Magistratura democratica
Magistratura e società

Coscienza costituzionale, garantismo e strategia dei diritti nella modernità del pensiero di Adolfo Gatti

di Antonio Gialanella
Avvocato generale presso la Corte di appello di Napoli
Riflessioni sul libro “Scritti dell’avvocato Adolfo Gatti”, a cura di Giovanna Corrias Lucente. Prefazioni di Paola Severino e Giovanna Corrias Lucente (Aracne editrice)
Coscienza costituzionale, garantismo e strategia dei diritti 
nella modernità del pensiero di Adolfo Gatti

Adolfo Gatti (1919-2001) ha segnato, in modo indelebile, la storia dell’avvocatura italiana, non solo introducendo decisivi mutamenti alla consuetudinaria oratoria forense e rammodernando le prassi delle tecniche difensive in ognuno dei processi dei quali fu parte, molti dei quali al centro delle cronache del tempo, ma anche testimoniando, attraverso un articolato corpus di articoli ed interviste, in larga parte oggi riuniti nel testo recensito, la passione civile e la modernità ‘politica’ che animava il suo lavoro, profondamente ispirato alla tutela dei diritti fondamentali, in una prospettiva costituzionalmente orientata ed attenta al valore strategico dei principi garantisti.

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1. L’opera di Adolfo Gatti va rivisitata, oggi, da un punto di vista che ne sottolinei ancor più la modernità, ad ormai quindici anni dalla scomparsa dello stesso Gatti; quindici anni che, nella cronaca del nostro Paese e delle vicende della giustizia italiana, disegnano, certamente, un arco temporale significativo, capace di rendere già in parte superata una costruzione ideale.

Al contrario, il pensiero di Gatti, come disegnato dai suoi scritti, nonostante i quindici anni dalla sua morte, si diceva, è un pensiero di grande attualità in ciascuno dei profili che lo connotano e che sono già individuati nella bella prefazione al libro che si va recensendo, scritta da Giovanna Corrias Lucente.

Grande attualità che si svela, però, soprattutto nel carattere nitidamente politico di questo pensiero; perché questo stesso pensiero, come ben scrive Giovanna Corrias Lucente, non si limita ad una più o meno generica «critica distruttiva» delle norme incriminatrici e del processo penale in un dato momento storico del nostro Paese; critica distruttiva tante volte ripetuta, negli anni che sono seguiti all’opera di Gatti, in modi però sovente stucchevoli, quando non strumentali ad interessi particolari, ad opera di tanti successivi e modesti epigoni della nobile attività forense di Adolfo Gatti.

Scrive assai bene Giovanna Corrias Lucente che nel pensiero di Adolfo Gatti si coglie, invece, «la lucida percezione non solo delle norme, ma delle loro conseguenze nella realtà sociale; la comprensione degli effetti, sul singolo e sul popolo, dei processi; e la chiarezza delle vie per innovare il sistema».

2. Carattere, dunque, nitidamente politico, può ben dirsi, ha il pensiero di Gatti, ed in questo sta la sua attualità: carattere politico, si affermava, perché nel complesso pensiero di Gatti paiono confluire, se lo si analizza in profondità, le due visioni della politica che hanno dominato l’Ottocento ma hanno poi profondamente condizionato il Novecento; il Novecento, secolo breve, secondo la celebre definizione di Hobsbawm.

Da un lato, dunque, nel pensiero di Gatti c’è netta la visione liberale; quella, anzi tutto, che affonda le sue radici nell’antitesi di Hobbes tra libertà e legge e nell’idea di John Locke dei diritti individuali come limite all’azione di governo; ma nel pensiero di Gatti v’è anche quella visione liberale che nasce da Stuart Mill, alla fine dell’Ottocento, e che riscopre la lezione aristotelica e dunque il senso del «bene comune» sganciato dagli interessi economici privati.

Al contempo, nel pensiero di Gatti vi è evidente il peso delle idee egualitarie ed antiindividualiste di un Saint Simon, di un Fourier, di un Owen, che sono poi alla base della visione marxiana della politica, che è una visione palingenetica: destinazione della politica è, nuovamente, un «bene comune», identificato con il riscatto sociale ed economico degli oppressi, conseguito attraverso l’opposizione (degli interessi, delle classi) e che, in termini aristotelici, conduce sino alla democrazia.

È questo stesso spirito di «opposizione» in nome del «bene comune» che può agevolmente rintracciarsi nelle parole di Gatti che, ad esempio, annota, scrivendo nel 1978 di terrorismo, della necessità, di fronte, per l’appunto, al terrorismo, «… del diverso impegno del cittadino, il quale si deve sentire compartecipe della tutela di un bene comune», per l’appunto; «… un bene comune che non è delegabile»; fermo restando, annota ancora, con straordinaria lucidità, Gatti, che «… non bisogna cadere nell’errore, facile purtroppo, di invocare e lasciar dilagare una generica opera di repressione, sperando che possa portare ad un risultato utile se diretta contro ambienti che vengono… considerati ambienti di dissenso; la libertà di dissentire dal potere deve poter rimanere, (deve poter) esprimersi, non bisogna impedirla».

Ora: questo confluire, nel pensiero di Gatti, del pensiero liberale e della cultura dell’egualitarismo comunitario appare evidente se si condivide quanto scrive Giovanna Corrias Lucente, si diceva, nell'individuare le tre direttrici del pensiero di Gatti: la direttrice della necessità di riforma in senso accusatorio del processo penale dell’abrogato codice di rito, riforma della quale Gatti coglie tutta la spinta innovatrice; la direttrice dell'attenzione estrema verso i diritti di libertà e di difesa, ovunque violati, attenzione tutta volta al cittadino compresso dalla macchina giudiziaria; la direttrice dell'opposizione a tutti i retaggi antidemocratici e illiberali individuati nel diritto e nella procedura penale italiana, oggetto del codice di rito poi abrogato, da riformare sì ma secondo la stella polare della Costituzione, della quale Gatti è strenuo paladino nella prospettiva della conquista della «democrazia nel processo» attraverso una «inarrestabile dinamica conflittuale».

3. Ora: questa modernità politica, nel senso che si è or ora detto, del pensiero di Gatti è certamente tutta interna alla sua storia personale: Gatti è figlio del primo dopoguerra, nasce nel 1919, aderisce alle idee della grande tradizione laica del gruppo di Giustizia e libertà ed è dunque nutrito di quelle medesime idee della sinistra liberale che gravitava attorno alle figure di Pietro Calamandrei ed Ernesto Rossi; tant’è che Gatti si lega, come si ricorda anche nella prefazione di Giovanna Corrias Lucente, al gruppo d'intellettuali de Il Mondo di Mario Pannunzio.

Non vuole qui certo evocarsi Carlo Rosselli ed il suo testo teorico del movimento, Socialismo liberale; si sta solo a dire, per quello che qui rileva, che secondo Norberto Bobbio, le conclusioni cui Carlo Rosselli vuole giungere sono, prima tra tutte, che «il socialismo, inteso come ideale di libertà non per pochi ma per i più, non solo non è incompatibile con il liberalismo, ma ne è teoricamente la logica conclusione, praticamente e storicamente la continuazione».

Socialismo che, niente affatto a caso, Gatti definisce, nello scritto del 1980, Che brutta legge quest’antiterrorismo, come pensiero, «… per origine e per tradizione, in prima linea nella lotta per i diritti civili».

E rammenta, Gatti, che, nella lotta parlamentare al decreto legge antiterrorismo che, al tempo degli anni di piombo, il Governo del tempo aveva poi condotto all’approvazione delle Camere, erano rimasti in pochi – «… i radicali, qualche dissidente clandestino, gli amici del poi disciolto Pdup» – a «difendere i valori essenziali della Costituzione» a fronte della pretesa, raggiunta «unità democratica contro l’eversione» di tutte le altre forze politiche.    

Ben altro era, dunque, il senso dell’aspirazione di Carlo Rosselli al cambiamento radicale della società italiana che rompeva, ovviamente, con intransigenza, con il fascismo e l'Italia pre-fascista, aspirazione che contrappone Giustizia e libertà ai liberali; questo era il senso dell’aspirazione di Rosselli ad una società laica e secolarizzata (il che contrappone Giustizia e libertà al pensiero cattolico); questo era il senso dell’aspirazione di Rosselli ad una società democratica progressista ma pluralista e con ordinamenti politici liberali (il che contrappone Giustizia e libertà al pensiero dei comunisti di stretta osservanza sovietica).

Ora: le battaglie laiche, antimonopoliste e antiautoritarie, condotte, infine, dal giornale Il Mondo diretto da Mario Pannunzio, sono tutte dentro gli scritti migliori di Gatti; Gatti che va collocato, indubbiamente, nel novero delle personalità che, pur dopo il frantumarsi in mille rivoli dell’esperienza italiana del socialismo liberale del Partito d’azione, in specie, ne praticarono gli ideali; personalità che, fuori e dentro i partiti, nei sindacati, nelle associazioni e sulle colonne dei principali giornali italiani, nella pratica professionale, tutte tali personalità, si impegnarono nella realizzazione di ognuno dei temi cari a quest'area politica – le fondamenta della democrazia, la difesa della Costituzione, la laicità delle istituzioni repubblicane, lo sviluppo di una forte etica pubblica – e tra costoro debbono farsi almeno i nomi di Vittorio Foa, di Norberto Bobbio, di Alessandro Galante Garrone, di Leo Valiani.

Vanno condivise, dunque, profondamente, le parole di Paola Severino quando rammenta, nella sua prefazione, le parole di Adolfo Gatti che in ogni imputato, vedeva il cittadino da difendere; parole, dice ancora Paola Severino, che «… esprimevano …la difesa strenua dei diritti fondamentali della vita, della libertà personale, della libertà di espressione», difesa che è in tutta l’attività professionale di Gatti; Gatti che, nella ricostruzione della Severino, è, dunque, infine, un «… paladino della Costituzione (repubblicana), chiave di lettura dell'intero ordinamento giuridico».

4. Di questo convincimento, che si va esplicando, circa il nobile carattere politico dell’attività di Gatti va trovata conferma nella angolata lettura, che va compiuta, degli scritti contenuti in questo prezioso libro che si commenta; si dice lettura angolata perché occorre soffermarsi, soprattutto – tra i mille temi che si potrebbero  trarre da queste preziose pagine, un’autentica miniera di pensieri –, su quegli stessi temi che, per dirla con Giovanna Corrias Lucente, testimoniano della «acuta conoscenza del mondo reale» da parte di Gatti e ne disegnano l’attualità politica, nel senso che si affermava, del suo pensiero, il che, poi, rende così appassionante stare a discutere di questo pensiero.

Centrale, in questo ragionamento, è rammentare che molte volte, ad esempio, già alla metà degli anni ’70, Gatti si occupa, nei suoi scritti, della magistratura e del ruolo che ad essa assegna la Costituzione repubblicana: come ci ricorda Giovanna Corrias Lucente, Gatti è del tutto convinto della «… esigenza che il giudice si cali nella realtà sociale e ricorra all’interpretazione evolutiva»; ed infatti, nel 1976, nello scritto La toga e la politica, Gatti difende dalle «rampogne» sollevate, nei discorsi inaugurali dell'anno giudiziario, da diversi procuratori generali, «i magistrati accusati di fare politica», e che così avrebbero compromesso «il prestigio della giustizia», per essere stati parte di dibattiti sui giornali o partecipi alla vita della stessa politica o di una attività sindacale.

Gatti replica, a queste rampogne, che non può imporsi ai magistrati «una rinuncia a sentire e ad agire politicamente»; e questo perché i magistrati «… sono cittadini come tutti gli altri e posseggono pari diritti»; dunque, è patologico che da essi si voglia ottenere, il che Gatti deplora, «… una supina adesione all'atteggiamento conservatore tenacemente assunto dalla maggioranza degli alti gradi»; e piuttosto, Gatti rammenta che fare politica significa non certo aderire alle logiche dell'uno o dell'altro partito per ricavarne vantaggi personali o conformarsi «alle promettenti pretese del potere»; «… fare politica significa, in una società soggetta a continua evoluzione, prendervi parte, prendere parte alla società, ciò che rappresenta, per le persone che rivestono specifiche qualificazioni pubbliche e che sono particolarmente avvertite su certi problemi, un preciso dovere».

Dunque, Gatti avverte lucidamente che il problema della c.d. politicizzazione della magistratura non è quello di impedire al magistrato di prendere parte alla vita della polis; il problema è tutt’altro; il problema è quello di quale sia il limite del ‘fare politica’, nel senso ora detto, da parte del magistrato; limite che però va trovato nella cosiddetta «coscienza costituzionale» che deve animare il magistrato nell’esercizio concreto della sua attività.

«Coscienza costituzionale»: un concetto fondamentale nel pensiero di Gatti, che nuovamente colloca la Costituzione repubblicana al centro della sua riflessione; «coscienza costituzionale» che sta a dire «percezione ed accettazione delle indicazioni che forniscono (al magistrato) i precetti della Costituzione»; il che già impedisce, nella visione di Gatti, la distorsione dei provvedimenti del giudice e la consumazione di «iniquità o sopraffazioni» da parte di questi.

Ora: proprio questo prezioso, modernissimo ed acuto discorso di Gatti sul ‘fare politica’, anche da parte del magistrato, nuovamente rinvia al punto della centralità della Costituzione repubblicana, si diceva, in ogni ragionamento di Gatti sulla giustizia; e svela, al contempo, che, nelle pagine più attente di Gatti, il magistrato del pubblico ministero, anzi tutto, se egli è portatore di quella c.d. «coscienza costituzionale», non è più l’autoritario antagonista del difensore; l’avvocato è, piuttosto, antagonista non del magistrato della pubblica accusa ma «del potere statuale» ed in questo senso «…l’avvocato è in missione permanente, perché le sue conquiste siano mantenute e nuovamente raggiunte», come si legge nelle pagine del libro di Capudi del 1983 dedicato a Gatti; semmai, avvocato e pubblico ministero sono fisiologici contraddittori nella razionale dinamica del processo; dinamica nella quale, però, entrambi, avvocato e difensore, sono garanti dei medesimi valori costituzionali; convincimento al quale ben sarebbe debito, per chi rivesta la toga del magistrato, ispirare la propria attività professionale ed il  rapportarsi all’avvocatura.

Tale, dunque, deve intendersi il senso più profondo dell’evocazione che Gatti fa dei «valori costituzionali» dei quali, come egli scrive nel 1978, nel suo articolo L’Avvocato e la libertà, «… l’avvocato penale è il garante; valori costituzionali che appartengono a tutti e tutti interessano, onde (l’avvocato) realizza, non diversamente dall'accusatore, un irrinunciabile compito di pubblica utilità»; «il difensore non è il patrocinatore della delinquenza, ma del diritto e della giustizia in quanto possono diritto e giustizia venire lesi nella persona dell'accusato; … non è (allora) un caso che il diritto di difesa, di cui l'avvocato è il concreto realizzatore, trovi un riconoscimento solenne nella Costituzione della Repubblica».

5. Ora: è questa la chiave di lettura, che si va proponendo, del pensiero di Gatti, questa centralità politica dei «valori costituzionali» come fondanti ispiratori dell’azione di tutti i soggetti del processo; chiave di lettura che si sta qui a proporre, e che, ancora una volta, svela la modernità del pensiero di Gatti; chiave di lettura che va rintracciata, in filigrana, in ripetuti scritti che sono custoditi in questo libro che si va commentando.

È in questo senso, ad esempio, che deve cogliersi la corretta portata del pensiero di Gatti nello scritto L’avvocato non può essere impiegato dello Stato, del1978, laddove egli contrappone il suo punto di vista a quello, che va certamente storicizzato, di Marco Ramat, che ipotizzava, provocatoriamente, una generale «socializzazione dell'attività del difensore»; secondo Marco Ramat, l’avvocato deve diventare «pubblico dipendente per sostenere le ragioni di coloro che lo Stato medesimo decide di perseguire», dunque ben al di là di una gratuità del patrocinio a spese dello Stato[1]; ma per Gatti una simile idea della «socializzazione dell'attività del difensore» è errata perché è arbitraria l’illazione che l’avvocato non ispiri la sua azione, per l’appunto, ai valori costituzionali; ispirazione ai valori costituzionali che, quando sussiste, rende l’avvocato capace di restare immune «da vincoli, cedimenti e soggezioni ai “padroni del vapore”».

Ed ancora: pare poter dire in contrappunto: nessuna paura di un’arbitraria politicizzazione dell’attività del magistrato può nutrirsi se egli si ispira, al pari dell’avvocato, ai valori costituzionali; dunque, il giudice può bene «… interpretare la legge …secondo la sua formazione socio-intellettuale”, risponde Adolfo Gatti in un’intervista del 1976; e già un anno prima, nel 1975, nello scritto Nel giudice una coscienza apolitica ed obiettiva, Gatti aveva annotato che il magistrato «… non può ignorare la realtà sociale ed umana che la legge è diretta a disciplinare e che soggiace ad un continuo divenire; di qui l'esigenza», dice con spirito modernissimo Gatti, «… di una interpretazione evolutiva delle norme che tenga, cioè, conto di quella realtà e consenta un'applicazione più utile ed equa della legge stessa».

Sicché il magistrato che Gatti disegna deve essere partecipe della vita politica; questo magistrato è legittimato ad un’interpretazione evolutiva delle norme; il pubblico ministero, in specie, non è - di per sé - l’antagonista del difensore giacché ne condivide i valori costituzionali di riferimento; sicché tutt’altra è la figura di magistrato che Gatti avversa in un suo scritto del 1985, Avvocato, un ruolo difficile nella giustizia; egli indica in una parte della magistratura quella che «… ha accresciuto …una volontà di potere che si rivela attraverso forme di protagonismo, di straripamento dalle funzioni, di accettazione delle influenze politiche», laddove la funzione giudiziaria è «… funzione pubblica al servizio della gente»; mentre «la cosiddetta funzione di supplenza, diretta a colmare le carenze degli altri poteri statuali, non deve tramutarsi nella loro usurpazione al fine di combattere le deviazioni politiche; ciascuno è libero – e così il giudice – di pensare politicamente; ma il magistrato non deve frequentare le stanze del potere, diversamente rischiando di incorrere in parzialità e di determinare discredito».

Ed insiste ancora, mirabilmente, Gatti, cinque anni dopo, con lo annotare, nello scritto Le leggi son, ma chi pon mano ed esse?’, che la giustizia «… non costituisce un potere esercitabile come tale e cioè per fini individuali o politici; al contrario, la giustizia è un servizio prestato nell'interesse della comunità da coloro i quali se ne sono assunti il compito e, quindi, il dovere: un compito» implicante «un severo impegno morale e un dovere comportante … sacrifici che la società riconosce con particolare rispetto»; «… dunque un buon giudice è quel magistrato che opera con riservatezza, che in ogni caso rispetta la dignità delle persone inquisite, che valuta soltanto la prova con il rigore proprio del precetto penale»; parole che debbono, oggi, rivestire grandissimo rilievo, di nuovo, per chi rivesta la toga del magistrato, anche a costo di essere guardato con commiserazione in epoche di mai abbastanza censurato narcisismo dei soggetti del processo.

6. La profonda politicità, nel nobile senso più volte detto, che si insiste a voler cogliere nell’insegnamento di Gatti, infine e tuttavia, si rintraccia soprattutto nello scritto Nobile storia dell’avvocatura del 1997, ove, in ultimo, si legge ancora il senso fondante, nella costruzione del pensiero di Gatti, dei valori costituzionali quali parametro di riferimento per qualsiasi attore della giustizia: per il magistrato, lo si è detto; per l’avvocato, che si «erge a garante costituzionale» nella misura in cui opera per la tutela dei diritti individuali sanciti dalla Costituzione nei confronti del potere statuale; ma tanto non solo sul piano del processo ma anche – ed ecco il profilo più squisitamente politico del pensiero di Gatti –  «… nel vasto ambito della società civile».

Pagine mirabili, quelle dello scritto che si va citando, ove di grande pregio sono le parole che ripercorrono il ruolo dell’avvocatura nella Rivoluzione francese, in quella americana, nella Napoli spagnola, fino ad arrivare agli eventi contemporanei, ed in specie a quello che Gatti chiama il tempo del regresso dell’emergenza, dopo la prima opera attuativa della Costituzione, fase, per l’appunto, regressiva dettata dagli anni di piombo, ove, dice Gatti, alcuni istituti «... hanno osato sfondare i livelli di guardia che erano fissati nella codificazione del 1930».

Proprio la riflessione di Gatti sui guasti recati dalla stagione dell’emergenza dettata dai c.d. anni di piombo conferma la lettura che si insiste con il dare della modernità politica del pensiero di Gatti; pensiero che oggi suona come un viatico per chi, ben può dirsi, sia operatore del diritto che si occupi di terrorismo ovvero, mutatis mutandis, eserciti le sue funzioni in terra di criminalità organizzata: «Gli inutili sacrifici della libertà e, peggio, i sostanziali attacchi alle garanzie costituzionali … non servono a debellare il terrorismo mentre» ledono «… i principi dell’ordine democratico», scrive Gatti nel 1980, nel significativo articolo È inutile sacrificare la libertà per combattere il terrorismo; e nel successivo 1981, esaminando il tema dell’ergastolo nello scritto Il contratto sociale non riguarda la vita, nello studiare il diffondersi dell’eversione e della criminalità, Gatti scrive che «… si debbono affrontare le cause» di tale diffondersi della criminalità; cause  che  vanno rintracciate «… nel travaglio sociale … e nel disagio economico che affligge i nostri tempi; … per debellare la criminalità non occorre certo  agire sugli effetti di questi fenomeni, con una repressione … violenta e brutale che in ogni tempo si è rivelata incapace di debellarli».

Affermazioni che Gatti aveva già dato nel 1973, in La Costituzione ed i suoi codici, e che ancora più distintamente si rileva, in una chiave ancora più schiettamente politica, in uno scritto del 1976, La delinquenza è una malattia del capitalismo.

Scritto nel quale non si può che ritrovare confermata la chiave di lettura politica del pensiero di Gatti che si va proponendo: la causa del crimine non va certo rintracciata in una presunta «… permissività del sistema penale», ossia, «… per parlar chiaro, nella tutela dei diritti individuali attuata dalle leggi che lo hanno rinnovato»; la criminalità – così come l’Italia ha conosciuta già nella vita di Gatti e conosciamo tuttora nelle sue forme organizzate – «… è il frutto di una crisi della trasformazione della società …alimentata da negative condizioni storiche ed ambientali che un’arretrata Italia presenta assai più di altri paesi»; questa criminalità costituisce «una malattia endemica del capitalismo».

Una malattia endemica alla quale può immaginarsi, in via palingenetica, di farsi fronte attraverso una trasformazione della società; ma se si vuole ragionare, più realisticamente, su di una possibile riforma della vita collettiva, la via non può essere certo quella, ammonisce Gatti, del «sacrificio di principi che sono irrinunciabili nel mondo civile» o di «controriforme che comportano, a loro volta, altri e non minori rischi».

7. Debito, infine, per chiudere queste riflessioni, è un esercizio intellettuale; perché questa così moderna lezione di Gatti, nei termini che si è ritenuto di tratteggiare, è necessario che gli interpreti di tale pensiero portino oggi alle sue conclusioni, aggiungendo il frutto dei nostri anni alla preziosa impalcatura classica del pensiero di Gatti; o, vien da dire, svolgendo, alla luce dei nostri giorni e sino in fondo, il filo rosso del pensiero di Gatti.

Può, allora, dirsi che Gatti abbia bene delineato i confini teorici della questione del potere e della giurisdizione in un contesto paradigmatico come quello italiano; contesto nel quale, su di un piano più generale, deve ripetersi che appaiono travolgenti le spinte imposte dalla trasformazione economica globale; contesto nel quale appaiono netti i limiti, in specie, di una legalità formale espressiva di un diritto positivo frammentato, contraddittorio e contingente; una legalità che lascia, sempre più, privi di riconoscimento legislativo bisogni od interessi o li tutela soltanto sulla carta; laddove le istituzioni giuridiche – a partire da quelle della giurisdizione – rischiano di restare pure «forme» se non sono in condizione di agire sul piano delle diseguaglianze e della tutela della libertà.

In questo contesto, resta al giurista il convincimento che alla razionalità del garantismo, della quale già parlava Gatti nello scritto Nobile storia dell’avvocatura, del 1997, non esistano alternative.

Garantismo, nuovamente; non certo da confondere nel letteralismo formalistico o, addirittura, rovesciato nel suo contrario, e cioè nella strumentalizzazione cavillosa delle forme giuridiche a fini di sabotaggio delle funzioni proprie della giurisdizione.

Garantismo, piuttosto, a dirla con Luigi Ferrajoli[2], come parte costruttiva di una teoria democratica del diritto e della giurisdizione, teoria fondata sul principio di eguaglianza dei diritti fondamentali anche contro la maggioranza (la cui attuazione richiede un giudice davvero terzo); teoria fondata sulla struttura cognitiva del giudizio in un sistema improntato alla stretta legalità (il che richiede l’opera di un giudice indipendente); teoria fondata sul superamento della presunzione di legittimità di per sé dell’ordinamento (il che postula l’esercizio di un controllo di legalità anzitutto costituzionale demandato ad un giudice terzo ed indipendente).

Teoria democratica del diritto e della giurisdizione che, alla stregua di quanto si è sino ad ora osservato, pare tutta puntualmente delineata nel percorso compiuto attraverso gli scritti di Gatti. 

Orbene: il postulato della legittimazione di una simile giurisdizione garantista è ancora, come nel giuspositivismo classico, il principio di legalità.

Ma, oggi, la legalità, da esso teorizzata come specificamente propria dello Stato costituzionale di diritto, deve essere una «… legalità nuova e complessa: grazie al modello garantista, sono i diritti fondamentali a livello costituzionale i parametri di validità del diritto prodotto; in questo senso, il garantismo può ben essere identificato con la dimensione sostanziale della democrazia: la democrazia sostanziale è la sfera dei limiti imposti ai contenuti delle decisioni politiche, anche di maggioranza, dalle norme sostanziali della Costituzione che sanciscono i diritti fondamentali a tutela di ciascuno e di tutti»[3].

Certo: ben può dirsi che la conclusione di una simile ricognizione del contenuto concettuale del garantismo, tuttavia, proprio nell’attualizzare in una simile prospettiva il pensiero di Gatti, riporti ad una dimensione di pessimismo: pessimismo, in primo luogo, perché il modello garantista è un modello teorico-normativo, destinato a non essere mai pienamente realizzato e perché la giurisdizione ne risulta, a sua volta, lontana e perciò permanentemente viziata, al pari delle altre funzioni del potere, da margini irriducibili di legittimità: di più, proprio i termini della questione del potere svelano la debolezza del garantismo, tanto come teoria che come pratica, nel momento in cui esso è costretto ad agire solo come un limite e non anche come una parte costruttiva, come un progetto; è debole, il garantismo, se esso «… non offre continue indicazioni positive per una politica di protezione dei diritti fondamentali», anzitutto alla libertà personale, «… per una politica, cioè, rivolta a modificare variabili comportamentali, situazionali e sociali che influiscono o possono influire su di essi»[4].  

Una strategia dei diritti, dunque, e qui va ripetuto, pare ancora un modo di dare al garantismo una nuova positività, soprattutto attraverso una ripresa della lotta delle idee e la rimessa in campo di un forte pensiero critico, pronto ad interrogarsi anche sui limiti e sulla funzione del non controvertibile ampliamento del ruolo «creativo» della giurisprudenza[5]: altro spazio non pare davvero restare alla cultura giuridica garantista per raccogliere la sfida della complessità dei nostri tempi.

Una strategia dei diritti[6] che, in tali termini riletta, pare tutta accennata nello svolgersi pluriennale e modernissimo della riflessione di Gatti.

Strategia dei diritti, infine: altro spazio non resta, ai giuristi, soprattutto, di fronte alla crisi dei costituzionalismi ed alla difficoltà di elaborare nuove forme di efficace garanzia a sostegno dei diritti; nel che può ancora stare il contributo dei giuristi alla resistenza di una società aperta e conflittuale.



[1] Impossibile, in questa sede, piuttosto, esaurire, attraverso un simile richiamo, come quello contenuto nel testo, la complessità e ricchezza del pensiero di Marco Ramat sul tema fondante del ruolo dell’avvocatura; pensiero un’eco del quale può cogliersi, ad esempio, nella ricostruzione che di detta complessità compie G. Macchioni, Gli avvocati, la sinistra, la società (frugando, vent’anni dopo, negli scritti di Marco Ramat), Questione Giustizia, n. 3/2006, pp. 446 e ss.; ove, tra le altre, si evocano le parole dello stesso Ramat che compongono la sua relazione tenuta al Convegno Crisi delle istituzioni giudiziarie e terrorismo, Venezia, 13-15 maggio 1981.

Osservava, in quella sede, Ramat, con straordinaria ed acuta preveggenza, che «… non …pare dubbio che la società d’oggi richieda sempre di più l’intervento, la partecipazione del legale (...); e (si aggiunge), del legale di fiducia, affiancato tanto alla persona singola quanto alla formazione in cui la persona singola si sviluppa e si coinvolge. Ma questo bisogno non è soddisfatto dal vecchio avvocato, per la ragione fondamentale che l’uno esprime socializzazione e l’altro, l’avvocato, la rifiuta. Il conflitto è inasprito da contraddizioni specifiche. Va notato che il ceto arriva ad oltre quarantamila associati, con prospettiva di un ulteriore aumento, per ragioni note a tutti. Ora, un ceto così vasto porta con sé, dentro di sé, il momento, il bisogno della propria interna socializzazione… Lo stato sociale, nella sua corruzione, ha straordinariamente e artificiosamente trovato cento nuove sedi dove è “necessario” l’avvocato: ma sono state sedi sbagliate, rispetto ai bisogni della società e dell’uomo di oggi. Sedi in massima parte incrostate a vecchie imputazioni di interessi, pubblici e privati (pensiamo, ad esempio, alle grandi o piccole greppie costituite dal contenzioso rituale e spesso fittizio, cresciuto intorno alle assicurazioni per il risarcimento danni da circolazione stradale; pensiamo, ad esempio, alle procedure esecutive, dove pure il pullulare di prestazioni “professionali” è diventato addirittura patetico). Mentre mancano imputazioni di interessi nuovi, corrispondenti ai bisogni provocati dalla complessità assunta dalla società. È di rigore l’accenno ai cosiddetti interessi diffusi, ma anche dobbiamo pensare ad altri momenti, individuali e collettivi, in cui si esprime la necessità di aiuto legale da parte dell’uomo d’oggi: dai rapporti familiari alla tutela nei confronti dell’amministrazione, dal cittadino consumatore all’uomo-ape dell’immenso condominio. E qui, per queste autentiche necessità, non abbiamo nulla o quasi nulla. Manca il progetto politico per l’avvocato nuovo». Qualunque sia questo progetto, per Marco Ramat – che, con il suo acuto riflettere, svela, piuttosto, il convergere, sui medesimi temi, per quanto finora detto, dello stesso pensiero di Gatti –,  tale medesimo progetto dovrà mettere in luce «il nucleo nobilmente liberale della professione forense» che «… deve saldarsi… con il progetto di collocazione sociale della professione; il che implica, anche non secondariamente, una finalità, penetrata a fondo nel tessuto, di uguaglianza: sia tra gli avvocati sia, soprattutto, tra gli utenti della difesa… perché mancando l’uguaglianza di tutti i cittadini nell’esercizio della difesa... – come manca – è falso dire che tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge ed alla giustizia».

[2] I richiami al pensiero di L. Ferrajoli possono tuttora condensarsi, tra le tante, alle pagine, ancora di vigorosa attualità, di Per una storia delle idee di Magistratura democratica, in Giudici e democrazia, La magistratura progressista nel mutamento istituzionale, a cura di N. Rossi, Milano, 1994, p. 55 ss..

[3] Così L. Ferrajoli, op. cit..

[4] Tale è la acuta ed ancora vivida riflessione del compianto A. Baratta, nella prefazione a S. Moccia, La perenne emergenza, Napoli, 1995.

[5] Debito è il rinvio, su tale tema (tema «antichissimo… e che però da ultimo sembra essere tornato di bruciante attualità» – a dirla con R. Rordorf, Editoriale, Questione Giustizia (trimestrale), n. 4/2016 – tema che può certo solo evocarsi in questo scritto), alle analisi contenute nel numero monografico di questa Rivista, Il giudice e la legge, n. 4/2016 e, in specie, a L. Ferrajoli, Contro la giurisprudenza creativa, pp. 13 ss.; N. Lipari, Ancora sull’abuso del diritto. Riflessioni sulla creatività della giurisprudenza, pp. 33 ss.; A. Lamorgese, L’interpretazione creativa del giudice non è un ossimoro, pp. 115 ss..

[6] Inevitabile, allorché ad una ‘strategia dei diritti’ si alluda, la consapevolezza, che anche in tal caso non può che essere evocativa, della “guerra a bassa intensità” combattuta da Pietro Barcellona (tra gli altri scritti, Passaggio d’epoca, Genova-Milano, 2011) contro la strategia dei diritti intesa come panacea di ogni male, in una prospettiva teorica, invece, sensibile alle dinamiche sociali concretamente dispiegatesi negli ultimi decenni (prospettiva già mirabilmente ricostruita da A. Pizzorno, Il potere dei giudici, Roma-Bari, 1998). Su tutti tali temi, A. Carrino (a cura di), Diritto e politica nell’età dei diritti, Napoli, 2004, e, ivi, in specie, U. Allegretti, I diritti fondamentali tra tradizione statale e nuovi livelli di potere, pp. 11 ss.; P. Barcellona, La costruzione dell’Europa ed i diritti umani, pp. 33 ss..    

08/04/2017
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