1. La generazione di giuristi alla quale appartengo, che ha messo piede all’Università intorno alla metà degli anni Cinquanta, ha accompagnato (e, in qualche misura, ha anche concorso a determinare) quella che a ragione può definirsi una vera e propria rivoluzione nell’esperienza giuridica: il passaggio del diritto da scienza teoretica a scienza pratica.
Si tratta di una rivoluzione che continua a non essere avvertita dalla cultura corrente, riflessa nei mass-media e moltiplicata dai talk-show televisivi, e che paradossalmente rimane ancora estranea alla stessa struttura didattica dei nostri corsi universitari. Da qui nasce, a mio giudizio, la difficoltà con la quale quotidianamente si misura il giudice nell’esercizio della sua funzione e su questo si fonda altresì il discredito che accompagna, nei modelli culturali correnti, l’attività giurisdizionale.
Assumere il diritto come scienza teoretica significa assegnargli un oggetto individuato, chiaramente definibile prima di ogni modalità di svolgimento dell’esperienza: un apparato di norme riconducibili all’autorità dello Stato che ne garantisce l’attuazione e ne assicura l’osservanza. Rispetto a tali norme non è consentito alcun giudizio di contenuto; il destinatario è chiamato solo ad osservarle o, in ipotesi, a violarle; esse sono valutabili solo in chiave di validità formale e la loro applicazione è esclusivamente riconducibile alla coppia obbedienza-disobbedienza.
Il metodo di una scienza teoretica è un metodo descrittivo e oggettivante, in funzione del quale il valore della certezza si sostituisce al dubbio come principio etico e gnoseologico del sapere, finendo per occupare l’intero orizzonte conoscitivo, con conseguente approdo al dogma della avalutatività della scienza giuridica.
In questa chiave il giurista, quale tecnico delle norme, ha solo la funzione di chiarirne il dettato, di interpretarle, al massimo valutando l’evoluzione semantica dei termini utilizzati dal legislatore.
Come mi è accaduto già altra volta di ricordare, uno dei massimi giuristi del secolo scorso, Francesco Santoro Passarelli, ancora a metà degli anni Ottanta, quando la Costituzione era ormai in vigore già da oltre un trentennio, proclamava: «Il giurista può mettere a frutto la sua esperienza giuridica per contribuire alla realizzazione della giustizia o di un assetto più razionale o più conveniente, ma con la chiara consapevolezza che va oltre il suo compito di giurista, cioè di interprete».
In sostanza, secondo il modello culturale che ci è stato insegnato, perseguire la giustizia, ricercare la razionalità può essere un nobile scopo, ma non ha nulla a che fare con la funzione del giurista (e segnatamente con quella del giudice).
Amministrare la giustizia significa tradurre in regole riferite al caso concreto che si tratta di disciplinare la previsione astratta contenuta nel testo normativo, cadenzare cioè quel passaggio che, secondo la formula che ci è stata insegnata all’Università, si coniuga nel rapporto tra fattispecie astratta e fattispecie concreta.
Il diritto, in sostanza, per essere diritto, deve scendere dall’alto di un atto di posizione individuabile, definibile, preesistente rispetto a qualsiasi procedimento attuativo, un atto nei confronti del quale non è consentito all’operatore alcun giudizio di contenuto.
E’ il modello che, con felice immagine, Paolo Grossi ha definito del monismo giuridico, figlio dell’ideologia della codificazione, che assegnava al legislatore statuale il potere esclusivo di valutare le attese della società disciplinandole secondo rigidi criteri classificatori.
2. Il processo di costituzionalizzazione del diritto privato – che, non a caso, ha incontrato fortissime resistenze nella cultura giuridica corrente e che la generazione alla quale appartengo (quella che Scoditti ha definito dei «giovani civilisti degli anni Sessanta») ha certamente significativamente concorso ad attuare – ha radicalmente sovvertito questo modello, in parallelo con il moltiplicarsi delle fonti di produzione dei precetti.
Si è venuto ormai cancellando il paradigma dell’esclusiva statualità del diritto, sia dall’alto di una miriade di fonti sovranazionali che dal basso del c.d. soft law, cioè di un diritto che nasce da strumenti flessibili, non vincolanti e privi di sanzione, e tuttavia produttivo di effetti pratici che contribuiscono a minare l’egemonia del diritto legislativo.
Chi è chiamato oggi ad applicare il diritto (e segnatamente il giudice) non si trova più di fronte un oggetto definito da acquisire nella sua datità, ma ad un oggetto da ricercare, da individuare.
Mentre in passato era definito il punto di riferimento normativo, oggi la prima operazione che il giudice è chiamato a compiere riguarda la ricerca della fonte dalla quale fare discendere la regola del caso che si tratta di disciplinare.
D’altra parte, il processo di costituzionalizzazione ha definitivamente rotto il paradigma della fattispecie. La costituzione, nella sua parte introduttiva, che contiene i c.d. “principi fondamentali”, non è formulata per norme, ma appunto per principi, cioè fini da realizzare, valori da attuare, esiti da perseguire. Essi non hanno né la rigidità né la secchezza del comando; la loro naturale elasticità li rende permeabili ad una dinamica sociale che la logica di una legge quale fonte esclusiva del diritto tendeva ad incapsulare e ad irrigidire.
Si tratta appunto di un diritto ex parte societatis, che non è possibile far discendere dall’alto di atti di posizione, ma che è necessario far salire dal basso di una pluralità di atti di riconoscimento.
Si tratta di principi che non solo si sono venuti incrementando nel corso degli anni, al di là di ogni processo di revisione costituzionale, ma che spesso non risultano nemmeno espressamente formulati. Non a caso la Corte, quando ha affermato che esistono principi supremi dell’ordinamento sottratti alla stessa revisione costituzionale, si è ben guardata dall’elencarli affidandone la stessa individuazione a coloro che sono chiamati a farne attuazione.
Siamo appunto passati dal monismo di una scienza teoretica, che definisce a priori il proprio oggetto, al pluralismo di una scienza pratica, che ha riguardo alle modalità di svolgimento di una prassi, che non può essere letta secondo schemi classificatori predefiniti.
Il suo sapere non è un sapere veritativo e descrittivo, ma un sapere fluido, in linea con il metodo di quelle scienze che assumono a loro oggetto la realtà di un esperienza vissuta, la storia nel suo farsi.
Il pacificante modello santoriano, che collocava il giurista, almeno nell’esercizio della sua funzione, come spettatore passivo di una realtà da altri dettata, è venuto meno. La legge non è più oggetto esclusivo dell’analisi di chi è chiamato a fare professione del diritto. E ciò non solo perché la legge, come era impensabile in passato, è di per sé sottoposta ad un giudizio di costituzionalità che può in radice cancellarne il vigore, ma soprattutto perché – come infinite volte ha ribadito la Corte costituzionale introducendo un criterio che ormai va progressivamente penetrando anche nei procedimenti interpretativi del giudice ordinario – la norma va applicata al caso, va intesa nella sua portata operativa, in chiave di ragionevolezza.
3. Il principio di ragione diventa l’ottica fondamentale della giuridicità, ma è un’ottica che sposta il punto di riferimento dell’analisi. Oggi non è più possibile limitarsi a porre il fondamento della regola nella legittimità formale della sua posizione e nell’autorità di chi è autorizzato a dettarla. Oggi si ritiene che la regola, non più assunta in astratto, ma riferita alle peculiarità del caso, debba essere supportata da motivazioni e argomentazioni tali da renderla accettabile alla comunità di riferimento, proprio a cagione della sua ragionevolezza, intesa questa, per riprendere una suggestione di Esser, come capacità di rispondere agli “orizzonti di attesa” della collettività. Se cioè ci si colloca nell’ottica non di una regola desunta da atti di posizione, ma determinata da atti di riconoscimento, non è più sufficiente accontentarsi di una correttezza procedurale, ma è necessario riferirsi appunto ad un fondamento di ragione, che si tende ad individuare nel rapporto di congruenza tra le esigenze del caso ed il quadro dei principi costituzionali, peraltro assunti nella consapevolezza di una loro duttilità storica non cristallizzabile nella fissità di enunciati.
Il quadro è radicalmente mutato. Un tempo c’era un’auctoritas che si presentava essa stessa come ratio. Oggi c’è una ratio che fa da resistenza all’auctoritas. Non è più l’autorità che fa la legge, con la conseguenza che chi fa professione del diritto debba limitarsi a riprodurre una realtà già data, in termini sostanzialmente analoghi a quelli con cui lo scienziato della natura conosce il proprio oggetto, ma questa deriva la sua vincolatività non da una preesistente sostanza normativa, ma dal modo d’essere di un tessuto relazionale teso ad attuare valori sostanziali e procedurali.
Intendere il diritto come scienza pratica significa ricondurlo all’articolato svolgimento di una prassi, nella quale è inevitabilmente implicato anche l’operatore, quale che sia il ruolo che egli è chiamato a svolgere nello storico dispiegarsi dell’esperienza giuridica.
In un’ottica di questo tipo la scienza giuridica si manifesta in un sapere costruttivo, valutativo, controversale, ipotetico, dubitativo, un sapere che non può ambire a verità e dimostrazione, ma deve accontentarsi di verosimiglianza e di persuasione e che, proprio per questa sua natura epistemologicamente fragile, esige un impegno argomentativo particolarmente forte, affidandone l’attuazione proprio al giudice.
Ebbene, questa rivoluzione epocale, che ha radicalmente sovvertito il modo di intendere il diritto, non è stata in alcun modo recepita dai modelli culturali correnti, che continuano a reiterare il paradigma di un diritto dettato dal potere costituito, ancorché questo sia poi insistentemente criticato siccome del tutto disattento alle esigenze della società civile.
Le trasmissioni televisive di Bruno Vespa o quelle radiofoniche di Emanuela Falcetti (per fare il più immediato degli esempi), pur periodicamente supportate dal parere di pseudo-giuristi, non fanno che riproporre insistentemente lo schema di un positivismo fine a se stesso. Ma – ed è quel che è più grave – il passaggio del diritto da scienza teoretica a scienza pratica non risulta, a mio giudizio, neppure recepito negli schemi didattici delle nostre Università, che continuano ad adottare manuali, giunti persino alla cinquantesima edizione, che sono stati pensati con riguardo ad una realtà radicalmente diversa e che non possono essere aggiornati soltanto attraverso immissioni marginali in una struttura ormai oggettivamente superata.
In una analisi da me recentemente compiuta di tutti i manuali istituzionali oggi adottati nelle Facoltà di giurisprudenza, ho accertato che nessuno indica gli artt. 1 e 12 delle preleggi come meri reperti archeologici ormai caduti in desuetudine. Si tenta, anzi, di canalizzare nella struttura del primo le fonti sovranazionali e quelle costituzionali, senza rendersi conto che né le une né le altre sono riconducibili alla logica di una gerarchia: non le prime perché impongono un coordinamento caso per caso che non può essere ricondotto a criteri uniformi; non le seconde, perché si collocano in un’ottica radicalmente diversa rispetto a quella del codice e richiedono comunque un reciproco meccanismo di riequilibramento che esclude in radice l’applicazione uniforme di un dettato.
Quanto poi all’art. 12, che si trova purtroppo ancora infinite volte richiamato nei repertori di giurisprudenza, esso deve ormai ritenersi del tutto privo di significato.
Basti dire che “i principi generali dell’ordinamento”, che, nell’ottica codicistica, rappresentavano la valvola di chiusura per il procedimento interpretativo, ma che andavano tuttavia ricavati per astrazione dal sistema delle norme, non hanno nulla a che fare con i principi costituzionali, che oggi sono semmai presupposto fondativo delle norme ordinarie.
Senza dire poi del principio di ragionevolezza, sul quale quasi tutti i manuali elegantemente sorvolano, salvo eventualmente a ridurlo al paradigma delle clausole generali, con ciò sovvertendone la natura e la funzione, perché la si degrada da criterio di rilevanza sociale che giudica della stessa legittimità della legge a procedimento interpretativo che trova nella legge il suo fondamento giustificativo.
Ho detto di recente – e non credo di aver esagerato – che, a giudicare dai manuali circolanti nelle nostre Università, è come se si pretendesse di spiegare la fisica quantistica utilizzando i moduli della fisica newtoniana.
4. Su questi presupposti formativi e in questo conteso culturale è agevole intendere le difficoltà che incontra un giovane che si trovi ad affrontare il difficile compito di giudice.
Un tempo egli era chiamato a svolgere una funzione assimilabile a quella del farmacista. Doveva prendere dagli scaffali delle norme la norma corrispondente ad una ricetta da altri confezionata ed offrirla all’utente. L’essenziale era non sbagliare scaffale. E l’errore si riteneva abbastanza facilmente verificabile nel confronto tra il contenuto della ricetta e la composizione del prodotto offerto (quel processo che appunto i giuristi riconducevano al paradigma fattispecie astratta - fattispecie concreta).
Oggi non è più così. La Corte costituzionale continua martellantemente a ripetere che i testi legislativi vanno letti e intesi in funzione dei contesti ai quali debbono essere applicati, che i principi vanno ricavati dalle pratiche interpretative di una intera comunità politico-istituzionale. Ma nessuno ha spiegato a quel giovane giudice come si analizzano i contesti e perché e come il giudice è dentro non semplicemente al processo applicativo di un diritto dato, ma semmai al processo formativo di un diritto in fieri. Nessuno gli ha insegnato che il giudice, lungi dal limitarsi a dire ciò che è stato detto, deve misurarsi con vari gradi di legalità che convivono e si sovrappongono conferendo al diritto un tasso di porosità e di fluidità che è del tutto estraneo alla corrente cultura giuridica.
I giudici, in sintesi, per esercitare correttamente la loro funzione, devono inventarsi strumenti argomentativi che non appartengono al patrimonio della loro formazione universitaria. E non tutti riescono a farlo, cercando di barcamenarsi tra le sedimentazioni di un positivismo duro a morire e le spinte di una realtà che non è certamente riducibile ai suoi schemi classificatori. Né, d’altra parte, tutti hanno la sensibilità e la cultura che ha avuto il cons. Giusti quando, con la sentenza sul caso Englaro, ha offerto un esempio paradigmatico di come debba essere lungimirante lo sguardo del giudice oggi per poter davvero rendere giustizia, di come debba spaziare molto al di là di un dettato, ben oltre i delineati confini di un ordinamento statuale.
In sostanza, il giudice, nel momento in cui scopre che il diritto non scende dall’alto di un’imposizione ma sale dal basso di una condivisione, deve trovare, spesso da solo, gli strumenti argomentativi idonei a far intendere che egli ha assunto la ratio e il logos a stelle polari per il proprio procedimento ricostruttivo, rompendo gli schemi della sua formazione universitaria, nonché i luoghi comuni della cultura corrente.
D’altra parte è proprio l’atmosfera creata – come dicevo – da un complessivo contesto culturale che continua ad operare da freno per un corretto e libero esercizio della giurisdizione.
Non solo i mass-media ma anche veicoli comunicativi di più raffinato livello riservano ai giudici un sistematico e martellante discredito perché quella che è l’essenza della loro funzione viene intesa come abuso. Si assume cioè che, nel momento stesso in cui si inserisce il giudice nel processo formativo della regola, ci si espone inevitabilmente a soggettivismi ed abusi.
E’ stato già autorevolmente dimostrato che vi era potenzialmente maggiore possibilità di abuso quando si trattava semplicemente di assegnare significati a parole che non quando si tratta di far emergere un valore che è attuato, praticato, vissuto, e quindi ricavabile da una serie molteplice di indici rivelatori.
Per fare un esempio soltanto, pensate alla norma del vecchio testo dell’art. 144 del codice civile che designava il marito come capo della famiglia. La Corte di Cassazione, negli anni Cinquanta, riconnetteva a quella dizione l’effetto che non fosse reato l’apertura da parte del marito della corrispondenza indirizzata alla moglie. A distanza di qualche anno, e ben prima che la norma fosse definitivamente abrogata, la stessa Corte diceva che “capo” significa soggetto dotato di una peculiare responsabilità ai fini dell’attuazione del principio di eguaglianza. A ben vedere, e pur non dichiarandolo, qui la Corte non intendeva un testo «secondo il significato proprio delle parole» (come recita l’art. 12 delle preleggi), ma intendeva un valore condiviso, un principio di ragione praticato ed attuato.
E’ proprio in questa chiave che l’esercizio della giurisdizione, secondo i paradigmi del diritto come scienza pratica, lungi dal risolversi in un indeterminato soggettivismo, si offre a criteri di verifica molto rigorosi e puntuali.
Certo, chiunque abbia fatto esercizio di una professione forense conosce sentenze ingiuste. Io non conosco peraltro un indirizzo consolidato della Cassazione che non risponda ad un criterio di valore ampiamente condiviso. E quando la Cassazione ha mutato un suo indirizzo precedente, lo ha fatto perché appunto erano mutati gli assetti sociali e i loro punti di riferimento in chiave assiologica, del tutto prescindendo da eventuali mutamenti normativi.
Va, in sostanza, una volta per tutte, superato un altro dei postulati della nostra formazione universitaria, quello della c. d. legge di Hume, secondo la quale i giudizi di valore non sarebbero mai verificabili in fatto senza cadere nell’aporia della c.d. fallacia naturalistica. Una simile affermazione è certamente vera per quanto riguarda i giudizi individuali e soggettivi, ma non vale per gli indici di valore riconducibili ad una intera collettività sociale, che hanno invece infiniti punti di emersione e di verifica.
Vi è quindi un grave deficit culturale al fondo della posizione di chi (ancorché investito di un ruolo politico o accademico) paventa che la realtà del diritto nella stagione del postmoderno si esponga a soggettivismi ed abusi, perché, al contrario, essa si apre ad una dimensione che può finalmente essere misurata in chiave di giustizia.
Quando sentiamo qualche sprovveduto giornalista (ma talvolta anche qualche qualificato professore) fare appello al principio di legalità – un termine che si è venuto caricando di tutte quelle impurità che accompagnano gli usi terminologici del parlare corrente – dobbiamo spiegargli che oggi non vale più la legalità-legittimità, come formula rispondente ad un dato consegnato ad un testo scritto (che era poi, a ben vedere, operazione praticamente impossibile perché non era in alcun modo coniugabile con il principio di effettività), ma la legalità-giustizia come valore praticato, condiviso, sempre storicamente verificato.
Non è senza significato il fatto che un’opera ciclopica come l’Enciclopedia del diritto, in un quadro normativo sostanzialmente invariato, abbia sentito la necessità, dopo aver pubblicato, in un volume degli anni Settanta, la voce Legalità a firma di Sergio Fois, di affidarne una nuova redazione, per un volume degli “annali” degli anni Duemila, a Massimo Vogliotti, che sovverte in radice il significato che ancora assegna a quel termine il parlare corrente. E dimostra che anche la legalità non sta a monte ma a valle del modo d’essere di una esperienza. Essa si salda alla tensione di una intera collettività sociale verso un risultato di giustizia.
Come è stato autorevolmente riconosciuto (lo diceva già Mengoni nel suo ultimo preziosissimo articolo) i principi del nuovo costituzionalismo sono all’un tempo interni al diritto positivo ed espressivi di valori morali. Ed è quindi giocoforza – come ha di recente chiarito Francesco Viola – positivizzare il diritto naturale e naturalizzare il diritto positivo.
Il giudice di oggi si trova all’interno di queste tensioni ed è quindi chiamato ad un compito molto più difficile che non fosse quello del passato. Nonostante gli attacchi di cui è vittima deve coraggiosamente continuare a cercare una corretta dimensione della giuridicità, consapevole che il diritto non è dato, ma si fa nel quotidiano svolgersi dell’esperienza e che quindi non è più possibile adagiarsi sulla tranquillante simmetria delle vecchie categorie costruite su di un panorama del tutto depurato da scorie fattuali. A lui è chiesto di partire dall’analisi del contesto, facendosi addirittura carico della previsione di cui all’art. 3 cpv. della Costituzione, che impone, perché sia fatta giustizia, che il diritto sia inesorabilmente diseguale, esigendo di essere modulato, affinché venga veramente attuato il principio di eguaglianza, anche in funzione delle condizioni del destinatario.
Si tratta di un compito difficilissimo, ma che, proprio per questo, va coltivato e applaudito, reagendo con durezza ai luoghi comuni che continuano a parlare di “Repubblica dei giudici”. Dobbiamo, una volta per tutte, renderci conto che è invece ciascuno di noi, con la propria azione, che concorre a formare il diritto e che quindi, per ripetere una famosa formula di Capograssi, ne porta tutta la responsabilità.