Giudice finalmente,
arbitro in terra del bene e del male
Fabrizio de Andrè
L’etica, in quanto regola del comportamento, va discussa, più che insegnata. Ai magistrati spesso si chiede di incarnare una funzione, dunque l’etica sarebbe l’algoritmo del loro dover essere. Ma un tale algoritmo non esiste. Non resta, dunque, che barcamenarsi intorno ai casi di vita quotidiana, alla ricerca della propria cifra.
1. Parlare di etica è davvero difficile. Da magistrati abbiamo dimestichezza con i sistemi normativi, ma l’etica è un sistema normativo sui generis: non è codificato ed attiene alle regole del comportamento. E i magistrati, studiosi e “terzi”, non sono esperti di comportamento.
Peraltro, parlare in astratto di regole del comportamento, è difficile. C’è un’etica dei rapporti sentimentali, oscillante fra pudore e sfrontatezza. Un’etica dello sport, che si barcamena fra imperativo della semplice partecipazione e ambizioni di vittoria. E c’è un’etica del lavoro.
Avvicinandoci a noi, l’etica è quel particolare segmento di regole del comportamento posto al di fuori delle regole penali e deontologiche o disciplinari, con la peculiarità che se le regole penali e oramai persino quelle deontologiche o disciplinari sono regole espresse e -tendenzialmente- conoscibili, la regola del comportamento non è codificata e, in definitiva, è personale.
Inoltre, l’etica è legata al tempo e alla società in cui è calata. L’art. 54 della Costituzione in qualche modo introduce il rilievo dell’etica nello svolgimento delle funzioni pubbliche, laddove, al secondo comma, stabilisce che «I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore…».
Ma la società in cui fu calata la Costituzione era ancora diversa dalla nostra società contemporanea; essa era molto legata all’idea di funzioni pubbliche come potere: potere da regolare e da controllare, da esercitare correttamente e da collocare su binari sani e corretti. La società di oggi, invece, è maggiormente orientata verso l’esercizio di funzioni pubbliche come servizio da rendere.
Questo sposta anche il senso dell’etica della giustizia. Per questo si passa dall’idea di giustizia (e di magistratura) e quindi di etica legata soprattutto al prestigio e all’onore, all’idea di giustizia legata soprattutto alla credibilità e alla fiducia, alla responsabilità.
Ma se l’etica è la regola del comportamento corretto, ciascun uomo ha una sua etica, che lo aiuta e lo guida nelle relazioni e nelle attività che lo caratterizzano. Anche un ladro, a suo modo, basti pensare a famosi esempi letterari: Robin Hood, Arsenio Lupin; forse lo stesso Diabolik. Se dalla letteratura passiamo alla cronaca ci vengono facilmente in mente esempi non meno impegnativi: Julian Assange, ad esempio.
Se potessimo riassumere in un’espressione l’etica di un mestiere probabilmente potremmo trovarla nell’amore per il lavoro ben fatto. E’ per questo che è difficile riflettere sull’etica di una professione, se non attraverso modelli, comportamenti concreti. Tanto più per un magistrato, al quale si chiede di incarnare una funzione, non solo di lavorare in un cero modo, ma di essere in un certo modo.
Ecco, per un magistrato potremmo dire che l’Etica potrebbe costituire l’algoritmo del suo dover essere. Ma è evidente che non esiste un algoritmo del genere. Che ognuno ha il suo personale algoritmo, il suo personale punto di equilibrio fra tutte le diverse qualità e difetti, aspirazioni e paure.
E’ in questa prospettiva ed in questo contesto di riflessioni che va calato, ad esempio, il nostro codice etico, che ha visto la sua prima luce nel 1994, in piena crisi di moralità della vita pubblica e politica (o per meglio dire in piena acquisizione di consapevolezza di questa crisi di moralità) e si è arricchito nella forma più matura assunta il 13 novembre 2010, con successivi aggiornamenti. Tuttavia, da allora molte altre vicende allarmanti hanno caratterizzato la vita della magistratura, la sua brama di carriera, i rapporti fra essa ed il suo organo di autogoverno. Vicende la cui stigmatizzazione è affidata al solo punto 10 di tale codice etico, laddove forse andrebbe riscritto interamente lo statuto dei rapporti che regolano la relazione fra i magistrati ed il loro organo di autogoverno. Anzi andrebbe scritto, un tale statuto, ma non prima di avere esaminato lucidamente quello non scritto che ha caratterizzato questi anni più recenti. Ma senza voler esaminare il contenuto e le disposizioni di questo codice etico -operazione che ciascuno di noi può fare leggendolo per conto proprio- ciò che mi preme sottolineare è quella che a me sembra la sua portata strutturante, la sua aspirazione ad essere più un abito mentale che un insieme di regole, più un patto coi cittadini per consolidare la fiducia nella magistratura che una serie di disposizioni da rispettare. E’ chiaro, tuttavia, che un abito mentale si cala anch’esso sul corpo (o forse -meglio- sull’anima) di chi lo indossa e in qualche modo ne prende le forme.
Per nostra fortuna non c’è un modo giusto di essere giudice o pubblico ministero, anche se possiamo dire con certezza che ci sono diversi, molti, modi sbagliati di esserlo.
E’ per questa ragione che -per come la vedo io- l’etica non si insegna, ma si discute. Conseguentemente, non credo che sia utile muovere dalla teorizzazione di regole da calare nella vita di tutti i giorni, per verificare se funzionino. Ma, piuttosto, mi pare utile il contrario: riflettere sulla vita professionale dei magistrati di tutti i giorni e semmai valutare successivamente se sia possibile dedurne una direttrice o anche delle semplici indicazioni, o almeno darci modo di sentirci meno soli nel nostro modesto desiderio di essere semplicemente un buon magistrato.
2. Quindi provo a partire da alcuni esempi concreti o brevi racconti (veri o di fantasia, non vi toglierò il gusto di immaginarlo).
2.1. «Egregio Direttore, ieri l’Attorney General dello Stato dell’Illinois ha prima fatto arrestare il Governatore, poi in diretta televisiva nazionale ha letto brani delle intercettazioni telefoniche che dimostravano l’asta che aveva organizzato per il posto senatoriale di NN, che spettava a lui nominare. A commento ha aggiunto che gli esperti e navigati agenti FBI che hanno scoperto questa trama criminale sono rimasti sbigottiti e nauseati dall’audacia di questo signore e dalla chiarezza delle sue richieste truffaldine. E’ un esempio di malcostume politico come esiste in ogni paese, ma ciò che mi ha colpito come italiano è la denuncia forte e pubblica di questo scandalo da parte della magistratura inquirente americana, che si è assunta la responsabilità di far conoscere immediatamente alla gente questo caso di criminalità politica, leggendo le trascrizioni delle intercettazioni prima di fughe mediatiche. Che differenza con la magistratura nostrana che si distingue in lotte fratricide su inchieste politiche e che mai si è presentata in prima persona per dimostrare alla gente quella fiducia che si aspettano dall’organo preposto alla difesa delle loro garanzie costituzionali. Quando vedremo in TV un Procuratore Capo che legge le trascrizioni di intercettazioni telefoniche che provano efferati complotti a danno dei cittadini, invece di passarle sottobanco ai media?». La lettera prosegue con altre considerazioni su casta, politica e magistratura, ma noi possiamo fermarci qui, perché già vi è tutto ciò che può interessarci rispetto all’Etica della comunicazione e, direi, all’Etica della relazione.
Non importa quale sia il rotocalco o il quotidiano cui il lettore si rivolge (circostanza che pure ci direbbe qualcosa sulla direzione di queste considerazioni), ciò che mi sembra importante rilevare è quanto questa lettera spiazzi. Non tanto per la distanza che sottolinea fra la magistratura italiana e la società (sempre che il lettore in questione la rappresenti), perché questo, in fondo, ce lo aspettiamo e magari lo riteniamo inevitabile o forse addirittura necessario.
Questa lettera mette in evidenza alcune cose che forse noi magistrati non ci aspetteremmo. Mette in evidenza come uno dei rimproveri che vengono mossi alla magistratura italiana è quello di non scandalizzarsi, di non mettere abbastanza in evidenza la pervasività e gravità della corruzione e, in definitiva, di non assumersi la responsabilità della comunicazione diretta, preferendo (ipocritamente, lascia intendere il lettore) lasciare che le informazioni (intendendo per tali le intercettazioni) circolino “da sole” o addirittura preferendo fornirle “sottobanco” alla stampa.
Di più. Il lettore colloca questa mancata assunzione di responsabilità e di interlocuzione diretta col cittadino nell’ambito del rapporto di fiducia, indicando nella mancanza di fiducia verso i cittadini la causa e la ragione della scelta di non comunicare.
Questa lettera non mi piace. A parte la ingenua assimilazione fra intercettazioni e informazione, quasi che il contenuto delle intercettazioni riassuma ed esaurisca il nucleo più essenziale dell’informazione, la lettera non esprime ciò che io penso che la società dovrebbe chiedere ai magistrati e aspettarsi da loro.
Ma siccome non possiamo stabilire noi anche ciò che la società deve chiederci e aspettarsi da noi, con questa aspettativa è necessario confrontarsi.
Orbene, se una parte di tale aspettativa è certamente infantile e inaccettabile, perché nel suo riferirsi alla lettura pubblica in TV del contenuto delle intercettazioni per evocare lo scandalo pubblico allude ad una sommaria gogna mediatica unilaterale e senza il vaglio di un giudice (se non quello mediatico, appunto), che non può certo rientrare nei compiti di un Procuratore rispettoso della Carta Costituzionale e dei diritti di tutti i cittadini, anche di quelli indagati, vi è un altro versante di questa richiesta che non deve lasciarci indifferenti: la richiesta di un’informazione chiara, la richiesta di assunzione di responsabilità e la richiesta di fiducia.
Come è stato opportunamente evidenziato su questa rivista da Nello Rossi[1], per molto tempo la magistratura ha scelto e rivendicato con orgoglio l’arte di tacere e di parlare solo coi propri provvedimenti.
Tacere pone fuori dal circuito (e non di rado dal circo) della relazione comunicativa e in un certo senso è rassicurante. Tacere presuppone che la giustizia sia questione da addetti ai lavori e non possa essere spiegata agli estranei e comunque non da chi la amministra, per diverse buone ragioni: perché chi la amministra ha già il potere di scrivere la verità giudiziaria e dunque non può scrivere anche la propria versione della verità umana: non può recitare tutte le parti in commedia; ma anche perché spiegarla significherebbe renderne conto e rendere conto a chi non ha gli strumenti per comprendere questioni tecniche è l’anticamera di una giustizia dipendente dall’opinione pubblica, il contrario di ciò che un buon magistrato deve offrire: indifferenza all’opinione comune ed esclusivo rispetto del diritto e dei diritti. Tacere implica, inoltre, una radicale diffidenza verso il mondo dell’informazione, una sorta di hic sunt leones della terra della Verità.
Tutto ciò non è privo di una certa ragionevolezza. Non ho certo le competenze per giudicare il mondo della comunicazione, ma come è stato giustamente detto[2], «l’accesso della pubblica opinione alla giustizia penale non si pone in termini di opportunità, ma di necessità politica»: in un paese democratico una giustizia penale segreta semplicemente è inconcepibile e sarebbe destinata ad assumere in breve tempo le sembianze più oscure. Quindi il problema di individuare un punto di equilibrio fra giustizia e informazione, prima ancora che in termini di diritto o di dovere si pone in termini di necessità.
Una buona risposta all’autore della nostra lettera al Direttore mi pare l’abbia data sulla nostra rivista, inconsapevolmente, Giuseppe Pignatone, sulle pagine del numero 4/2018 dedicato al Dovere della Comunicazione. Pignatone partiva dalla sua particolarissima esperienza di Procuratore a Reggio Calabria e spiegava bene come e perché -in quella terra in cui anche pronunziare la parola ‘ndrangheta era un tabù- abbia maturato la convinzione che sia indispensabile spiegare cosa fa, e perché, la magistratura requirente. Ma ciò che, a mio giudizio, costituisce il punto nodale che emergeva dalla riflessione di Pignatone -tanto più significativo in quanto viene da un magistrato che tutti abbiamo conosciuto come riservato ed assai cauto nell’uso delle parole e dei rapporti coi media- è il dovere di rendere conto, il dovere di sottoporre il proprio operato al controllo sociale come contrappeso e corollario del principio di indipendenza e autonomia della magistratura. Una volta preso atto di questo dovere, far conoscere in termini essenziali e corretti ciò che gli organi giudiziari fanno è conseguenza del principio di responsabilità e del dovere di sottostare al controllo sociale ed implica l’accettazione delle critiche. Perché vi è un preminente interesse pubblico a comunicare la giustizia e a sottrarla alla segretezza.
E’ in questo alveo che va esaminata la tormentata (e spesso superficiale e ignorante) discussione intorno alle fughe di notizie. A questo proposito il cittadino autore della nostra lettera ribalta i termini comuni del discorso: se solitamente si critica la fuga di notizie e la si contesta alla magistratura, egli chiede invece al Procuratore di essere esso stesso autore di una sorta di discovery mediatica, anzi, di un vero e proprio processo a mezzo TV. E’ evidente che non è questo il ruolo del Procuratore e non è in questo che consiste il dovere di rendere conto e di informare; nel nostro ordinamento costituzionale e ordinario, in cui il PM appartiene all’ordine giudiziario e non è eletto dal Popolo, una tale condotta -a tacere per un momento degli aspetti etici e deontologici- incorrerebbe anche in una violazione penale, quanto meno dell’art. 684 c.p., in combinato con l’art. 114 c.p.p., per non parlare delle violazioni eventualmente riconducibili alla articolata disciplina in materia di privacy. Ciò che al magistrato -tanto requirente quanto giudicante- si chiede nell’informare e nel gestire i rapporti con la stampa è ben descritto nelle analitiche linee guida approvate dal CSM con la delibera del 11 luglio 2018 e si può riassumere in un dovere di trasparenza e parità di trattamento dei giornalisti e degli organi di informazione, di obiettività, di essenzialità e non ridondanza e soprattutto nel dovere di conservare uno sguardo laico, sempre consapevole del carattere relativo e incerto della verità, quanto meno di quella processuale, della provvisorietà e parzialità degli accertamenti; al tempo stesso consapevole del proprio ruolo, ma capace di vedere -e restituire- le cose per quello che sono, cioè conservando la consapevolezza che si deve essere imparziali come metodo di accertamento e sistema di valutazione, ma che non si è imparziali fra torto e ragione.
Ma la comunicazione di informazioni più o meno riservate non esaurisce affatto il tema del “cosa” e “come” si comunica e del “perché” si comunica: la comunicazione altro non è che una relazione e dunque facilmente il torrente dell’etica della comunicazione sfocia nel mare dell’etica della relazione.
Senza arrivare alla comunicazione durata realmente 26 anni ed oltre, fra un ergastolano ed il suo giudice, di cui narra Elvio Fassone[3] o alla sempre affascinante (e molto attuale) -ma romanzata- Lettera al mio giudice[ di Simenon, scritta dall’assassino di una giovane donna al giudice che lo giudicherà[4], l’etica della relazione[5] ci ricorda che particolarmente per chi incarna una funzione così nobile come quella del giudicare o comunque rendere giustizia è massimamente necessario ascoltare e farsi capire -in una parola comunicare- anche attraverso il proprio comportamento, il linguaggio, lo stile e ciò che soprattutto inconsciamente esprime il contenuto più autentico della relazione fra il magistrato ed il cittadino, imputato, parte civile, attore o convenuto, testimone o semplice curioso o banalmente utente, come si dice nel gergo freddo della burocrazia.
Non amo affatto e non mi sono congeniali i toni moraleggianti e dunque lascio a ciascuno la cifra della propria relazione quotidiana con coloro nel cui nome amministra giustizia, mi limito però a ricordare che se, indubbiamente, non è un buon magistrato chi va alla ricerca del consenso non è neppure un miglior magistrato chi si isola, dimenticando il senso complessivo e sociale di questo mestiere e le insidie che l’isolamento produce. A ciascuno il proprio punto di equilibrio.
2.2. «Cari colleghi, sento il dovere di dirvi che il notissimo imprenditore sul quale state indagando amministra da molto tempo per mio conto 50mila euro che ho investito con la sua consulenza e che mi hanno prodotto qualche discreto interesse». Alla ovvia, conseguente, domanda: «ma scusa, quando ed in che modo gli hai dato quei denari? Ve ne è traccia documentale?» il “collega” candidamente risponde: «No, mai, non gli ho dato una lira, me li amministrava sulla parola, fra gentiluomini…».
Provate a lavorare serenamente in un ufficio in cui il Procuratore, nel convocarvi nell’ambito di un’indagine che state conducendo su un grande finanziere agli onori della cronaca, vi riferisce questa circostanza. Che fareste?
I livelli di infrazione dei diversi sistemi normativi che attinge questa condotta sono potenzialmente molteplici. E’ del tutto evidente che a fronte della riscontrabile circolazione di denaro fra l’indagato e il titolare dell’organo inquirente, il “collega” (se così si può dire) protagonista della vicenda si preoccupa in primo luogo di cercare di tenere fuori il livello penale, offrendo quella che, evidentemente, gli sembra una giustificazione. In questo modo vi mette anche nella spiacevole condizione di spogliarvi del processo per trasmetterlo agli uffici competenti ex art. 11 c.p.p. o in quella -francamente indigeribile- di credergli e di tirare dritto; o nella più ottimistica delle ipotesi in quella intermedia di fare uno stralcio.
Ma al di là della sussistenza di un illecito penale (art. 318 c.p.? 319? 319ter?) o della ancora più probabile sussistenza dell’illecito disciplinare di cui alla lettera c) dell’art. 3 del Dlgs 109/06 e volendo, per un momento, far finta di credere al “collega” circa la natura dei denari che l’imprenditore finanziario gli ha trasferito, possiamo dire che nell’ottenere un prestito o un finanziamento o un investimento -chiamiamolo come preferiamo- “sulla parola” il collega non si è servito del suo ruolo istituzionale, strumentalizzandolo? O che nella sua vita sociale si sia comportato con dignità e correttezza, come prescrive il Codice etico?
Ecco, il senso dell’etica, forse, è quello di creare una reazione nel tessuto giudiziario, come quella che si produce in un tessuto organico quando un corpo estraneo lo penetra: perché funzioni è necessario che il corpo sia, appunto, estraneo. E’ compito, quindi, di ciascuna cellula del tessuto non girarsi dall’altra parte: per un magistrato che investe denaro a sua insaputa, potremmo dire parafrasando altre vicende note agli onori della cronaca, ce ne sono inevitabilmente molti di più che frequentano ricorrentemente e con naturalezza imprenditori e uomini della politica. Se il tessuto dà prurito sin da qui, si finisce certamente col grattarsi in tempo.
2.3. «Marco sono in difficoltà, domani, fra i tanti, hai un processo a carico di una persona che conosco e stimo. Mi ero ripromesso di parlartene e di chiederti -non di favorirlo, ma- di guardare le carte con attenzione, però ora che sono qui mi sembra sbagliato parlartene, per cui non ti dirò di chi si tratta, tanto tu sei sempre scrupoloso e preparato. Fai conto che non ti abbia detto nulla».
Questo discorso mi è stato fatto molti anni addietro, dal c.d. “collega della porta a fianco”, con cui peraltro avevo -e conservai- rapporti amichevoli. Era un collega particolare, fuori dagli schemi, ma lo consideravo una persona onesta. E’ stato l’unico episodio del genere della mia non breve vita professionale e ancora me lo ricordo distintamente, anche perché mi spiazzò. Non me lo aspettavo. Tanto più che questo discorso mi fu fatto anche alla presenza di una collega uditrice di cui all’epoca ero affidatario e a cui non fu facile dare spiegazioni e valutazioni che fossero formative, utili e non formali e probabilmente neppure ne fui capace: cercai semplicemente di mostrarmi (anche con me stesso) tranquillo, non disorientato e sicuro del fatto mio, vale a dire sicuro che avrei guardato le carte senza farmi influenzare dal discorso ascoltato. In realtà ero disorientato e non sapevo bene cosa fare.
Nella sua entità tutto sommato modesta, si tratta di un episodio piuttosto scivoloso e non a caso mi è parso utile evocarlo. A mio modo di vedere, la corretta “lettura” di questo discorso risente molto delle circostanze concrete in cui fu fatto, del modo in cui fu fatto e della natura, carattere, qualità e difetti -e, in definitiva, del grado di professionalità- dei due protagonisti. Non è infatti secondario sapere, ad esempio, se in quell’udienza fossero fissati uno o due processi, o piuttosto venti o trenta. Se io o quel collega fossimo soggetti abituati a discorsi di questo genere o addirittura adusi a raccomandazioni, anche uno solo di noi due. Financo il tono del discorso potrebbe risultare decisivo a comprenderne il senso.
Ma ho fatto questo esempio non per consentire di giudicare il significato di quello specifico discorso o la tenuta etica dei due protagonisti di quella vicenda; insomma non voglio fare il processo a quel fatto, anche perché sarebbe naturale e comunque inevitabile offrirvene un quadro tranquillizzante: i processi erano oltre due decine, il collega era noto per essere una persona onesta, anche intellettualmente, magari piuttosto esuberante, ma per bene, io sono -o comunque mi sento- un magistrato di buon livello e rigore professionale, eccetera, eccetera. Non è questo il senso di quello che è e deve restare un ricordo.
Voglio piuttosto condividere questo ricordo, farvi apprezzare cosa ha costituito per me o cosa costituirebbe per voi, aiutare me stesso, nel ricordo, a pesarlo, a valutarne l’ordinarietà o l’eccezionalità che esso ha costituito nella mia vita, aiutare chi legge a capire se, calato nella propria vita professionale, esso si presenta come comprensibile, ordinario, eccezionale o inaccettabile, perché credo che in fondo sia proprio grazie allo scambio di queste esperienze e riflessioni che cresciamo nell’elaborazione dell’etica, assai più che attraverso lo snocciolare le massime intorno ai confini tra illecito disciplinare e violazione etica o penale.
Allora, se così è, sarà utile sapere che nonostante i processi in quella udienza fossero tanti, io -non lì per lì, ma col senno di poi- sono convinto di avere capito a quale processo il collega si riferiva. Vi sarà utile sapere che, se ho colto nel segno, quel processo lo chiusi con una sentenza di non luogo a procedere ex art. 425 c.p.p.. Vi sarà anche utile sapere che la ragione per cui ritengo di aver capito quale fosse il processo -oltre che, ovviamente, riconducibile al mio “acuto” ragionamento logico-deduttivo costruito sulla base dei dati inerenti i processi trattati- è da ascrivere anche e forse soprattutto da un elemento intuizionistico e “di pelle”, vale a dire il modo vagamente complice con cui mi sentì guardato dal difensore di quel processo nelle pur rare occasioni di incontro nelle aule di giustizia nel corso dei giorni e mesi successivi.
Intendiamoci, magari fu solo una mia suggestione, magari avevo sospettato che il processo fosse quello e lessi i consueti modi un po’ complimentosi o invadenti di relazionare di quell’avvocato, che fino ad allora non avevo mai notato, come allusivi a qualcosa di non detto.
Certo è che a posteriori, per il caso che effettivamente colsi con precisione i segnali cui ho accennato, più volte mi sono trovato a pensare che forse sarebbe forse stato meglio disporre il rinvio a giudizio, anche se quando decisi ero piuttosto convinto della decisione presa. Ma qui vengono in gioco anche considerazioni sul tipo di istituto giuridico utilizzato e sul ruolo di filtro dell’udienza preliminare e sulla mia inclinazione a complicarmi la vita. Mi assolvo solo perché quando presi la decisione non avevo ancora messo a fuoco tutti i tasselli della vicenda.
Certo è che col senno di poi lo sguardo vagamente ammiccante di quell’avvocato nel corso degli anni mi ha disturbato non poco e in fondo mi ha anche allontanato dal collega, che forse non tenne il discorso -già scivoloso e quanto meno inopportuno- neppure solo per sé.
2.4. Un conoscente avvocato lavorista, nel corso di una piacevole cena a casa di un comune amico medico, mi racconta il seguente breve aneddoto: giunto per un importante processo in una cittadina di provincia della Sicilia, dotata di università, nella quale non era mai stato prima, entra in aula poco prima dell’inizio dell’udienza e si avvicina alla cattedra del giudice, presentandosi e salutandolo discretamente ed ottenendone una risposta altrettanto discreta; nel frattempo entra in aula l’avvocato di controparte, professore universitario di diritto commerciale nella locale università, e il giudice scende con fare ossequioso dalla propria “cattedra” e va incontro al professore tendendogli la mano e dicendogli testualmente: «che onore, professore, si accomodi»; il mio conoscente, originario di Torino, ma oramai romano da tempo, rimane per un attimo disorientato e tuttavia si riprende rapidamente e con qualche imbarazzo dice: «giudice sono in difficoltà, ma temo di doverla ricusare»; invitato dal giudice -a propria volta disorientato e assai meravigliato per non dire contrariato- a chiarirne le ragioni, il mio amico prospetta la cosa dal proprio punto di vista, semplicemente riassumendo quanto era appena avvenuto; il giudice tranquillizza il mio amico avvocato, ma soprattutto precisa che ove mai formalizzasse una tale ricusazione ed ove mai essa fosse inopinatamente accolta, qualsiasi altro giudice di quel Tribunale si troverebbe ad accogliere il professore in questione nel medesimo modo, avendo tutti i giudici di quel piccolo Tribunale studiato diritto commerciale con quel autorevole professore della locale università. Il mio conoscente non formalizzò la ricusazione e comunque perse la causa, ma evidentemente non è questo il punto.
L’episodio, senza allontanarci del tutto dal tema dell’etica della relazione, ci avvicina a quello dell’imparzialità del giudice, nella sua sostanza e soprattutto nella sua apparenza, tema che ha moltissime e anche più delicate declinazioni. Il famoso giudice terzo e imparziale di cui all’art. 111 Cost., così legato al principio di uguaglianza dei cittadini innanzi alla legge di cui all’art. 3 Cost..
Non sapremo mai se il mio amico perse la causa perché aveva torto, perché il professore di diritto commerciale aveva più argomenti o perché le parole usate dal professore suonavano meglio nel cuore del giudice.
In sostanza non sapremo se l’imparzialità di quel giudice ha risentito, prima ancora del legame affettivo o personale col professore, di una certa subalternità culturale o professionale verso il medesimo. Subalternità che il magistrato non può e non deve avere, evidentemente, verso nessuno, ma che altrettanto evidentemente può albergare nel suo cuore e in quanto tale può riconoscerla con valore solo lui e combatterla, al pari dei propri pregiudizi.
Certo è che il mio conoscente non uscì dall’aula dopo la lettura del dispositivo con la sensazione di avere giocato una partita ad armi pari. E se fosse stato accompagnato dal proprio cliente la sensazione di disagio sarebbe stata certamente più stridente, poiché se i sacerdoti che esercitano nei diversi ruoli il rito giudiziario hanno buona consuetudine e buoni strumenti per non attribuire soverchia importanza a ciò che appare, anche perché non ne pagano il costo diretto, altrettanto non può dirsi per chi vive direttamente sulla propria pelle le conseguenze delle decisioni e si accosta a questo rito pieno di comprensibili e giustificate aspettative, che sarebbe bello potessero rimanere intatte anche dopo l’incrocio con la giustizia quotidiana con la g minuscola.
Per casi come questo -come per la più gran parte dei casi in cui è messa in discussione l’apparenza di imparzialità- non vi sono soluzioni esterne o oggettive; è affidata a ciascuno la capacità sostanziale di affrancarsi dalle proprie subalternità o dai propri pregiudizi e la sensibilità di comprendere cosa possa mettere in dubbio questa apparenza di imparzialità, così preziosa per preservare la credibilità della giurisdizione e della stessa magistratura. Senza cadere nell’ipocrisia.
In ogni caso, come dissi anche a lui, la scelta di non formalizzare l’istanza di ricusazione fu centrata, atteso che la situazione certamente non ricadeva (né avrebbe potuto) nei casi di obbligo di astensione previsti dal codice di procedura civile ed al più si può ritenere che quel giudice non abbia curato adeguatamente la propria immagine di imparzialità, violando l’art. 9 del codice etico, ma la ricusazione non sarebbe stata certo accolta.
2.5. In Sogno numero due, Fabrizio de Andrè -la cui poetica intorno alla giustizia giustificherebbe certamente ben altro che un riferimento in un articolo su una rivista- mette in bocca al giudice protagonista della canzone due diverse riflessioni, legate fra loro, estremamente significative e interessanti. Il testo è un testo complesso e denso di spunti da approfondire, perché costruisce una metafora del potere intorno ad una figura di imputato piuttosto particolare: un impiegato che aveva realizzato un clamoroso attentato mortale; ma per ciò che ci interessa vi sono due diversi passaggi che mi paiono utili ai nostri fini: nell’ambito di un discorso intorno al potere, ad un certo punto De André fa dire al giudice: «Imputato! Il dito più lungo della tua mano è il medio. Quello della mia è l’indice. Eppure, anche tu hai giudicato. Hai assolto e hai condannato, al di sopra di me». Più avanti il giudice prosegue, sempre rivolto all’imputato: «Ascolta! Una volta un giudice come me giudicò chi gli aveva dettato la legge: prima cambiarono il giudice e subito dopo la legge. Oggi, un giudice come me, lo chiede al potere se può giudicare. Tu sei il potere. Vuoi essere giudicato? Vuoi essere assolto o condannato?»
Un esame completo del testo di questa canzone sarebbe oltremodo interessante e ci porterebbe a parlare di politica, potere, diritto, libertà, democrazia e populismo, perché, inserito in un discorso più ampio narrato nell’album[6], racconta dell’escalation apparentemente anarchica di un semplice impiegato, in realtà anch’essa seguita, orientata e, infine, giudicata dal potere; però l’esame completo ci porterebbe certamente lontano del tema dell’etica.
I passaggi che ho scelto, invece, mi consentono di fare qualche riflessione in tema di etica, perché, con la sua potenza poetica, De André evoca la leva che muove il giudicare o per meglio dire esprime il senso di ciò che non dovrebbe essere il giudicare e che tuttavia corre perennemente il rischio di essere.
Di più. Questo testo esprime molte cose -che cercherò sinteticamente di evidenziare- ma innanzitutto esprime limpidamente i due estremi fra cui oscilla l’amministrazione più oscura del potere in generale e dell’attività del giudizio in particolare: l’esprimere forza e superiorità con i deboli e debolezza e cedevolezza con i forti.
In sostanza il giudice della canzone dice all’imputato: «Siamo diversi. Io e te siamo diversi. Non apparteniamo allo stesso genere. Tu hai nel medio il tuo dito più lungo, io nell’indice. Tu sei nato per esprimere sentimenti e comportamenti bassi, elementari e, in definitiva, indecenti, io per elevarmi nel giudizio, separando il bene dal male, anzi sono nato per decidere cosa è bene e cosa è male. Il bene e il male non esistono prima che io li abbia rivelati; invece, tu hai giudicato, col tuo gesto hai assolto e condannato sopra di me, questa è, prima di ogni altra, la colpa di cui ti sei macchiato»: la forza innanzi ai deboli, non condividiamo neppure la stessa natura.
Io non credo che sia comune, fra chi amministra la giustizia, sentirsi Dio. Però guardandomi intorno e soprattutto guardandomi dentro ho la sensione che qualche problema di taratura dell’Io non sia del tutto assente e comunque sia il fantasma con cui dobbiamo fare i conti. Ebbene, questo, a mio giudizio, costituisce il nocciolo più essenziale dell’etica del giudice (nel senso ampio del termine, che riguarda certamente anche il PM allo stesso modo): banalmente, non perdere mai la consapevolezza che le persone nelle cui vite rovistiamo e che così profondamente stravolgiamo sono come noi, anche quando sembrano così radicalmente e irrimediabilmente diverse condividono comunque la nostra natura. E questa banale considerazione non ci deve guidare e aiutare solo nel momento del giudizio, ma anche nel nostro essere uomini da ciascuno di quegli incontri in poi, perché ciascuno di quegli incontri ci aiuta a vedere meglio cosa o chi avremmo potuto essere e non siamo stati e, in definitiva, chi siamo; ci dice qualcosa di noi stessi, tanto in senso individuale quanto in senso sociale o esistenziale.
E veniamo alla debolezza con i forti, espressione che coglie una deviazione anche peggiore dall’etica del giudicare. Ebbene in questa direzione De André risulta, se possibile, anche più disincantato e feroce nel disegnare le inguardabili fattezze di chi giudica.
Seguendo e sviluppando, infatti, il pensiero secondo cui chi giudica è posto al di sopra della gente comune e non ne fa parte, precisa che a propria volta chi detta la legge è posto ancora al di sopra di chi giudica ed è il vero detentore del potere, della cui volontà (o arbitrio, o capriccio) il giudice è solo un mero esecutore.
E se anche una volta effettivamente accadde -racconta De André- che un giudice osò giudicare chi aveva dettato la legge, la sua ὕβρις fu punita cambiando prima il giudice e poi, per sicurezza, anche la legge, così che di quel gesto contro natura non restasse più non dico il precedente, ma neppure il ricordo.
Per questo – aggiunge - oggi il giudice lo chiede al potere se può giudicare e se sei imputato tu che hai il potere lo chiede a te: vuoi essere giudicato?
Quanto attuale suona questa proposizione? Se si hanno in mente alcuni dei recenti dibattiti intorno alla sussistenza di un preminente interesse pubblico alla violazione della legge penale verrebbe da dire di sì: suona attuale. Del resto, se si esaminano alcuni fra i più recenti disegni di legge all’esame di questa Legislatura ci si rende conto facilmente che non c’è nulla di più contemporaneo del passato.
Calato, invece, nella nostra vita di magistrati, cioè preso nel suo rivolgersi al giudice come entità astratta e dunque alla comunità dei giudici ed in definitiva alla magistratura come corpo, dubito che questo monito, questa preoccupazione, sia veramente attuale.
C’è stata, senza dubbio, un’epoca in cui la magistratura ha avuto la preoccupazione di non disturbare il Potere e chi detta le leggi. Ma altrettanto certamente ne è seguita un’altra in cui questa preoccupazione è stata contrastata, marginalizzata, combattuta. E tutto sommato non credo che questo pericolo oggi sia così effettivo, anche se un ritorno indietro nel tempo è sempre in agguato, soprattutto se si ha la memoria corta. Se anche è vero che permangono alcune limitazioni all’accertamento penale nei confronti di chi appartiene agli altri poteri dello stato, in generale i conflitti sono stati per lo più giurisdizionalizzati, sia pure con talune inadeguatezze e anacronismi. Del resto, la nostra Carta costituzionale ha già previsto tutto e dettato le regole del punto di equilibrio più maturo fra i diversi valori in gioco. In linea di massima sotto questo profilo non riconosco come un pericolo effettivo ed attuale la magistratura descritta nei versi che ho citato, ma certamente quell’interpretazione del ruolo del giudice descritta da De André deve costituire per noi magistrati il faro, in senso negativo: non il faro del porto, ma il faro dello scoglio in mezzo al mare, quello che ci indica il punto da cui tenersi il più lontano possibile.
3. Ma forse più che la giustizia dei grandi processi di terrorismo -come l’attentato di Sogno Numero 2- è la giustizia del quotidiano che rischia di farci allontanare dalla nostra aspirazione di cui parlavamo all’inizio: quella di essere semplicemente un buon giudice, un buon magistrato.
La giustizia di quelle che ci sembrano piccole vicende di routine, magari al margine di una giornata di turno di convalida di arresti o di fermi o dell’esame di un ennesimo testimone di una controversia per un sinistro stradale o per un’azione di reintegrazione o di spoglio che conclude la faticosa udienza di un giudice civile.
Come si declina l’etica della relazione nel nostro concreto quotidiano lavorativo, fatto di cose che proprio non funzionano, stampanti che si inceppano, personale che manca ed è vecchio e logorato, numeri infronteggiabili? Piccole vicende, per lo più destinate a rimanere ignote, nell’ombra e che magari per qualche accidente imprevisto entrano inaspettatamente nel cono di luce dei riflettori, forse perché il testimone convocato per la terza volta e fatto accompagnare dalle forze dell’ordine perché non voleva più tornare, senza essere sentito neppure in quest’ennesima occasione, ha perso la testa; o come il marito che all’udienza di separazione estrae la pistola e spara alla moglie.
Fin dove possiamo consentire che la routine burocratica ci snaturi e snaturi il nostro lavoro trasformandoci in travet, magari come l’operaio che è nell’ultima mezz’ora di lavoro che abbassa la soglia dell’attenzione e si distrare nel momento sbagliato, perdendo una mano, o la vita?
Quanti di noi -non solo noi romani che ne siamo toccati da vicino- guardando il bel film su Stefano Cucchi, si sono guardati allo specchio e interrogati, osservando la rigorosa ricostruzione del burocratico interrogatorio di convalida riprodotto nel film, magari dicendosi «A me non può succedere».
E invece può succedere. Non deve succedere, ma può succedere. La verità è che può succedere di sbagliare anche a chi ha l’abitudine di guardare negli occhi l’imputato che interroga e di ascoltare effettivamente ciò che dice. Anche a chi cerca di non dimenticare mai l’importanza della funzione che svolge e di metterci non dico tutto ciò che ha, ma almeno la propria dimensione umana e non quella impiegatizia.
Qual è, dunque, la dimensione dell’etica nella routine? Verrebbe da dire che non c’è. Che, quindi, non può esserci routine, non c’è spazio per la routine per un magistrato. Oppure qualcuno può pensare di avere la capacità, l’istinto, l’intuito di capire quale vicenda può inaspettatamente entrare nel cono di luce di cui parlavamo prima. Ma è un’illusione.
In realtà non ho una risposta, perché il nostro quotidiano professionale è sotto gli occhi di tutti noi. L’unica cosa che mi viene in mente è l’imperativo di rispettare sé stessi, prima ancora degli altri: non lasciare che l’abbrutimento del quotidiano e dei numeri ci faccia mancare di rispetto a noi stessi e alla nostra più elementare idea di giustizia e di lavoro fatto decorosamente. Ho chiaro anch’io che si tratta di un obiettivo molto difficile e forse nella sua interezza impossibile da raggiungere, ma già percepire la violenza nei nostri stessi confronti di ogni occasione in cui le circostanze ci hanno messo in condizione di non rispettare neppure quel minimo etico è una premessa importante per ribellarsi alla logica della catena di montaggio nella manutenzione dei diritti.
Per concludere, la migliore sintesi di ciò che ho cercato confusamente di esprimere mi pare contenuta in una frase di Antonio Brancaccio, Primo Presidente della Corte di Cassazione e Ministro dell’Interno nella seconda metà degli anni ’90 e soprattutto grande magistrato: «I giudici mentre giudicano sono giudicati e quanto più sapranno assumere il ruolo di giudicati tanto meglio sapranno svolgere la funzione di giudicare».
Se della necessità di essere giudicati era convinto il Primo Presidente della Corte di Cassazione, possiamo accettarla serenamente anche noi.
[1] Il silenzio e la parola dei magistrati. Dall’arte di tacere alla scelta di comunicare, in Questione Giustizia, n. 4/2018.
[2] Glauco Giostra, Processo penale e mass media, in Criminalia, 2007.
[3] Elvio Fassone, Fine pena: ora, Sellerio 2015.
[4] Georges Simenon, Adelphi, 1990.
[5] Si veda anche Elvio Fassone, Un esempio virtuoso di comunicazione, l’etica della relazione, in Questione Giustizia 4/2018.
Rielaborazione da una relazione tenuta a Scandicci per la Scuola Superiore della Magistratura nel 2019