A pagina 87 di Vite che non sono la mia (Einaudi, 2011), Emmanuel Carrère racconta di essere stato colpito dall’orgoglio con cui Etienne Rigal, giudice di pace, gli aveva detto di sé e di Juliette: «Siamo stati dei grandi giudici».
Carrère è perplesso all’idea di associare la grandezza al mestiere di giudice, per di più di giudice di pace. Si sforza di ricordare figure di grandi giudici, ma gli viene in mente soltanto qualche nome legato a qualche caso mediatico, come Eva Joly. Peraltro, tutti giudici istruttori e non di udienza. «Ci si può immaginare un grande avvocato – scrive – ma non un grande giudice di pace, per di più competente di pratiche di modesto rilievo: muri divisori, curatele, affitti insoluti. Diciamo che a priori non mi faceva sognare».
Etienne e Juliette sono due giudici “militanti”, si direbbe a leggerne la descrizione. In realtà sono soprattutto due giudici che hanno assunto su di sé la responsabilità di essere “uomini sociali”, per dirla con Piero Calamandrei, che hanno combattuto tenacemente una scomoda battaglia di diritto, divenuta politica, e l’hanno vinta, facendo così cambiare la legge francese sulla preclusione, ampliare la funzione del giudice e “alleggerire in piena legalità i debiti di decine di migliaia di poveracci”. «È meno spettacolare dell’abolizione della pena di morte ma è sufficiente per dirsi – osserva Carrère – che si è serviti a qualcosa, e anche che si è stati dei grandi giudici».
Ed è così, effettivamente.
Sia chiaro: niente, di loro, rimanda alla retorica dei “tanti giudici che lavorano in silenzio” o al pluricelebrato modello del giudice-algoritmo, giudice-bocca della legge, giudice-burocrate, che sembra tornato in voga.
Anzi.
Non a caso la politica non ama il grande giudice, ma ne diffida.
Preferisce il “giudice eroe”, o rappresentato dai media e percepito dall’opinione pubblica come tale. Un marchio di fabbrica che, alla bisogna, garantisce consensi nel vuoto politico alimentato dall’antipolitica.
La storia conosce molti casi di giudici “eroi” corteggiati e contesi politicamente, acclamati dalle piazze, evocati come “il verbo” nelle aule parlamentari, celebrati come star in convegni politici, trasformati in simboli ora della lotta alla corruzione ora del contrasto alla mafia. Giudici spesso usati, strumentalizzati, e poi dimenticati.
Questo “eroismo” giudiziario – al netto delle diverse storie professionali e delle differenti “proposte politiche” di chi di volta in volta lo rappresenta – spesso riflette un sentimento populista ma, soprattutto, un risentimento collettivo verso il potere, i governi, la politica. Risentimento che, da Berlusconi in poi, ha divorato fette sempre più ampie di opinione pubblica, ma anche di partiti, senza mai trovare solidi argini, neppure istituzionali.
C’è insomma una sorta di gioco di specchi, che racconta molto di più di quanto contengano i “programmi politici” dei giudici eroi (anche se le parole di un “giudice eroe” hanno un impatto che non va mai sottovalutato). Quel gioco di specchi racconta, in particolare, il bisogno collettivo di un’immagine “eroica” della giustizia i cui tratti identificativi sono risentimento, piglio inquisitorio, pan-punitivismo, colpevolismo, mentre i diritti hanno un ruolo assolutamente marginale, in certi casi destabilizzante per la credibilità di quell’immagine.
Giorni fa, durante un corso della Scuola della magistratura, è stato molto interessante ascoltare la psicoanalista Simona Argentieri sulle fantasie che i cittadini proiettano sui magistrati, in modo conscio o inconscio. Sono di due tipi, ha spiegato: persecutorie e idealizzanti. Nel primo caso proviamo «paura, sensi di colpa, al di là della nostra cattiva coscienza, e tendiamo a nasconderci». Ma sono le seconde – le proiezioni idealizzanti – «le più pericolose, perché le carichiamo di enormi aspettative sull’idea di giustizia e di chi la somministra: aspettative infantili di vendetta o di risarcimento totale per ogni torto o danno subito». Argentieri ha poi aggiunto che le aspettative idealizzanti sono le più pericolose anche perché «lusingano, a loro volta, le fantasie di onnipotenza del giudice, e conducono inesorabilmente alla delusione». Con inevitabili riflessi sulla fiducia… .
Nell’immagine idealizzante del giudice si rispecchia anche un’ampia fetta della magistratura, ormai da tempo sull’orlo di una crisi di identità e di fiducia, e perciò tentata e attratta, se non da rassicuranti derive corporative e burocratiche, da quel riflesso “eroico” che sembra restituirle status e autorità, più che autorevolezza e legittimazione.
Ecco allora che dal gioco di specchi emerge la crisi generale di un sistema che, nelle sue diverse articolazioni, fatica a parlare il linguaggio della democrazia costituzionale per dimostrare la sua vitalità e riscattarsi da inerzie, populismi, corporativismi, illegalità diffusa, talvolta da cadute; che preferisce scorciatoie “eroiche” alla “grandezza” di un impegno quotidiano e “sociale”, che vivifichi le scomode regole della democrazia costituzionale, nessuna esclusa.
I magistrati, dunque, rischiano di diventare gli “eroi” di una giustizia, e di una democrazia, in perenne crisi di identità e di fiducia, anziché i protagonisti di una battaglia politica, culturale e giuridica che consenta al Paese di rispecchiarsi solo e soltanto nei principi della Costituzione. Forse è meno spettacolare, direbbe Carrère, ma è sufficiente per dire che si è serviti a qualcosa. E anche che si è stati dei grandi giudici.
Donatella Stasio
*In copertina un fotogramma tratto da La Corte (Christian Vincent, 2015)