1. Davvero molto ricca si presenta la prospettiva di problemi dischiusa dall’ordinanza della I sezione civile della Corte di Cassazione, n. 9978 del 16 maggio 2016: quest’ultima, com’è noto, ha ritenuto opportuno un intervento delle Sezioni Unite sulla riconoscibilità delle sentenze straniere comminatorie di danni punitivi, così rimettendo gli atti al Primo Presidente appunto per consentire a quest’ultimo di valutare l’eventuale assegnazione alla composizione più autorevole dell’Organo di nomofilachia del ricorso, che implicava l’esame della questione appena evocata.
In particolare, l’ordinanza fornisce innanzi tutto l’occasione, pur in presenza di un provvedimento inevitabilmente interlocutorio, per una rimeditazione, nel suo complesso, del tema dei danni punitivi, che trae a sua volta con sé quello delle funzioni della responsabilità civile nel quadro delle tecniche di tutela civile dei diritti; e non occorrono, in effetti, molte parole per rendersi conto della costante centralità della riflessione circa le funzioni della responsabilità civile all’interno del dibattito sull’istituto aquiliano[1], centralità confermata anche da una rilevazione pur assai superficiale dello stato dell’arte in altre esperienze giuridiche[2]. Si tratta, del resto, di una riflessione – quella sulle funzioni della responsabilità civile - che si presenta, fin da anni ormai non recentissimi[3], caratterizzata da un risveglio di attenzione nei confronti della funzione preventiva o deterrente della responsabilità civile e, dunque, anche della coloritura sanzionatoria che la medesima può assumere: ciò che conferma come l’ordinanza di rimessione si collochi in pieno nell’ambito dell’esprit du temps sul versante della responsabilità civile e, più in generale ancora, delle tecniche di tutela civile dei diritti.
Volendosi interrogare sulle ragioni di fondo di questo risveglio di attenzione verso la coloritura sanzionatoria della responsabilità civile, esse sembrano attenere - in maniera più o meno consapevole, nel quadro del pensiero dei singoli autori - all’esigenza di dotare lo strumentario della tutela civile dei diritti di un rimedio idoneo ad assicurare l’effettività della loro protezione, tutte le volte che la condanna al risarcimento del danno risulti inadeguata allo scopo. Laddove questa inadeguatezza può ricollegarsi o alla difficoltà di ravvisare (o quanto meno di provare) una perdita di utilità patrimoniali o personali di vita che possa dirsi conseguenza dell’illecito ovvero alla circostanza che la concreta determinazione del danno risarcibile, in quanto largamente inferiore al profitto conseguito dall’autore dell’illecito, non sia in grado di svolgere un’apprezzabile funzione dissuasiva[4]. Ragionando nella prospettiva del dato normativo costituzionale, è, dunque, l’effettività il valore o principio costituzionale destinato ad assumere il ruolo del possibile fondamento sistematico di scelte interpretative che, all’interno del limite tracciato dalla riserva di legge, desumibile – in questa materia – prima ancora dall’art. 23 Cost.[5] che non dall’art. 25 Cost.[6], possono enfatizzare la funzione sanzionatoria della responsabilità civile; ovvero, ed in prospettiva futura, rappresentare il referente di opzioni normative tali da introdurre senz’altro “prestazioni sanzionatorie” dell’illecito civile, destinate a coordinarsi variamente con la prestazione risarcitoria propriamente intesa[7].
Da questo angolo visuale, e cioè all’interno di un discorso calibrato sui termini di riferimento costituzionale di una possibile curvatura sanzionatoria della condanna risarcitoria, non sembra invece condivisibile la recente opinione, specificamente riferita al problema del danno discendente dalle c.d. microviolazioni, [8] secondo la quale il percorso argomentativo utile, almeno in astratto, al fine di superare la regola che, commisurando il risarcimento del danno patrimoniale a quello effettivamente patito, nega l’ammissibilità del risarcimento ultracompensativo, dovrebbe transitare attraverso il riferimento ai doveri costituzionali di solidarietà sociale. In particolare, secondo questa impostazione, si potrebbe ritenere che “la solidarietà verso la vittima di una microviolazione – fatto illecito da reprimere in ossequio alla funzione anche punitiva o sanzionatoria della responsabilità civile, in ragione della sua connotazione particolarmente maliziosa o profittatoria -,…voglia l’incentivo a reagire per la vittima delle microviolazioni, perché senza incentivo la vittima resterebbe inerte sopportando il pregiudizio provocato da un comportamento gravemente antisociale e quindi in radicale conflitto con i doveri di solidarietà”[9].
Sennonché, i doveri inderogabili di solidarietà, sanciti – com’è ben noto - dall’art. 2 Cost., non paiono in grado di offrire indicazioni interpretative sufficientemente univoche nella materia della tutela civile dei diritti, come tali idonee a costituire la premessa di soluzioni operative coerenti. Basti considerare, al riguardo, che quei doveri, i quali nella dottrina sulla responsabilità civile degli anni ’60 del secolo scorso[10] costituivano la chiave di volta di un sistema che si voleva tutto imperniato sull’esigenza di riparare il danno subito dalla vittima del fatto illecito, si sono visti successivamente affidare, all’interno di una sistemazione complessiva del problema del danno non patrimoniale [11] il compito di una delimitazione rigorosa delle pretese risarcitorie apprezzabili[12], dando così corpo ad una linea ricostruttiva di segno radicalmente opposto alla precedente. Ed in effetti, in relazione alla valutazione dell’impostazione complessiva e del tracciato evolutivo del sistema normativo fatta propria dal singolo interprete, il richiamo ai doveri di solidarietà, per la relazione bilaterale che gli stessi istituiscono, si presta altrettanto bene ad una concretizzazione di essi che ponga l’accento sulla posizione della vittima del fatto lesivo così come ad una loro lettura attenta, invece, alla natura ed alla consistenza della situazione giuridica soggettiva sottostante alla condotta lesiva.
Non pare del resto casuale che proprio l’Autore, il quale pure assai di recente ha ravvisato nei doveri di solidarietà la possibile chiave di volta per ammettere risarcimenti ultracompensativi a fronte di danni patrimoniali, dia infine atto, essenzialmente sulla base di argomenti in termini di efficienza economica del sistema, dell’inopportunità di una soluzione che accrediti i medesimi[13]. Infatti, ed anche nell’ambito nel quale, da parte della dottrina della quale si sta riferendo il pensiero, più frequenti sarebbero le ipotesi di fatti dannosi definibili come microviolazioni, e cioè i comportamenti della Pubblica Amministrazione, si perviene alla conclusione secondo la quale “nell’auspicio di un risarcimento ultracompensativo che debba andare a beneficio della collettività, il fatto di imporre un risarcimento ultracompensativo a carico della Pubblica Amministrazione avrebbe il significato di addossarne il costo alla collettività stessa, che lo sosterrebbe mediante il prelievo fiscale per poi eventualmente beneficiarne dove il risarcimento fosse impiegato a suo vantaggio”[14]. Tuttavia, e lasciando da parte l’opinabilità della premessa, che ascrive all’area degli eventuali comportamenti illegittimi della Pubblica Amministrazione la gran parte delle ipotesi di microviolazioni[15], e la controvertibilità della conclusione[16], un argomento che, muovendo da una norma di rango costituzionale, si lasci confutare da semplici rilievi in termini di efficienza economica dimostra inevitabilmente la propria intrinseca debolezza.
La tenuta sistematica, per così dire, della scelta di ricondurre il discorso relativo ai c.d. danni punitivi sul piano del principio dell’effettività della tutela risulta confermata anche dalla considerazione del rilievo che un approccio attento a questo principio ha assunto nella elaborazione giurisprudenziale e nella riflessione dottrinale più recenti.
In particolare, e com’è noto, la Corte Costituzionale, muovendo dal coordinamento degli articoli 2, 3 e 24 della Costituzione, ha senz’altro, e da tempo, affermato il diritto ad una tutela sostanziale effettiva[17]. Dal canto suo, la Corte di Cassazione [18] ha posto l’accento, sul “diritto ad un rimedio adeguato al soddisfacimento del bisogno di tutela di quella specifica, unica, talvolta irripetibile situazione sostanziale di interesse giuridicamente tutelato”, diritto del quale la medesima Corte di Cassazione ha colto i più precisi contorni all’interno di un ordinamento internazionale “nel quale il moltiplicarsi di accenti sul diritto al rimedio effettivo che emerge dalla lettura degli artt. 8 della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo, 13 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo…e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea”, ricostruendolo come diritto alla misura appropriata alla soddisfazione del bisogno di tutela.
Queste indicazioni hanno trovato un riscontro puntuale in dottrina, allorché si è osservato che “la riflessione sul tema (n.d.r.: dei rimedi) presuppone l’esistenza di un interesse protetto, sicché l’approccio rimediale non incide sull’an della protezione, ma solo sulle modalità di applicazione della tutela più efficiente”, con il corollario che “il rimedio non si sostituisce al diritto o all’obbligo sostanziale ma intende fornire uno strumento di tutela adeguata, in presenza di violazione di interessi e diritti, specie in presenza di forme complesse e fondamentali e di nuovi beni da tutelare”[19].
Nello stesso ordine di idee, è stato osservato, in sede di commento all’ordinanza di rimessione che è sullo sfondo di queste considerazioni, che il disegno dei rapporti, e della ‘concorrenza’, tra ordinamenti giuridici, che da essa emerge, si colloca “all’interno di un percorso unitario di progressivo potenziamento della sfera sostanziale e rimediale a tutela delle posizioni soggettive attive, in costante espansione e rafforzamento perché sono species del genus libertà individuale”, con il risultato che “la comunità internazionale quale contesto politico – giuridico connotato in termini assiologicamente unitari vede emergere al suo interno un plus di effettività rimediale”[20].
E’, dunque, proprio in questa direzione – e cioè sul versante della concreta verifica circa l’utilità dello strumento del riconoscimento dei danni punitivi nella prospettiva del reperimento della tutela più efficiente delle situazioni giuridiche soggettive - che dovrà svilupparsi ulteriormente il discorso, affrontando innanzi tutto un quesito, per così dire prognostico, relativo al modo in cui, verosimilmente, le Sezioni Unite scioglieranno il nodo loro sottoposto.
2. Affrontando, dunque, questo snodo della questione, occorre subito rilevare che i molteplici punti di emersione, correttamente rilevati dall’ordinanza di rimessione, di un’attitudine ormai mutata del sistema normativo interno nei confronti della possibile attribuzione alla condanna risarcitoria anche di una funzione sanzionatoria[21], e l’evoluzione del concetto di ordine pubblico rilevante ai fini dello svolgimento del giudizio di delibazione, accuratamente ricostruita dall’ordinanza di rimessione, rendono altamente probabile che l’impostazione di quest’ultima sia condivisa dalle Sezioni Unite, con il superamento del precedente orientamento che considerava insuscettibile di delibazione, proprio per il limite derivante dall’ordine pubblico interno, la sentenza del giudice straniero di condanna al risarcimento di danni punitivi. Si tratterebbe in effetti di un esito sicuramente meritevole di essere valutato con favore, già per la considerazione che “la riflessione politologica e filosofico politica oggi prevalente nel dibattito internazionale guarda con favore a tutti quei cambiamenti funzionali alla concreta attuazione di diritti fondamentali, che sono tali in quanto effettivi e non ‘di carta’ ovvero, come si usa dire, ‘giustiziabili’”.[22]
Qui si può dedicare qualche cenno allo snodo argomentativo dell’ordinanza di rimessione, appena evocato, nel quale questa descrive efficacemente l’evoluzione del concetto: dall’ordine pubblico “inteso originariamente come espressione di un limite riferibile all’ordinamento giuridico nazionale, costituito dal complesso dei principi che, tradotti in norme inderogabili o da queste desumibili, informano l’ordinamento giuridico e concorrono a caratterizzare la struttura etico – sociale della società nazionale in un determinato momento storico”, all’ordine pubblico internazionale “da intendersi come complesso dei principi fondamentali caratterizzanti l’ordinamento interno in un determinato periodo storico, ma fondati su esigenze di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo comuni ai diversi orientamenti e desumibili, innanzi tutto, dai sistemi di tutela approntati a livello sovraordinato rispetto alla legislazione ordinaria”. Secondo l’ordinanza, un’evoluzione di questa portata del concetto di ordine pubblico configura un “progressivo e condivisibile allentamento del livello di guardia tradizionalmente opposto dall’ordinamento nazionale all’ingresso di istituti giuridici e valori estranei, purché compatibili con i principi fondamentali desumibili, in primo luogo, dalla Costituzione ma anche dai trattati fondativi e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e, indirettamente, dalla Convenzione Europea dei diritti dell’uomo”; e punti di emersione di questa evoluzione sono colti anche nella disciplina normativa comunitaria[23], nella giurisprudenza comunitaria[24] e nella stessa giurisprudenza di legittimità[25].
Su queste premesse, l’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite afferma che “l’ordine pubblico non si identifica con quello esclusivamente interno, poiché, altrimenti, le norme di conflitto sarebbero operanti solo ove conducessero all’applicazione di norme materiali aventi contenuto simile a quelle italiane, cancellando la diversità tra i sistemi giuridici e rendendo inutili le regole del diritto internazionale privato” e, nello sforzo di descrivere ancora meglio il contenuto del concetto di ordine pubblico rilevante ai fini del giudizio di delibazione, osserva che “se il legislatore è libero di atteggiarsi come meglio ritiene, allora potranno avere libero ingresso prodotti giudiziali stranieri applicativi di regole diverse, ma comunque non contrastanti con i valori costituzionali essenziali o non incidenti su materie disciplinate direttamente dalla Costituzione”. In altre parole, “il giudice della delibazione, al quale è affidato il compito di verificare preventivamente la compatibilità della norma straniera con tali valori, desumibili direttamente da norme e principi sovraordinati (costituzionali e internazionali) dovrà negare il contrasto in presenza di una mera incompatibilità (temporanea) della norma straniera con l’assetto normativo interno, quando questo rappresenti una delle diverse modalità di attuazione del programma costituzionale, quale risulti dall’esercizio della discrezionalità del legislatore in un determinato momento storico[26].
Qui si delinea un’altra, promettente prospettiva aperta dall’ordinanza di rimessione, riferita al ruolo che può assumere il momento dell’interpretazione giudiziale nell’ambito del recepimento di materiali giuridici appartenenti ad altro ordinamento e che, all’esito, dello scrutinio di conformità all’ordine pubblico, possano essere effettivamente inseriti nel nostro: un ruolo che interpella ancora una volta il piano dei rapporti tra potere legislativo e giurisdizione, nel quadro del progressivo adeguamento del sistema normativo alle indicazioni di tutela delle situazioni giuridiche soggettive, espresse al livello dei principi fondamentali di esso.
Ricondotto il plausibile innesto del discorso dei danni punitivi, a livello del dato normativo costituzionale, sul principio di effettività è possibile fornire, al tempo stesso, un ulteriore argomento a sostegno della soluzione che reputi compatibile con l’ordine pubblico la sentenza di un giudice straniero che rechi la condanna del responsabile al risarcimento di danni punitivi così come un criterio concorrente di verifica della possibilità di delibare una decisione di questo contenuto: la sentenza del giudice straniero potrà, appunto, ritenersi suscettibile di delibazione nella misura in cui, nel caso concreto, il riconoscimento del danno punitivo risulti essenziale al fine di apprestare una tutela davvero effettiva della situazione giuridica soggettiva lesa.
Da questo punto di vista, le ipotesi di condanna al risarcimento del danno punitivo, adottate da provvedimenti giurisdizionali stranieri, destinate a suscitare i dubbi minori dal punto di vista della possibilità di delibazione dei provvedimenti stessi, saranno quelle nelle quali vengano in considerazione gravi violazioni dei diritti della persona e dei valori a questa più immediatamente riferibili[27]: proprio in quei casi, infatti, la difficoltà di individuare, e di provare, una perdita, suscettibile di innescare il meccanismo della liquidazione del danno secondo le previsioni codicistiche che presiedono allo stesso, potrà rendere particolarmente adeguato, ed appunto effettivo, il rimedio consistente nella condanna del responsabile al pagamento, in favore della vittima, di una somma di danaro quantificata in relazione ai criteri della gravità dell’elemento soggettivo dell’illecito e dell’entità dell’offesa arrecata al valore della persona presidiato dalla norma[28].
Più problematica risulta la possibilità di apprezzare il principio di effettività della tutela giurisdizionale, di per sé preso, al fine di sancire la delibabilità delle sentenze straniere che rechino statuizioni di condanna al risarcimento di danni punitivi quando venga in considerazione una condotta qualificata da un elemento soggettivo di particolare intensità, come ad esempio il dolo specifico. Infatti, in questo caso, ed in presenza di una norma generale di responsabilità civile, nel nostro ordinamento, qual è l’art. 2043 c.c., che non consente di attribuire autonomamente all’elemento soggettivo della condotta né l’idoneità a qualificare come ingiusto un danno privo di per sé di questa qualificazione, né quella ad incidere sull’entità dell’obbligazione risarcitoria, l’affermazione di una valenza sanzionatoria della condanna all’adempimento di quest’ultima dovrebbe transitare attraverso l’eventuale qualificazione di rilevanza penale del fatto: quest’ultima, infatti, consentirebbe al giudice, in sede di liquidazione del danno, di tenere conto dell’elemento soggettivo dell’illecito[29].
Ancora una volta meno agevole è il percorso argomentativo per pervenire alla delibazione di sentenze recanti condanna al risarcimento di danni punitivi nell’ambito in parte già evocato, nel quale si verifica il fenomeno efficacemente definito di undercompensation e cioè allorché il risarcimento che può essere concretamente domandato dalla singola vittima del fatto lesivo è modesto per essere modesto anche il danno subito[30]. Infatti, in questo caso, la funzionalità del rimedio dei danni punitivi alle esigenze di una tutela effettiva rischia di essere in parte oscurata dalla irragionevolezza di un esito risarcitorio che, al fine di realizzare il risultato della deterrenza, evitando che il responsabile vada esente dalle micropretese risarcitorie dei singoli danneggiati dalla sua condotta, finisce per beneficiare in maniera eccessiva solo uno tra di essi[31].
3. Nel momento in cui, attraverso la rimeditazione del concetto di ordine pubblico efficacemente svolta dall’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite che costituisce il termine di riferimento del nostro discorso (e, qualora si considerino condivisibili le argomentazioni fin qui svolte, nella prospettiva del principio di effettività), si sono create le premesse per una soluzione positiva del problema della delibazione delle sentenze straniere recanti condanna al risarcimento dei danni punitivi, ci si può ulteriormente domandare, nel solco del quesito, sottostante ad un recente, e già menzionato, contributo in argomento[32], se davvero sia opportuno continuare a discorrere in termini di danni punitivi. L’altro corno dell’alternativa condurrebbe invece ad impostare il problema “completamente prescindendo dalla tematica della responsabilità civile” e cioè interrogandosi “se nell’ordinamento italiano possa ritenersi principio di ordine pubblico il divieto di ‘sanzionare’ l’autore di un illecito civile con l’imposizione di una prestazione a favore della vittima, del tutto sganciata dal danno che quest’ultima abbia concretamente sofferto (e che, al limite, potrebbe addirittura non sussistere affatto nel caso concreto)”. In altre parole, ci si può domandare se una definitiva sistemazione della questione che qui ci occupa non sia destinata a passare dall’abbandono dell’impostazione della medesima attraverso il riferimento al concetto di responsabilità civile e di danno: il discorso sarebbe a questo punto da ricalibrare nel senso se davvero possa ritenersi principio di ordine pubblico il divieto, di fronte ad illeciti civili, di ‘prestazioni sanzionatorie’ (estranee al sistema della responsabilità civile) accanto od in luogo di ‘prestazioni risarcitorie’ (rette, queste sì, dai principi della responsabilità civile)”[33]. Il vantaggio sistematico e ricostruttivo che, secondo l’Autore che l’ha in effetti proposta, potrebbe desumersi da questa reimpostazione dovrebbe essere colto nel fatto che, una volta distinto il problema della prestazione sanzionatoria dell’illecito civile da quello della prestazione risarcitoria ricollegata al medesimo illecito ed una volta preso atto della circostanza che “l’ordinamento giuridico italiano conosce tutta una serie, ampia e variegata, di ipotesi di ‘prestazioni sanzionatorie’ dell’illecito civile” troverebbe agevole soluzione in senso affermativo il nodo della compatibilità con l’ordine pubblico della sentenza straniera che attribuisca alla vittima di un illecito civile una prestazione sanzionatoria[34].
In realtà, se è sicuramente vero che l’uso della formula ‘danni punitivi’, costituendo la traduzione letterale di quella del diritto nordamericano in termini di ‘punitive damages’, rischia di determinare qualche equivoco, se non altro per le caratteristiche peculiari che quest’ultimo istituto ha all’interno dell’esperienza nel quale si è sviluppato[35], la contrapposizione tra prestazione sanzionatoria dell’illecito civile e prestazione risarcitoria sembra scontare una visione dell’istituto aquiliano che rischia di smarrire la densità funzionale del medesimo.
Infatti, se è sicuramente vero, per riprendere le parole con cui, ormai più di trenta anni fa, si concludeva un’indagine di fondamentale importanza sul problema del danno extracontrattuale, che “vi sono più cose nel cielo dei conflitti sociali, di quante possa comprendere la filosofia aquiliana”[36], e che, dunque, detto con altre parole, non si può pensare di attribuire all’istituto aquiliano funzioni radicalmente diverse rispetto a quelle che discendono dalla disciplina normativa del medesimo, nel tentativo di offrire una risposta complessiva alle istanze di regolazione dei rapporti sociali e di tutela degli interessi che emergono nella realtà, è anche vero che l’evoluzione del sistema normativo nel suo complesso [37]può dare al singolo istituto una curvatura diversa rispetto a quella di esso tradizionalmente propria: soprattutto, ed ancora una volta, quando questa lettura sia suggerita da un valore o principio costituzionale, qual è quello di effettività[38]. In alti termini, anche il problema della responsabilità civile [39] vive nel tempo, che costituisce il termine di riferimento di ogni modalità di estrinsecazione dell’esperienza umana; ed è proprio la dimensione diacronica, il fluire ed il modificarsi delle istanze di tutela, e della risposta rimediale dell’ordinamento, che disegna lo sfondo entro il quale si colloca la soluzione prefigurata dall’ordinanza di rimessione.
Una volta di più nel tempo – questa volta, con ogni probabilità, in un tempo futuro e forse non ancora prossimo – potrebbe collocarsi anche un’introduzione nel sistema normativo nazionale dell’istituto dei danni punitivi: e qui sarebbe destinato a riproporsi il problema dei rapporti tra la (necessaria, come si è visto) previsione normativa astratta del rimedio e la concreta commisurazione dell’entità del medesimo, all’interno del parametro generale della proporzionalità e tenendo conto sempre del criterio dell’effettività. E’ certamente assai difficile ipotizzare se il disegno di una relazione equilibrata tra previsione legale e discrezionalità giudiziale possa passare più opportunamente attraverso una sorta di sistema tabellare, che agganci a ciascuna tipologia di illecito l’entità massima del danno punitivo suscettibile di essere liquidato, ovvero per mezzo di una previsione che si limiti a fissare i criteri (la gravità del fatto, sotto il profilo del disvalore giuridico della condotta dell’agente; l’intensità dell’elemento soggettivo sottostante alla medesima; l’entità del profitto conseguito dal trasgressore) dei quali il giudice dovrà tenere conto in sede di liquidazione del danno. L’opinione di chi scrive è che sarebbe senz’altro preferibile quest’ultima impostazione; non solo per non riproporre un sistema che rischierebbe di riportarci ad età antiche ed ingenue del diritto, ma soprattutto per non smarrire quell’elemento di duttilità che soltanto può assicurare l’efficienza di qualunque rimedio.
[1] Sono ancora fondamentali, sull’argomento, i contributi di Salvi. Si vedano, in particolare, di questi: Il paradosso della responsabilità civile, in Riv. crit. dir. priv., 1983, 123 ss.; Il danno extracontrattuale. Modelli e funzioni, Napoli, 1985, in particolare 90 ss.. La centralità del tema delle funzioni della responsabilità civile deve essere affermata, anche in presenza della precisazione, di recente operata in dottrina, secondo la quale l’enfasi attribuita alle funzioni della responsabilità civile, che pure potrebbe sembrare un’apertura della dogmatica giuridica ad approcci funzionalistici al diritto ed alla sua interpretazione, rischia di rimanere, di per sé presa, “un mero espediente retorico, la posizione di una premessa del ragionamento nella quale sono stati previamente introdotti i presupposti delle conclusioni che si propone di raggiungere”: così M. Barcellona, Il danno extracontrattuale, Torino, 2011. Infatti, osserva questo Autore, la rilevazione delle funzioni astrattamente riferibili all’istituto aquiliano (l’elenco completo proposto dall’Autore del quale stiamo riferendo il pensiero supera la decina) potrebbe risolversi in una mera constatazione sociologica, almeno finché non si dimostri che la disciplina della responsabilità sia conformata in modo tale da perseguire proprio l’esito funzionale di volta in volta preso in considerazione e cioè che questo scopo sia incorporato nella regola al punto da determinarne in tutto o in parte il contenuto. Tuttavia, come pure è stato notato dallo stesso Autore, la constatazione appena svolta in ordine ai limiti di un approccio ricostruttivo di mera rilevazione delle funzioni della responsabilità civile non delegittima la comprensione funzionale di quest’ultima né esclude che, a partire dalla funzione, si possa innescare, nei termini dei quali si dirà anche negli svolgimenti successivi di questo scritto, un circolo interpretativo virtuoso. Interessanti spunti si possono desumere anche dai saggi raccolti nel volume Barbierato (a cura di), Il risarcimento del danno e le sue ‘funzioni’, Napoli, 2012, dove si veda, in particolare, il contributo di Costantini, Per una genealogia dei punitive damages. Dissociazioni sistemologiche e funzioni della responsabilità civile, 287 ss.
[2] Si veda per un recente, brillante contributo in argomento Hershovitz, What does tort law do? What can it do?, in Val. U. L. Rev., (47), 2012, 99 ss., il quale, secondo una linea di tendenza che, come vedremo nel testo, trova significativi punti di emersione anche all’interno della dottrina italiana, accredita una visione della funzione dell’istituto aquiliano fortemente imperniata sul profilo sanzionatorio, resa evidente dalla formulazione secondo la quale, pur non essendo un’azione giudiziale in tort un atto di vendetta, essa ha la stessa funzione di un atto di vendetta e cioè ricollocare vittima e responsabilità su un piano di parità. Una panoramica del dibattito nordamericano in materia emerge anche da alcuni passaggi della recente conversazione di N. Brutti con Calabresi: N. Brutti, Una conversazione con Guido Calabresi, in Nuova giur. civ. comm., 2015, 29 ss. Interessanti sono anche gli spunti che si colgono nel dibattito dottrinale francese: cfr., in particolare, Ge. Viney, Rapport de synthèse, Responsabilité civile et assurances. La responsabilité civile à l’aube du XXI siècle: bilan prospectif, 2001, 85, la quale sottolinea la necessità di collocare, accanto alla funzione indennitaria della responsabilità civile, la fonction punitive e la fonction preventive della medesima.
[3] In questa prospettiva, deve essere richiamato, innanzi tutto, Le pene private, a cura di Busnelli e Scalfi, Milano, 1985, volume che raccoglieva gli atti di un convegno pisano del 1984. Più di recente, vedi poi, e si tratta pure in questo caso degli atti di un convegno (tenutosi a Siena nel 2007), La funzione deterrente della responsabilità civile alla luce delle riforme straniere e dei Principles of European Tort Law, a cura di Sirena, Milano, 2011.
[4] Il problema è analizzato, da ultimo, con riferimento pressoché esclusivo all’area del danno contrattuale, da Maggiolo, Microviolazioni e risarcimento ultracompensativo, in Riv. dir. civ., 2015, I, 1092, il quale si sofferma appunto sui casi in cui “il fatto illecito è…scarsamente pericoloso per i potenziali danneggiati e proprio per questo si può definire microviolazione. Ma questa microviolazione ha nel contempo due caratteristiche fondamentali, le quali danno ragione dell’interesse a commetterla non meno che della esigenza di un’adeguata tutela contro di essa. La prima caratteristica sta nel fatto di generare un lucro per l’autore, un vantaggio in linea di massima corrispondente al danno provocato…La seconda caratteristica è che la microviolazione è un comportamento ripetuto, la cui reiterazione comporta un effetto moltiplicativo del lucro, che viene così a concentrarsi in capo all’autore dei molteplici fatti dannosi, mentre il danno è ripartito tra tutti i numerosi fruitori di beni o servizi seriali”. In un contesto del genere, osserva l’Autore, “la reazione individuale contro la microviolazione non è in alcun modo incentivata perché la prospettiva è quella di ottenere un risarcimento pari al danno, e il danno compensabile è scarso in confronto al costo della reazione, elevato in termini monetari e di tempo. Il singolo danneggiato, in base ad un’elementare analisi di costi e benefici, è quindi indotto a subire la perdita senza darsi ulteriore pena. Il giudizio – anche collettivo – sul comportamento microviolativo è invece severo”.
[5] Si veda, sul punto, Busnelli, Deterrenza, responsabilità civile, fatto illecito e danni punitivi, in Europa dir. priv., 2009, 909 ss. (ed altresì in Sirena, a cura di, La funzione deterrente della responsabilità civile ecc. cit.), il quale osserva che “le premesse costituzionali, legittimanti il concetto di ‘pena privata’ potrebbero ravvisarsi, piuttosto che sul piano della portata estensiva degli artt. 25, co. 2° e 27 Cost., direttamente in un riferimento all’art. 23 Cost.”, menzionando, in questa prospettiva, anche il pensiero di Bricola, La riscoperta delle pene private, in Busnelli – Scalfi, a cura di, cit., 50 ss.
[6] Nel quadro di una riflessione della quale si riferirà criticamente tra breve nel testo, Maggiolo, Microviolazioni e risarcimento ultracompensativo, cit., 1093 ss. ravvisa, invece, il punto di emersione costituzionale della regola secondo la quale la misura punitiva della ultracompensazione non può essere riconosciuta in casi non previsti dalla legge al principio dell’art. 25, co. 2° Cost.
[7] Per la proposta di utilizzare il termine ‘prestazioni sanzionatorie’ dell’illecito civile in luogo della formula danni punitivi, cfr. Granelli, In tema di ‘danni punitivi’, in questa Rivista, 2014, 1760. In particolare, secondo questo A., e come si avrà modo di vedere anche infra, nel testo, pure a voler ammettere, nel solco dell’orientamento della Suprema Corte in quel momento incontestato, “che ‘nel vigente ordinamento l’idea della punizione e della sanzione è estranea…alla responsabilità civile’ cui la legge assegna ‘il compito precipuo di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, mediante il pagamento di una somma di denaro che tende ad eliminare le conseguenze del danno arrecato’ (Cass. 19 gennaio 2007 n. 1183), tutto ciò nessuna rilevanza può spiegare sul diverso problema se – completamente prescindendo dalla tematica della responsabilità civile – nell’ordinamento italiano possa ritenersi principio di ordine pubblico il divieto di ‘sanzionare’ l’autore di un illecito civile con l’imposizione di una prestazione a favore della vittima, del tutto sganciata dal danno che quest’ultima abbia concretamente sofferto e che, al limite, potrebbe addirittura non sussistere affatto, nel caso concreto); se, cioè, possa ritenersi principio di ordine pubblico il divieto, di fronte ad illeciti civili, di ‘prestazioni sanzionatorie’ (estranee al sistema della responsabilità civile) accanto od in luogo di ‘prestazioni risarcitorie’ (rette, queste sì, dai principi della responsabilità civile)”.
[8] Calibrata, come si è già rammentato, sullo specifico problema delle c.d. microviolazioni.
[9] Così Maggiolo, Microviolazioni e risarcimento ultracompensativo, cit., loco cit.
[10] Il riferimento è, ovviamente, all’opera di Rodotà, Il problema della responsabilità civile, Milano, 1964.
[11] Nell’impostazione delle sentenze delle Sezioni Unite dell’11 novembre 2008 nn. 26972 – 5: vedile, tra i tantissimi altri luoghi, in questa Rivista, 2009, 4 ss.
[12] In particolare, è nota l’affermazione delle Sezioni Unite, nelle decisioni citate alla nota precedente, secondo la quale “il risarcimento del danno non patrimoniale è dovuto solo nel caso in cui sia superato il livello di tollerabilità ed il pregiudizio non sia futile”, poiché “pregiudizi connotati da futilità ogni persona inserita nel complesso contesto sociale li deve accettare in virtù del dovere della tolleranza che la convivenza impone”.
[13] Infatti, secondo il pensiero di quest’Autore - ad avviso del quale “il principio solidaristico, il solo che per ipotesi potrebbe giustificare un risarcimento ultracompensativo, consiglia nel contempo che una parte dell’ultracompensazione attribuita dal giudice venga trasferita dal danneggiato a beneficio dell’intera collettività, in ossequio al principio della giustizia distributiva” - si perverrebbe ad uno scenario “il quale è attualmente in parte congetturale e in parte immaginario: è cioè congetturale là dove si voglia ammettere che la solidarietà costituzionale possa volere la ultracompensazione dei danni provocati da microviolazioni; ed è immaginario là dove si suggerisce invece che la ultracompensazione dovrebbe essere in parte ritrasferita sulla collettività o almeno sui fruitori di beni o servizi forniti dall’autore delle microviolazioni” (così Maggiolo, Microviolazioni e risarcimento ultracompensativo, cit., 1095).
[14] Così ancora Maggiolo, Microviolazioni e risarcimento ultracompensativo, cit., 1102.
[15] L’opinabilità della premessa riferita nel testo emerge, del resto, già dal rilievo che essa è affidata non ad argomenti logici né statistici, ma alla auto – percezione di ciascuno, che, secondo l’Autore in questione, deporrebbe appunto in tal senso: in questo modo, si finisce tuttavia per introdurre un criterio – appunto, quello della percezione soggettiva – insuscettibile di una verifica sul piano scientifico.
[16] Mantenendosi sul piano degli argomenti di opportunità o efficienza economica, è, infatti, tutto da dimostrare che il soggetto privato, in ipotesi autore delle microviolazioni, possa traslare sul prezzo dei prodotti il costo del risarcimento ultracompensativo, che sia condannato in ipotesi a pagare, senza rischiare di andare incontro alla conseguenza di una propria espulsione dal mercato di riferimento; sul versante dei comportamenti della Pubblica Amministrazione in ipotesi tali da determinare microviolazioni, poi, non si può trascurare che un meccanismo di automatica traslazione del costo del risarcimento ultracompensativo sul carico fiscale sarebbe con ogni verosimiglianza ostacolato, se non dall’operare degli strumenti di controllo politico sull’operato della Pubblica Amministrazione, dalla possibilità di affermare la responsabilità per danno erariale dei titolari degli organi della medesima Amministrazione cui fossero ascrivibili i comportamenti lesivi (con conseguente effetto deterrente nei confronti di coloro che subentrassero nella titolarità dei medesimi organi quanto al tenere gli stessi comportamenti).
[17] Cfr. Corte Cost. sentenza n. 238 del 2014, in Foro it., 2015, I, 1152
[18] Cfr. Cass. 17 settembre 2013 n. 21255, Corriere giur., 2014, 489 ss., con note di Bona, Boccagna e di chi scrive
[19] Così Vettori, Il contratto europeo fra regole e principi, Torino, 2015, 23.
[20] Il brano riportato nel testo è di Grondona, L’auspicabile ‘via libera’ ai danni punitivi, il dubbio limite dell’ordine pubblico e la politica del diritto di matrice giurisprudenziale (a proposito del dialogo tra ordinamenti e giurisdizioni), in Dir. civ. cont. 31 luglio 2016.
[21] Si possono aggiungere, a quelli indicati dall’ordinanza, gli spunti desumibili dall’art. 18, co. 5° L. n. 300/70 che, in materia di tutela a fronte del licenziamento con riferimento al quale il giudice abbia accertato la non ricorrenza degli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, “dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici ed un massimo di ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, in relazione all’anzianità del lavoratore e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, della dimensione dell’attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti, con onere di specifica motivazione al riguardo”: si tratta, infatti, e sia pure sul versante della responsabilità da inadempimento di un’obbligazione preesistente, di una condanna risarcitoria che prescinde totalmente dalla individuazione di un danno, che potrebbe anche mancare del tutto, come accade nell’ipotesi in cui il lavoratore, subito dopo il licenziamento, abbia trovato un’occupazione alternativa, che potrebbe essere in ipotesi anche maggiormente remunerativa. Una valenza lato sensu sanzionatoria può ravvisarsi anche nella previsione dell’art. 28, co. 2° decr. Lgs. 81/2015, in materia di tutela del lavoratore assunto a tempo determinato con contratti nulli quanto alla clausola del termine, secondo la quale “nei casi di trasformazione del contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno a favore del lavoratore, stabilendo un’indennità omnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’articolo 8 della legge n. 604 del 1966”. Infatti, anche questa indennità prescinde dalla prova di qualsiasi profilo di danno, anche se la precisazione secondo la quale “la predetta indennità ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, comprese le conseguenze retributive e contributive relative al periodo compreso tra la scadenza del termine e la pronuncia con la quale il giudice ha ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro” lascia intendere che nella predetta indennità prevale probabilmente la funzione di contenimento e forfettizzazione dei molteplici profili di danno che un lavoratore, il quale sia stato appunto assunto con contratti a termine illegittimi, può lamentare. In quest’ordine di idee, accenni ad un aspetto sanzionatorio della condanna risarcitoria si colgono anche nella recentissima sentenza delle Sezioni Unite 14 marzo 2016 n. 4914 in materia di risarcimento del danno in favore del lavoratore assunto a termine illegittimamente nel settore del pubblico impiego.
[22] Così Grondona, L’auspicabile via libera ecc. cit.
[23] In quest’ordine di idee, l’ordinanza fa riferimento all’esclusione del riconoscimento nei soli casi di contrarietà manifesta all’ordine pubblico, così come previsto dall’art. 34 del reg. CE 22 dicembre 2001 n. 44, concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale; l’art. 26 del reg. CE 11 luglio 2007 n. 864, sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali; l’art. 22 e 23 del reg. CE 27 novembre 2003 n. 2201, in tema di riconoscimento ed esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e della responsabilità genitoriale; l’art. 24 del reg. CE 18 dicembre 2008 n. 4/2009, in materia di obbligazioni alimentari.
[24] In questa prospettiva, viene menzionata la pronuncia della Corte Giust. UE, 4 ottobre 2012, C – 249/11, per giustificare le deroghe alla libera circolazione delle persone invocabili dagli Stati membri)
[25] Al riguardo, l’ordinanza rammenta le precedenti pronunce della Suprema Corte secondo le quali “il rispetto dell’ordine pubblico debba essere garantito, in sede di controllo della legittimità dei provvedimenti giudiziari e degli atti stranieri, avendo riguardo non già all’astratta formulazione della disposizione straniera o alla correttezza della soluzione adottata assumendo come criterio di riferimento l’ordinamento straniero o quello italiano, bensì ai suoi effetti, “in termini di compatibilità con il nucleo essenziale dei valori del nostro ordinamento”. In questa prospettiva, si precisa, da parte dell’ordinanza, che “le norme espressive dell’ordine pubblico sono quelle fondamentali e non coincidono con quelle, di genere più ampio, imperative o inderogabili” da ciò traendosi il corollario che “il contrasto con queste ultime non costituisce, di per sé solo, impedimento all’ingresso del provvedimento straniero” e si menzionano i precedenti di Cass. n. 4040/2006, 13928/1999, 2215/1984.
[26] L’ordinanza precisa, sul punto, che “si tratta di un giudizio simile a quello di costituzionalità, ma preventivo e virtuale, dovendosi ammettere il contrasto con l’ordine pubblico soltanto nel caso in cui al legislatore ordinario sia precluso di introdurre, nell’ordinamento interno, una ipotetica norma analoga a quella straniera, in quanto incompatibile con i valori costituzionali primari”.
[27] In questa prospettiva, e pur non trattandosi in quel caso della delibazione di una sentenza straniera, si può richiamare la ancora assai recente decisione di Cass. 22 gennaio 2015 n. 1126, in questa Rivista, 2015, 829 ss., con nota di Citarella, Identità sessuale, riservatezza e danno non patrimoniale: questa pronuncia, com’è noto, ha cassato – proprio sotto il profilo della inadeguatezza della liquidazione del danno – una sentenza di merito in un caso in cui veniva in considerazione una lesione particolarmente grave del diritto alla riservatezza, che era stata anche lo strumento per un comportamento discriminatorio della persona in ragione del suo orientamento sessuale.
[28] Per un più ampio svolgimento delle ragioni che possono essere addotte a sostegno di una funzione sanzionatoria e deterrente della condanna risarcitoria a fronte di fatti produttivi di un danno non patrimoniale, ci si permetta il rinvio al nostro Danno morale e funzione deterrente della responsabilità civile, in questa Rivista, 2007, 2496 s. (e, poi, in La funzione deterrente della responsabilità civile ecc., cit., a cura di Sirena). In quest’ordine di idee sembra indirizzarsi anche Busnelli, Deterrenza, responsabilità civile, fatto illecito e danni punitivi, cit., 920, laddove questi rileva che “al risarcimento dei danni non patrimoniali, insuscettibili di valutazione economica, si addice una funzione diversa” (rispetto a quella tipicamente compensativa propria del risarcimento del danno patrimoniale) “che convenzionalmente si esprime in termini di funzione satisfattiva”, la quale “può convivere con una funzione sanzionatoria, a seconda dei casi ancillare o trainante”, pur con la – del tutto condivisibile, come si vedrà nel testo – precisazione secondo la quale “è al legislatore, e non al giudice, che compete il potere di prevedere l’innesto di questa funzione sanzionatoria e la giustificazione di una limitata sfera di risarcibilità di danni aventi un connotato lato sensu punitivo”. Si veda anche, ancora più di recente, Ponzanelli, Novità per i danni esemplari?, in Contratto e impr., 2015, 1195 ss., il quale sottolinea che il settore più importante nel quale possono trovare applicazione i danni non riparatori è quello dei “pregiudizi, soprattutto non patrimoniali, che mal si prestano ad una misurazione oggettiva e, proprio per tale difficoltà operativa, il giudice (e non solo quello non professionale) è portato a valutare per eccesso la lesione dell’interesse compromesso”, prospettando come unica soluzione per ovviare ad una incertezza insostenibile quella che passi attraverso la predisposizione di tabelle. Dal canto suo, di Majo, Astreinte – i confini mobili della responsabilità civile, cit., 564, ha osservato che “certamente sul terreno dei diritti della persona, il principio costituzionale della inviolabilità dei diritti (art. 2) esige che la loro tutela non sia limitata alla sola presenza del danno prodotto dalla loro violazione. Detta violazione già reca in sé la presenza di un’offesa alla persona la quale, come tale, non può restare priva di risposta sul terreno della tutela, proprio perché del diritto è predicata la inviolabilità. E l’onda lunga di tale inviolabilità non può non essere una risposta anche sul terreno sanzionatorio e non soltanto su quello del danno compensativo.”.
[29] Cfr., sul punto, da ultimo, ancora Ponzanelli, Novità per i danni esemplari, cit., 1199.
[30] In questi casi, come nota Ponzanelli, Novità per i danni esemplari, cit., quali possono essere, tipicamente, quelli nei quali viene in considerazione una responsabilità per danni da prodotto, “il costo della lite, e magari la sua incertezza, sconsigliano decisamente il consumatore – danneggiato dall’intraprendere la lite per il recupero di una somma non interessante”.
[31] Su questi aspetti, e sulla conseguente preferibilità, in questo ambito, della scelta dello strumento processuale della class action, cfr. ancora Ponzanelli, op. loc. ult. cit., nonché Maggiolo, Microviolazioni e risarcimento ultracompensativo, cit., 1095. Un problema che deve essere tenuto distinto da quello da ultimo evocato nel testo si delinea nei casi in cui, in presenza di violazioni della proprietà industriale, si tratti di reperire soluzioni argomentative in grado di attribuire al titolare del diritto violato il profitto conseguito dal trasgressore, in presenza di un danno, inteso in senso stretto, di modesta entità o addirittura insussistente. Al riguardo, e come ancora di recente è stato argomentato in dottrina, il problema può trovare soluzione attraverso il ricorso all’istituto dell’arricchimento senza causa: cfr., sull’argomento, per una messa a punto sintetica ma esaustiva, Busnelli, Deterrenza, responsabilità civile, ecc. cit., 916. Con riferimento al problema della violazione del diritto di esclusiva spettante all’autore, in relazione all’art. 12 della L. 633/41, la recentissima Cass. 22 giugno 2016 n. 12954 (il cui estensore è il medesimo Consigliere Relatore, Antonio Pietro Lamorgese, cui si deve l’ordinanza di rimessione che ha dato origine a queste riflessioni), ha osservato che “la violazione di un diritto di esclusiva che spetta all’autore, ai sensi della legge n. 633 del 1941, art. 12, analogamente a quella di un diritto assoluto o di un diritto personale, costituisce danno in re ipsa, senza che incomba al danneggiato altra prova che non quella della sua estensione (v. Cass. n. 9854/2012, n. 8730/2011, n. 3672/2001)”, ribadendo che “non è precluso al giudice il potere di commisurare il danno subito dal titolare del diritto di utilizzazione economica di un’opera dell’ingegno, nell’apprezzamento delle circostanze del caso concreto, al profitto che il danneggiante trae dall’attività vietata, assumendolo come utile criterio di riferimento del lucro cessante, nel senso che questi abbia sfruttato a proprio favore occasioni di guadagno di pertinenza del danneggiato, sottraendole al medesimo (v. tra le altre, Cass. n. 4048/2016 e n. 11464/2015: quest’ultima ha precisato che l’applicazione di tale criterio è legittima, ancorché i fatti oggetto di giudizio siano avvenuti in epoca anteriore alla riforma dell’art. 158 L.A., ad opera dell’art. 5 del d. lgs. n. 140 del 2006, che ha espressamente introdotto la possibilità di liquidare il danno per la violazione del diritto d’autore sulla base degli utili percepiti dal danneggiante”.
[32] Il riferimento è a Granelli, In tema di ‘danni punitivi’, cit., 1761.
[33] Muovendo da questa premessa, Granelli, op. cit., distingue ipotesi legali di ‘prestazioni sanzionatorie’ dell’illecito civile che, senza interferire con essa, si cumulano con l’ordinaria prestazione risarcitoria; ipotesi legali di ‘prestazioni sanzionatorie’ dell’illecito civile che si cumulano con l’ordinaria prestazione risarcitoria, incidendo però sulla quantificazione di essa; ipotesi legali di ‘prestazioni sanzionatorie’ per le quali la vittima dell’illecito può optare in alternativa rispetto all’ordinaria prestazione risarcitoria; ipotesi legali di ‘prestazioni sanzionatorie’ per le quali la vittima dell’illecito può optare in alternativa rispetto all’ordinaria prestazione risarcitoria del lucro cessante; ipotesi legali di ‘prestazioni sanzionatorie’ che sostituiscono ex lege l’ordinaria prestazione risarcitoria e, infine, ‘prestazioni deterrenti’ a presidio del rispetto di pronunce giudiziali
[34] Così Granelli, In tema di ‘danni punitivi’, cit., 1769
[35] Cfr., sul punto, da ultimo, i sintetici, ma efficaci, cenni di Ponzanelli, Novità per i danni esemplari?, in Contratto e impr., 2015, 1195 ss., il quale, contrapponendo le richieste risarcitorie di ingentissima entità, che, a suo avviso, da ultimo caratterizzano l’esperienza italiana, ai punitive damages or exemplary damages, pone l’accento sui tratti fisiognomici del diritto statunitense della responsabilità civile, ravvisati nella presenza della giuria, che “a causa della sua composizione popolare, è portata inesorabilmente a sovrastimare i pregiudizi della parte offesa oltre che a ritenere dovuti anche i danni punitivi, quasi sempre richiesti dalla parte attrice”, nell’assenza di una regola che ponga a carico della parte soccombente in giudizio il pagamento delle spese (con il corollario che, nelle cause in materia di risarcimento del danno, la giuria sarà portata a sovrastimare ulteriormente l’importo da liquidare, anche tenendo conto della prassi del patto di quota lite) e nella “minor diffusione di un sistema di sicurezza sociale che accentua il processo di trasferimento della ricchezza proprio della r.c. (la quale finisce per svolgere, si usa dire, una funzione di sicurezza sociale)”. La constatazione secondo la quale un ipotetico istituto dei danni punitivi, suscettibile di trovare ingresso nel nostro sistema normativo, sarebbe comunque affatto diverso dall’omonima categoria del diritto nordamericano è, del resto, da tempo fatta propria dalla riflessione dottrinale in argomento: si vedano, al riguardo, Ponzanelli, I danni punitivi, in Nuova giur. civ. comm. 2008, II, 27 nonché Busnelli, Deterrenza, responsabilità civile ecc. cit., 916.
[36] Il riferimento è a Salvi, Il danno extracontrattuale, cit.
[37] Nei termini che si sono illustrati, in precedenza, in larga parte nel solco della puntuale ricognizione svolta dall’ordinanza, alle note 29 e 30
[38] In questa prospettiva, paiono del tutto condivisibili le notazioni finali di Busnelli, Deterrenza, responsabilità civile ecc., cit., 921 s., laddove questi osserva che “in un sistema dominato dalla compensazione sopravvive (se ci si riferisce all’art. 2059 nel suo raccordo privilegiato con l’art. 185 c.p.) o nasce (se ci si riferisce al nuovo art. 709 ter c.p.c., correttamente interpretato o alle recenti norme che prevedono misure giudiziarie in materia di tutela giurisdizionale contro la discriminazione) una prospettiva di deterrenza. Dilatarne la portata, fino a suggerire frettolose equazioni con i punitive damages del sistema nordamericano, è atteggiamento culturalmente sconsiderato oltre che operativamente improvvido. Valorizzarne gli effetti appare invece senz’altro opportuno, anche perché ‘una responsabilità civile che non accarezzi la deterrenza non è una vera responsabilità civile’”.
[39] Per riprendere qui il titolo del già menzionato, fondamentale contributo di Rodotà, la cui reimpostazione dell’istituto aquiliano ha influenzato l’intera riflessione dottrinale dell’ultimo mezzo secolo.