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Castrazione chimica: il dibattito politico e la proposta di legge n. 272 del 2108

di Nello Rossi
direttore di Questione Giustizia
Sono in molti a nutrire la segreta speranza che la “castrazione farmacologica” sia solo un fuoco d’artificio elettorale. Ma intanto una proposta di legge c’è, è sostenuta da una raccolta di firme ed è “benedetta” da un sondaggio favorevole. Vale la pena di guardarla più da vicino

1. Una “cura democratica”

Una «cura democratica e pacifica». Cosi, qualche giorno fa, il Ministro dell’interno Matteo Salvini definiva la castrazione chimica, rilanciando il tema nel vivo della campagna elettorale per le elezioni europee sulla scorta di un sondaggio di opinione favorevole alla proposta [1].

«Chi pensa che sia qualcosa di preistorico significa che non conosce la legge … è caso mai qualcosa all’avanguardia» [2]. Con queste parole, il ministro Giulia Bongiorno commentava l’emendamento sulla castrazione chimica al disegno di legge n. 1455-A, presentato il 17 dicembre 2018 dal Ministro della giustizia, noto come «Codice rosso» [3]. Emendamento poi ritirato dai parlamentari proponenti della Lega perché «non previsto nel contratto di Governo», ma con l’annuncio di una ripresa della proposta in altra sede.

Non sappiamo se queste definizioni, riportate dalla stampa e sinora non smentite, rispecchino effettivamente le dichiarazioni ed il pensiero dei due ministri.

Ma ci sono i fatti. E tra questi campeggia la raccolta di firme in favore della castrazione chimica «per pedofili e stupratori», i cui sottoscrittori dichiarano di voler «sostenere la proposta di legge della Lega presentata dalla Lega alla Camera, n. 272 del 3 marzo 2018, che ha come primo firmatario il sottosegretario all’Interno Nicola Molteni».

La segreta speranza di molti è che tutto questo sia solo un fuoco d’artificio elettorale, destinato a svanire nella notte che precederà le prossime elezioni. Ed è questa speranza, peraltro condivisa anche da chi scrive, ad aver relegato in secondo piano ogni discussione sul merito della proposta di legge oggi portata, con grande clamore, all’attenzione della opinione pubblica.

Ma intanto, come abbiamo visto, una proposta di legge c’è. È sostenuta da una ben organizzata raccolta di firme. È benedetta da un sondaggio favorevole, ormai divenuto il viatico necessario di ogni iniziativa legislativa. E non può che essere questa «la legge» che il ministro Bongiorno rimprovera ai critici di non conoscere e che conterrebbe un trattamento medico «all’avanguardia».

2. Il «giudizio è facile e la conoscenza è difficile»: un esame della proposta di legge n. 272 del 2018

Poiché, come è stato scritto, «il giudizio è facile e la conoscenza difficile», proviamo ad offrire una prima lettura della proposta di legge n. 272 del 2018, intitolata «Introduzione del trattamento farmacologico di blocco androgenico totale a carico dei condannati per delitti di violenza sessuale».

Nella nota di presentazione al ddl si legge, tra l’altro, che la proposta «trova la propria ratio nella necessità, oltre che di assicurare un’adeguata pena per chi commette … efferati delitti “di violenza sessuale” anche di eliminare la possibilità che coloro che se ne sono macchiati possano ripeterli, considerato l’elevato tasso di recidiva che essi presentano».

In esordio dell’articolo unico della proposta sono individuati il contenuto e la sfera di applicazione del trattamento.

Esso è riservato ai condannati alla reclusione per i reati di violenza sessuale (artt. 609 bis e ter cp) e per i reati di atti sessuali con minorenni e di corruzione di minorenni (art. 609 quater e quinquies cp).

La misura consiste nel «trattamento farmacologico di blocco androgenico totale attraverso la somministrazione di farmaci di tipo agonista dell’ormone di rilascio dell’ormone luteinizzante (LHRH) ovvero di metodi chimici o farmaci equivalenti».

A proposito di tale trattamento, nella nota n. 51 dell’Agenzia italiana del farmaco, aggiornata al novembre 2016 e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 5 novembre 2016, si legge: «I farmaci analoghi dell’ormone stimolante il rilascio delle gonadotropine (LH-RH analoghi) hanno un ampio utilizzo nella pratica clinica grazie al loro meccanismo di azione. Essi producono una iniziale stimolazione delle cellule ipofisarie che provoca la secrezione dell’ormone follicolo stimolante (FSH) e dell’ormone luteinizzante (LH) mentre un trattamento prolungato determina desensibilizzazione dei recettori ipofisari e inibizione della produzione di entrambi gli ormoni gonadrotopi, determinando funzionalmente una condizione di castrazione farmacologica».

Nella stessa nota si legge ancora che il trattamento è attualmente riservato a gravi malattie in prevalenza di natura tumorale (carcinoma della prostata, carcinoma della mammella, endometriosi, fibromi uterini non operabili e così via) e vi sono avvertenze sugli effetti collaterali specifici − tra cui figurano riduzione della massa muscolare, importanti effetti negativi sul metabolismo osseo ed osteoporosi, anemia – destinati a ripercuotersi sullo stato di salute generale dei pazienti e sulla loro qualità di vita.

A questa fonte “ufficialissima” si aggiunge qui solo la menzione di uno studio di G. Scarselli, C. Comparetto e M.E. Coccia «Analoghi del GnHR: agonisti e antagonisti». Nello studio [4] , si sottolineano gli importanti effetti avversi del trattamento e si sostiene che, per evitare le conseguenze dannose sul metabolismo osseo e sul sistema vasomotore dell’ipoestrogenismo indotto dal trattamento, «può rendersi necessario il ricorso ad una permanente “add back terapy”».

3. Chi decide della castrazione farmacologica?

Se dalla lettura del primo comma del ddl n. 272 apprendiamo il contenuto del trattamento e “quando” ed “a chi” esso si applicherebbe, i commi successivi si incaricano di rispondere ad altre domande decisive. Chi deciderà l’adozione del trattamento? Ancora: si tratterà di un trattamento volontario (come sempre si ripete nel divulgare al pubblico la proposta), di un trattamento frutto di una decisione assunta dai giudici caso per caso o di un trattamento obbligatoriamente connesso alla commissione dei reati? Ed infine: chi sarà incaricato dell’esecuzione del trattamento?

Nel rispondere a tali domande la prima constatazione è che la misura del trattamento farmacologico è ben più articolata di quanto sia sin qui emerso nel dibattito pubblico.

Essa presenta infatti tre differenti modalità di applicazione.

La prima: il trattamento farmacologico discrezionale, disposto dal giudice «previa valutazione della pericolosità sociale e della personalità del reo, nonché dei suoi rapporti con la vittima del reato»a seguito della condanna alla reclusione per i reati contemplati dalla proposta di legge.

La seconda: il trattamento farmacologico obbligatorio, «sempre disposto dal giudice», in caso di recidiva e nelle ipotesi che i reati siano commessi in danno di minori.

La terza: l’ammissione volontaria ed a richiesta al trattamento per chiunque sia stato riconosciuto colpevole «con sentenza passata in giudicato» per i reati menzionati nella proposta di legge.

Per quanto riguarda, infine, l’esecuzione del trattamento sarebbe ancora una volta il giudice a dover indicare «il metodo da applicare e la struttura sanitaria pubblica» nella quale il trattamento dovrebbe essere eseguito.

Nelle due ipotesi di trattamento discrezionale ed obbligatorio, alla misura si accompagna l’inserimento in un programma di recupero psicoterapeutico, svolto a cura dell’amministrazione penitenziaria con l’ausilio di centri ove operano professionisti specializzati in psicoterapia e psichiatria.

4. Una pena aggiuntiva ed una inedita misura di sicurezza

Sin qui il contenuto, sin troppo “eloquente”, della proposta di legge. Che dissolve, con la sua crudezza, i paraventi propagandistici, la bonomia rassicurante e le pretese avanguardistiche dei ministri più impegnati su questo terreno. E fa giustizia anche di espressioni francamente incomprensibili. Che cosa significa infatti, se solo ci soffermiamo per un attimo a riflettere, «una cura democratica»?

La realtà, almeno in attesa di nuove proposte, è più dura, più inquietante, più mortificante.

Il trattamento farmacologico di blocco androgenico totale è presentato, dagli stessi proponenti, come una sorta di “pena” aggiuntiva, reclamata dalla gravità dei reati commessi.

Nella sostanza, per ritornare al diritto ed al giudizio penale, che sono pesantemente chiamati in causa, si sarebbe di fronte, oltre che ad una pena accessoria, ad un’inedita specie di misura di sicurezza.

Una misura che attinge direttamente il corpo del condannato e che consentirebbe di inoculargli (obbligatoriamente? forzatamente?) farmaci sin qui utilizzati solo per contrastare tumori ed altre gravi malattie. Quelle stesse che, nella logica del garantire la sopravvivenza del malato, si combattono “col ferro e col fuoco” e che giustificano, con il consenso informato del paziente, alterazioni altrimenti inconcepibili del corpo umano, rendendo accettabili anche gravi effetti avversi e collaterali.

Il giudice che dovesse disporre − sulla base della prevista valutazione di pericolosità o per obbedire al comando di legge − l’applicazione del trattamento dovrebbe dunque mettere in conto la possibilità della induzione di più o meno gravi malattie come diretta conseguenza del provvedimento giudiziario adottato.

Sul piano puramente pragmatico, inoltre, il trattamento, dovrebbe necessariamente avere, per essere efficace, una durata molto lunga o divenire permanente, rendendo problematica ogni forma di somministrazione contrastata o rifiutata dal condannato nel corso o al termine della reclusione.

Per non parlare poi dell’incertezza assoluta che grava sui «metodi chimici o farmacologici», equivalenti al trattamento specificamente indicato dalla legge, su chi debba valutare tale equivalenza e decidere il trattamento alternativo.

Di più: la menzione di una «sentenza di condanna passata in giudicato» come presupposto necessario del (residuale) trattamento «volontario» e il semplice riferimento ad una condanna alla reclusione nei casi di trattamento discrezionale e obbligatorio inducono a ritenere che, nell’intenzione dei proponenti, il trattamento potrebbe essere adottato anche dopo una sentenza non definitiva.

A questo punto, la riemergente e mai sopita speranza che la proposta di legge sia una poco divertente boutade sconsiglia di procedere oltre nell’individuare gli spinosi problemi giuridici sollevati dal testo, naturalmente anche sotto il profilo della sua compatibilità con la nostra Costituzione. Ma il ragionamento non può finire qui.

5. L’insetto impercettibile che rode la libertà e la dignità delle persone

Nelle più serie questioni di diritto c’è sempre un momento in cui anche la più raffinata analisi tecnica rivela la sua insufficienza a rispondere a tutti gli interrogativi.

Il tema della castrazione farmacologica ne è un esempio lampante.

L’illuminismo ed in particolare l’illuminismo penale non sono sempre riusciti a ridurre l’intemperanza e la prepotenza del potere politico. Pulsioni, queste, sempre pronte a riemergere, con la forza impetuosa di un fiume carsico, nei momenti di crisi della società e delle istituzioni.

Ma la diretta manomissione dei corpi è rimasta, nei Paesi realmente democratici e liberali, un limite invalicabile, un confine da non oltrepassare per mantenere fermo il rispetto della libertà e della dignità delle persone. Se si vuole un civile tabù, accompagnato dal bando della pena di morte e dall’orrore per la tortura e le pene corporali.

In questa stessa ottica la riduzione di un condannato, sia pure per reati gravissimi ed odiosi, a mero “soggetto” di una operazione farmacologica con le caratteristiche sin qui descritte non può essere minimizzata né in alcun modo sottovalutata.

Essa, infatti, avrebbe l’effetto di (re)introdurre nell’ordinamento giuridico una pretesa, o meglio, una presa del potere politico, legislativo e giudiziario sul corpo di criminali, che anche nel momento della punizione, “devono” restare persone e non possono essere ridotti a cose.

Ne va della difesa della loro e della nostra dignità. E della difesa delle libertà dei cittadini, che possono essere messe a rischio se si sceglie, con leggerezza, di muoversi sul piano inclinato dei possibili interventi sui corpi (dei sudditi).

È forse il caso di rimeditare, sulla scorta di questa vicenda, l’ammonimento di Cesare Beccaria: «In alcuni Governi, che hanno tutta l’apparenza della libertà, la tirannia sta nascosta o s’introduce non prevista in qualche angolo negletto dal legislatore, in cui insensibilmente prende forza e s’ingrandisce. Gli uomini mettono per lo più argini sodi all’aperta tirannia, ma non veggono l’insetto impercettibile che gli rode ed apre una tanto più sicura quanto più occulta strada al fiume inondatore» [5].



[1] La Repubblica.it, 4 maggio 2019.

[2] Il Giornale.it, 3 aprile 2109.

[3] Il ddl n. 1455-A, intitolato «Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica o di genere» è stato approvato dalla Camera 1l 3 aprile 2019 e trasmesso al Senato ove ha preso il n. S. 1200. Il disegno di legge è noto all’opinione pubblica come «Codice rosso» per sottolineare la previsione di corsie preferenziali ed urgenti per i reati oggetto del ddl.

[4] Lo studio è pubblicato sul sito FLORE (FLOrence REsearch, repository istituzionale ad accesso pieno ed aperto dell’Università degli studi di Firenze.

[5] Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, Capitolo XX, “Violenze”.

09/05/2019
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