Chissà se la goccia della trasparenza ce la farà a scavare fino in fondo la pietra del (finto) proibizionismo giudiziario con tutte le distorsioni mediatiche e i danni che porta con sé. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando, ora alle prese con la delega sulle intercettazioni, ha l’occasione di raccogliere la sfida, dimostrando di avere a cuore la correttezza dell’informazione, oltre che la tutela della privacy. Ha infatti la possibilità di regolare l’accesso diretto, trasparente ed effettivo dei giornalisti a tutti gli atti giudiziari non più segreti, già depositati e depurati (nel contraddittorio delle parti) di ciò che riguarda la vita privata delle persone.
Non è una provocazione. Al contrario, è una proposta che viene da lontano e che ha già raccolto numerosi autorevoli consensi, come quello del presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Raffaele Cantone. Che il primo luglio, in un intervento pubblicato su Repubblica intitolato Indagini e giornalisti, un accesso rispettoso agli atti, ha proposto – auspicando un dibattito pubblico – di riconoscere appunto a tutti i giornalisti l’accesso diretto e trasparente agli atti non più segreti e depositati, nel rispetto dei diritti delle parti.
Cantone è in buona compagnia, visto che ormai da qualche anno si discute di questa piccola rivoluzione, sia pure non sulle pagine dei giornali ma in sedi istituzionali come la Scuola della magistratura. La proposta è stata più volte rilanciata dal procuratore della Repubblica di Roma Giuseppe Pignatone e, di recente, è stata condivisa dai procuratori di Palermo Francesco Lo Voi, di Reggio Calabria Federico Cafiero De Raho, di Napoli (sia pure come facente funzioni) Nunzio Fragliasso. Inoltre, l’idea ha trovato un seguito al Csm, almeno nelle parole del consigliere di Area Antonello Ardituro e, soprattutto, del vicepresidente Giovanni Legnini.
Insomma, il terreno è stato talmente arato che Orlando avrebbe davvero gioco facile a proporre una modifica normativa in tal senso, approfittando della delega sulle intercettazioni. Sempre che, ovviamente, ne condivida spirito e obiettivi.
Il dovere di cronaca impone di ricordare che il “padre” della proposta è un giornalista, Luigi Ferrarella del Corriere della Sera, impegnato da più di un lustro a spiegarne il senso e l’utilità rispetto alle improbabili mordacchie minacciate ad ogni tentativo di riforma delle intercettazioni. Il ragionamento è semplice: l’accesso diretto e trasparente dei giornalisti alle fonti (persone e documenti) garantisce un’informazione più corretta perché evita il “mercato nero” della notizia, dove spesso “vince” il più scorretto ai danni del cittadino; la correttezza non si ottiene con la minaccia di sanzioni, con nuovi divieti, ma con regole che garantiscano l’accesso diretto agli atti non più segreti, già depositati e depurati – nel contraddittorio delle parti – di ciò che riguarda la vita privata delle persone, e riguardanti notizie non necessariamente di rilevanza penale ma sempre e solo di interesse pubblico; indagati, testimoni, vittime sarebbero più tutelati, nella loro dignità di persone, da un regime di regole trasparenti piuttosto che dai brandelli di notizie sfuggite al (finto) proibizionismo.
Che poi sono gli stessi argomenti usati da Cantone quando scrive che un cronista deve «confidare nella benevolenza degli inquirenti, di un avvocato, degli investigatori o del funzionario di turno» e che questa situazione «non consente un rapporto paritario con la fonte». O quando indica, tra i vantaggi dell’accesso diretto, un’informazione «meno sbilanciata» nonché la riduzione dei rischi «di rapporti poco chiari con le fonti o di manipolazione che possono derivare da un accesso privilegiato ai documenti d’indagine».
La riflessione sull’accessibilità degli atti depositati si è sviluppata in questi anni essenzialmente nell’ambito della formazione giudiziaria, grazie alla Scuola della magistratura e ai suoi corsi sulla «Comunicazione della giustizia». L’occasione più recente è stato il corso svoltosi a Roma il 5, 6, 7 giugno, che ho seguito come esperto-formatore insieme al Tavolo istituzionale che lo ha preceduto (il 9 maggio), attorno al quale si sono seduti giudici e pm esperti dell’argomento nonché rappresentanti del ministero e del Csm. Obiettivo: elaborare una griglia di “idee” da sottoporre, come contributo scientifico, al confronto e all’analisi nelle sedi competenti e nella prospettiva di un protocollo sulla comunicazione giudiziaria allargato a tutti i soggetti coinvolti.
Idee da “consegnare” ai soggetti istituzionali competenti (Csm, Ministero della giustizia, Scuola della magistratura, Uffici giudiziari) per le eventuali rispettive determinazioni (modifiche legislative, regolamentari, prassi organizzative), così da rendere effettivo ed efficace il “dovere istituzionale della comunicazione giudiziaria” (peraltro affermato da numerose fonti internazionali sia per i pm che per i giudici), a prescindere dalla mediazione giornalistica.
Ebbene, una delle proposte portate al Tavolo, e rimbalzate da lì al corso, riguardava l’accesso diretto dei giornalisti allo stesso materiale messo a disposizione delle parti, ai fini di una maggiore trasparenza e correttezza informativa. Pignatone (presente a entrambe le iniziative) si è fatto carico di ribadire l’utilità e l’importanza della proposta, riprendendo e sviluppando gli argomenti già esposti in passato e incontrando ulteriori consensi e disponibilità. Anche da parte del Gabinetto del ministro della Giustizia, nella persona di Betta Cesqui. Secondo la quale, però, l’accesso diretto agli atti è «l’arrivo di un processo culturale che presuppone un passaggio precedente, ovvero l’appropriatezza dell’uso degli strumenti processuali». Come dire che i provvedimenti devono essere a maggior ragione bonificati dal superfluo: il sequestro di un computer serve a sequestrare un computer, una misura cautelare serve a privare momentaneamente della libertà personale e non a fare proclami al pubblico. Inoltre, i provvedimenti dovrebbero essere costruiti in modo tale che l’accesso ad essi sia un effettivo canale di comprensione della realtà processuale sottostante.
In sostanza, la misura dell’accesso diretto agli atti accende inevitabilmente un warning sugli atti giudiziari. Il che, però, non è un fatto negativo. Anzi.
In chiusura del corso sulla comunicazione, il 7 giugno scorso, il vicepresidente del Csm Legnini ha annunciato che il Consiglio finanzierà la pubblicazione di un volume contenente tutti i lavori sulla «Comunicazione giudiziaria» (seminario del 2015, Tavolo e corso del 2017) così da consegnare ai magistrati, ma anche ad altri soggetti, un materiale prezioso per raccogliere (quanto meno culturalmente) la sfida della comunicazione in chiave positiva (e non proibizionista, come sembra invece impostato il lavoro del Csm, almeno nelle sue prime battute).
Il volume sarebbe stato materiale prezioso anche per la commissione ministeriale sulle intercettazioni, che entro il 4 novembre dovrà confezionare uno schema di decreto legislativo in attuazione della delega finalizzata ad una più incisiva tutela della privacy. Materiale prezioso anche per sfatare alcuni luoghi comuni.
«Ogni tanto, con timore, sento parlare di armadi blindati» – ha detto ad esempio Pignatone, fin dal 2015 – «in cui in un certo momento dovrebbero essere chiuse le mitiche intercettazioni irrilevanti o che investono la privacy. Si dice: la chiave ce l’ha solo il Procuratore e ne risponde il Procuratore o il povero disgraziato cui il Procuratore si affretterebbe a dare la delega. Vorrei che fosse chiaro a tutti – perché qualche volta anche parlando con gli addetti ai lavori questo chiaro non è – che il segreto, come diceva Manzoni, è soltanto quello che so solo io. Nel momento in cui lo sanno due persone, il segreto è a rischio, anzi c’è la certezza di averlo violato. Allora, quando parliamo di queste cose da mettere nel fantomatico armadio blindato dobbiamo essere consapevoli che si tratta di notizie, informazioni, dati processuali di cui sono a conoscenza alcuni magistrati, non certo solo il Procuratore; un numero indefinito di personale di cancelleria; un certo numero di difensori, perché il presupposto è che siano già passati dalla comunicazione ai difensori che varia secondo il numero degli imputati; e un numero molto ma molto più elevato di poliziotti, carabinieri e guardia di finanza. Un’indagine appena complicata richiede che ci siano 20-25 fra marescialli, brigadieri o equivalenti, oltre agli ufficiali, oltre al pm, oltre ai cancellieri e oltre agli avvocati. Questo deve essere chiaro. Tutti devono sapere tutto. Quindi, nel famoso armadio blindato metteremo cose che sono a conoscenza di un centinaio di persone. Come questo si possa qualificare tutela del segreto e come si possa addossare al Procuratore, o al disgraziato che lui delegherà, una responsabilità quasi oggettiva sfugge alla mia comprensione...».
Parole di buon senso, troppo spesso sacrificate sull’altare dell’ipocrisia, dell’ambiguità e della cattiva coscienza di una legislazione proibizionista. Parole che esprimono un’idea alta di giustizia, in cui trasparenza e pubblicità sono elementi essenziali. Non a caso Pignatone cita Glauco Giostra (anch’egli protagonista del corso sulla comunicazione): «In un ordinamento democratico moderno è inconcepibile una giustizia segreta; il valore della pubblicità della giustizia penale non va misurato soltanto sugli effetti che essa in concreto propizia ma sulla gravissima involuzione civile e democratica che la sua assenza comporterebbe».
Perciò Pignatone ricorda, anzitutto ai suoi colleghi, che anche il binomio giustizia-informazione «è uno di quei tanti giochi di peso e contrappeso che caratterizzano una democrazia».
E perciò la cronaca giudiziaria è il terreno su cui seminare dosi massicce di trasparenza, piuttosto che incentivare politiche proibizioniste.
Donatella Stasio