delle radici storiche; una complessità che è stata, è, e sarà ancora da esplorare perché a fronte dell’inconsapevolezza dell’immediato ieri, la donna ed il suo “corpo”, con tutte le implicazioni che da questo ne derivano, affiorano sempre più alla coscienza generale con una “loro carica”, e se oggi si propongono come un problema che può essere valutato con un metro diverso da quello usuale alle soluzioni dell’età liberale o del ventennio fascista, domani, – auspichiamo –, con un metro diverso da quello odierno dove ancora resiste una cultura di violenza e sopraffazione nel rapporto tra i sessi.
[1] M. Graziosi, Infirmitas sexus. La donna nell’immaginario penalistico, in Democrazia e diritto, 33(2), 1993, pp. 99-143.
[2] M. Cavina, Nozze di sangue. Storia della violenza coniugale, Roma-Bari 2011, p. 50.
[3] D. Novarese, Sul corpo delle donne. Stupro e debitum coniugale in Italia fra Otto e Novecento, in Violenza di genere, politica e istituzioni (a cura di M. A. Cocchiara), Milano 2014, pp. 233-273.
[4] F. Basile, Immigrazione e reati culturalmente motivati. Il diritto penale nelle società multiculturali, Milano 2010, pp. 163 ss.
[5] In generale, dalla metà del Novecento, sul grosso problema della violenza sessuale, cfr. L. Terragni, Sul corpo di donna. Una ricerca sulla violenza sessuale in Italia, Milano 1999.
[6]Tale esimente è riconducibile al cd debitum coniugale. Su tale tema occorrerebbe riportare una copiosa bibliografia, un tema che però viene efficacemente raccontato nella lectio magistralis dal titolo Diritto e Amore, tenuta da S. Rodotà in Piazza Grande a Modena il 14 settembre 2013 ed ampiamente riportata nell’articolo di L. Solieri, Rodotà. L’amore si libera dal predominio del diritto, in Gazzetta di Modena del 15 settembre 2013. Cfr. D. Novarese, Sul corpo, cit., p. 238, n. 22.
[7] Emblematico contributo sull’argomento e quello di J. Bourke, Stupro. Storia della violenza sessuale dal 1860 ad oggi, Roma-Bari 2009.
[8] Per approfondimenti, interessanti le osservazioni di G. D. Pisapia, Norme di diritto e norme di civiltà, a proposito del preteso ius corrigendi del marito nei confronti della moglie, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, II fasc.(1958), pp. 421 ss.
[9] Cfr. D. Novarese, ivi, p. 239.
[10] Per un quadro attento alla dottrina, alle codificazioni, alla giurisprudenza cfr. T. Noce, Il corpo e il reato. Diritto e violenza sessuale nell’Italia dell’Ottocento, Lecce, 2009.
[11] A proposito di dogmi classici cfr. S. Solazzi, “Infirmitas aetatis” e “infirmitas sexus”, in Scritti di diritto romano, vol. III, Napoli 1960, pp. 357-377.
[12] P. Zatti, Il corpo e la nebulosa appartenenza. Dalla sovranità alla proprietà, in Per uno statuto del corpo (a cura di C. M. Mazzoni), Milano 2008 così fortemente sostiene: «la difficoltà nasce dalla struttura originariamente proprietaria della categoria del diritto soggettivo, che non solo è di ostacolo a rappresentare giuridicamente una relazione tra soggetto e corpo identificati, ma genera un equivoco prolungato, nel linguaggio e nel pensiero giuridico, tra proprietà e appartenenza. La proprietà, che è una modalità dell’appartenenza, diviene il modello esaustivo dell’appartenenza; che invece, è enormemente più vasta e molteplice della proprietà», pp. 69 ss.
[13] Limitatamente alla riflessione sulla letteratura giuridica, per un ripensamento originale della materia, indispensabile è la lettura di S. Rodotà, Il corpo ‘giuridificato’, in Trattato di biodiritto. Il governo del corpo, (a cura di S. Canestrari, G. Ferrando, C. M. Mazzoni, S. Rodotà, P. Zatti) I, Milano 2011,poi anche in Id., La vita e le regole, Milano, 2006, p. 36 ss.
[14] «Si tocca qui il delicatissimo problema – per dirla con l’espressione di P. Grossi, (La proprietà e le proprietà nell’officina dello storico, in La proprietà e le proprietà, a cura di E. Cortese, Milano, 1988, p. 91) – della «confusione deliberata tra il mio ed il me», ossia della proprietà come chiave di lettura del fenomeno di appartenenza a sé del proprio corpo; ed è un problema che evoca interrogativi giuridici, ma anche – a monte – culturali assai vasti» cfr. T. Dalla Massara, Diritti dominicali e situazioni possessorie nel vecchio e nuovo diritto europeo, in Teoria e storia dir. privato, 2011, p. 35.
[15] D. Novarese, Sul corpo, cit., p. 243, che a sua volta evidenzia le indicative considerazioni di L. Capogrossi Colognesi, Proprietà, diritto romano, in Enciclopedia del diritto, XXXVII (1988), p. 162.
[16] A. M. Mozzoni, La liberazione della donna, (a cura di F. Pieroni Bortolotti), Milano 1975, p. 80.
[17] Cfr. G. Minnucci, La capacità processuale della donna nel pensiero canonistico classico, Milano 1994. Le stimolanti analisi vengono riprese in Id., La condizione giuridica della donna tra Medio Evo ed Età Moderna: qualche riflessione, in Annuario de historia del derecho español, 2011, Tomo LXXXI, p. 998 e ss.
[18] Cfr. G. Carmiugnani, Elementi di diritto criminale (1808), Napoli 1854, p. 56.
[19] A riprova di ciò le parole di Daniela Novarese (Sul corpo delle donne, cit., p. 242): «Il corpo «giuridificato» della donna trovava così, nel diritto e nella morale religiosa, un ulteriore strumento di sottomissione alle logiche della potestas maschile e il debitum coniugale preteso dal marito, anche con la violenza, diventava dovere per eccellenza, contrapposto ad un piacere/diritto sconosciuto ed inaccessibile per le donne, obbligo insieme giuridico e morale.»
[20] A. Trinci, Introduzione ad uno studio “aggregato” dei delitti contro la libertà sessuale, in Delitti contro la libertà sessuale aggiornato al d.lgs 4 marzo 2014, n. 39 (a cura di S. Tovani - A. Trinci), Torino 2014, pp. 12-13.
[21] A tal riguardo l’accurato studio di M. A. Cocchiara che analizza il rapporto tra gli articoli 3 e 29 della Costituzione soprattutto tenendo conto delle diverse e contrastanti ideologie in campo. Cfr. Segmenti del dibattito costituente sulla famiglia tra compromessi, ingerenze vaticane e protagonismo femminile 1946-47, in Società e Storia, CIX (2012), pp. 119-155.
[22] Su questo profilo basti leggere E. Ciconte, (Storia dello stupro. E di donne ribelli, Soveria Mannelli, 2014) che racconta storie di stupri attraverso le carte di processi da cui emergono personaggi sorprendenti nella veste di vittime e di carnefici.
[23] A tal riguardo non è marginale rammentare che per il codice penale i reati di violenza sessuale e incesto erano rispettivamente parte «Dei delitti contro la moralità pubblica e il buon costume» (divisi in «delitti contro la libertà sessuale» e «offese al pudore e all’onore sessuale») e «Dei delitti contro la morale familiare». Così mentre si affermava che la violenza sessuale non offendeva principalmente la persona, coartandola nella sua libertà, ma ledeva una generica moralità pubblica si dimostrava che il bene che si voleva proteggere e tutelare non era tanto la persona quanto il buon costume sociale secondo il quale la donna non era libera di disporre di alcuna libertà nel campo sessuale. Si dovrà attendere la l. 66/1996 per veder riconosciuto che «il bene-interesse tutelato dai reati in esame è costituito da quella forma di libertà personale che è la libertà sessuale, bene giuridico di rango costituzionale senz’altro superiore rispetto alla morale pubblica ed al buon costume, lungi dall’assumere valenza meramente simbolica, ideale (…), assume, pertanto, un decisivo, rilievo anche sotto il profilo tecnico-giuridico» cfr. S. Beltrani, (Le nuove norme sulla violenza sessuale, Napoli 1996, p. 27) anche per approfondimenti sul dettato normativo.
[24] A tal proposito è importante la lettura di G. Cazzetta, Praesumitur seducta. Onestà e consenso femminile nella cultura giuridica moderna, Milano 1999.
[25] Circa i contesti, abbondante la bibliografia sul tema è in E. Ciconte, Storia dello stupro, cit.
[26] Nella letteratura giurisprudenziale un’analisi problematica ed estremamente stimolante, sia pure sotto una particolare angolatura è quella condotta da S. Cabibbo, Le vergini, le vedove e le maritate nella giurisprudenza e nella casitica di età moderna: ipotesi interpretative e percorsi storiografici, in Trimestre, nn. 3-4, 1997.
[27] Cfr. P. Peconi - P. Sorcinelli, Vittime e colpevoli nei processi della pretura e del tribunale di Pesaro (1910-1920), in Lavoro, criminalità, alienazione mentale (a cura di P. Sorcinelli), Ancona 1987, p. 66.
[28] P. Sorcinelli, Storia e sesualità. Casi di vita, regole e trasgressioni tra Ottocento e Novecento, Milano 2001, p. 97.
[29] M. Sbriccoli, «Deterior est condicio foeminarum». La storia della giustizia penale alla prova dell’approccio di genere, in Innesti. Donne e genere nella storia sociale (a cura di G. Calvi), Roma 2004, p. 73. Tale opinione è ben commentata da E. Musumeci, Emozioni, crimine, giustizia. Un’indagine storico-giuridica tra Otto e Novecento, Milano 2015.
[30] Un ampia ed attenta riflessione sul rapporto tra emozioni e discriminazione di genere nella giustizia di fine Ottocento, cfr. E. Musumeci, Emozioni, crimine, giustizia, cit.
[31] E. Musumeci, ivi, p. 28.
[32] Si veda, a mero titolo d’esempio, L. Ferriani, La infanticida nel codice penale e nella vita sociale, Milano 1886.
[33] Ampio e documentatissimo, in tema di giurisprudenza per i reati di infanticidio di fine Ottocento, il lavoro di R. Selmini che analizza nello specifico alcuni processi che si svolsero a Bologna. Cfr. Profili di uno studio storico sull’infanticidio. Esame di 31 processi per infanticidio giudicati dalla Corte d'Assise di Bologna dal 1880 al 1913, Milano 1987. Idonea anche la lettura di F. De Cola Proto, L’aborto e l’infanticidio nella dottrina e nella giurisprudenza, Messina 1889, p. 189.
[34] «Siamo ancora nel quadro disegnato dalla legislazione italiana risultante dalla fusione delle diverse leggi esistenti nella penisola prima dell’unificazione legislativa civile del 1865 e di quella penale del 1889. Per quanto riguarda l’infanticidio si tratta di una fusione realizzata dopo un intenso periodo di accesi dibattiti (fra i fautori e i detrattori della più dura penalizzazione del crimine in oggetto infliggendo la morte a chi commette infanticidio) per risolvere, o mediare, tutte le difficoltà che si incontrano quando si mira a costruire un unico sistema unitario del diritto, in qualche modo rappresentativo delle diverse esperienze e delle diverse esigenze sociali vissute in precedenza negli Stati preunitari», cfr. C. Corsini, Sull’infanticidio: alcune riflessioni, in Rivista online Prato. Storia e arte, n.107, pp. 87-88, che cita nella sua dettagliata bibliografia sull’argomento, tra i tanti lavori, l’interessante volume di G. Di Bello - P. Meringolo, Il rifiuto della maternità. L’infanticidio in Italia dall’Ottocento ai giorni nostri, Pisa 1997. Importanti riflessioni sono anche in G. Alessi, Le gravidanze illegittime e il disagio dei giuristi (secc. XVII-XIX), in Madri: storia di un ruolo sociale, (a cura di G. Fiume) Venezia 1995; N. Arnaud-Duc, Le contraddizioni del diritto, in Storia delle donne. L’Ottocento (a cura di G. Duby, M. Perrot,), Bari 1991; V. Babini, F. Minuz, A. Tagliavini, La donna nelle scienze dell’uomo, Milano 1986; E. Badinter, L’amore in più. Storia dell’amore materno, Milano 1980; P. Guarnieri, Madri che uccidono. Diritto, psicologia e mentalità sull’infanticidio dal 1810 a oggi, in Sapere & narrare: figure della follia (a cura di M. Bresciani Califano). Ciclo di conferenze Settembre-Dicembre 2003, Firenze 2005. Per una analisi comparatistica della legislazione in materia si veda E. M. Ambrosetti, L’infanticidio e la legge penale Padova 1992.
[35] C. Lombroso, L’uomo delinquente (1897), V edizione, vol. III, pp. 338-339.
[36] Così emerge dal notevole volume di M. Gibson (cfr. Stato e prostituzione in Italia, Milano 1995) che in un’unica ed approfondita indagine sulla prostituzione in Italia tra il 1860 e la prima guerra mondiale «ha sollevato un velo sul relativo intervento statale (rappresentato dal regolamento Cavour sulla prostituzione del 1860) fino a ora totalmente misconosciuto ma non per questo meno importante» (cfr. M. Turno, Il malo esempio. Donne scostumate e prostituzione nella Firenze di fine Ottocento, Firenze 2003, p. 17 che a sua volta cita una ricca e completa bibliografia sul tema). Per comprendere la battaglia contro la dura piaga della prostituzione cfr. S. Bellassai, La legge del desiderio. Il progetto Merlin e l’Italia degli anni cinquanta, Roma 2006.
[37] Cfr. B. Montesi, Questo figlio a chi lo do?. Minori, famiglie, istituzioni (1865-1914), Roma 2007, p. 67 che rinvia a C. Bianchedi, Violenza carnale, in Digesto italiano, vol. XXIV, Torino 1914-1921, p. 1108.
[38] Cfr. G. Greco, Peccato, crimine e malattia tra Ottocento e Novecento, Bari 1985, pp. 108-199.