Come è noto, i tribunali italiani negli ultimi sono stati investiti da un numero rilevante di cause in materia bancaria. In particolare, oltre al contenzioso nato dalla proposizione di ricorsi per decreto ingiuntivo da parte delle banche per ottenere la soddisfazione delle proprie pretese creditorie nei confronti dei clienti, pendono molti giudizi in cui sono i clienti delle banche ad agire per l’accertamento della nullità dei contratti o delle singole clausole contrattuali relative alle condizioni economiche e per far valere le conseguenti pretese restitutorie.
Tali controversie risultano particolarmente complesse per due ordini di ragioni. La prima va rintracciata nelle competenze metagiuridiche di carattere matematico finanziario che il Giudice è spesso chiamato ad acquisire per comprendere a pieno il thema decidendum e per valutare in maniera seria l’attendibilità della CTU contabile eventualmente disposta nel corso del processo. La seconda sta invece nel fatto che nel corso dei processi che vertono su tale materia si verificano spesso repentine modifiche normative (si pensi in materia di anatocismo, di usura o di cms) o mutamenti di orientamenti giurisprudenziali della Corte di Cassazione, che determinano una vera e propria incertezza in ordine alla correttezza della impostazione data alla istruttoria della causa, fino a quel momento, da parte del Giudice di merito e, in alcuni casi, persino fanno emergere la necessità di rinnovare l’istruttoria con una nuova CTU, che tenga conto nel quesito delle novità normative e giurisprudenziali sopravvenute.
La sentenza in commento della Suprema Corte, n. 5919 del 2016, che ha espresso, in tema di validità dei contratti bancari, nella specie di intermediazione finanziaria, principi riferibili all’intera materia bancaria, rappresenta l’ennesimo esempio della incertezza giuridica che il giudicante si trova ad affrontare nel corso del processo, a fronte dei mutamenti di indirizzo giurisprudenziale della Cassazione.
Infatti, con la sentenza in esame, viene ad essere messa in discussione una delle poche certezze su cui l’interprete di merito sperava di poter contare in materia e, segnatamente, in ordine alla validità dei contratti bancari, ove non sottoscritti anche dalla banca, ma dal solo cliente.
La Corte di Cassazione, con la sentenza del 22 marzo 2012, n. 4564, oltre a recepire l’orientamento secondo cui sia la produzione in giudizio della scrittura da parte di chi non l'ha sottoscritta, sia qualsiasi manifestazione di volontà del contraente che non abbia firmato, risultante da uno scritto diretto alla controparte, dalla quale emerga l'intento di avvalersi del contratto, realizzano un valido equivalente della sottoscrizione mancante, purché la parte che ha sottoscritto non abbia in precedenza revocato il proprio consenso ovvero non sia deceduta (cfr., tra le tante, Cass. 16 ottobre 1969, n. 3338; Cass. 22 maggio 1979, n. 2952; Cass. 18 gennaio 1983, n. 469; Cass. 1994 n. 5868; Cass. 11 marzo 2000, n. 2826; Cass. 1 luglio 2002, n. 9543), aveva anche chiarito l’interpretazione del contratto sottoscritto dal solo cliente della banca, ma con la dicitura "Prendiamo atto che una copia del presente contratto ci viene rilasciata debitamente sottoscritta da soggetti abilitati a rappresentarvi". In tal caso, si riteneva sufficiente che risultasse l'intento della banca di avvalersi del contratto, desumibile dalle manifestazioni di volontà esternate ai clienti nel corso del rapporto di conto corrente (bastando, a tal fine, le comunicazioni degli estratti conto), con conseguente perfezionamento dello stesso.
Tale orientamento della Corte fu da subito recepito dalla giurisprudenza di merito maggioritaria, la quale ritenne che i principi di diritto enunciati dalla Corte nella sentenza del 2012 erano conformi, non solo, alle regole sulla formazione dell’accordo negoziale nei contratti con forma scritta ab substantiam, ma anche ai principi generali di buona fede contrattuale e di tutela dell’affidamento. La giurisprudenza di merito, nelle pronunce in cui si ha dato seguito ai principi di diritto della sentenza della Suprema Corte n. 4654 del 2012, ha ritenuto non conforme al principio della buona fede contrattuale nell'esecuzione del contratto il comportamento del contraente e anche del cliente che approfitti, abusandone, di una posizione contrattuale oggetto di particolare protezione da parte del legislatore di settore, prima dando esecuzione, anche per anni, al contratto bancario dallo stesso sottoscritto, e poi invocando in giudizio la nullità del medesimo contratto, stipulato utilizzando modelli predisposti dalla banca, in ragione della mancanza della firma della banca medesima ( cfr. tra tutte Trib Reggio Emilia del 28.4.15).
La sentenza in commento, invece, come anticipato, segna un inaspettato e consapevole cambiamento di orientamento.
La Corte in tale pronuncia, infatti, arriva ad affermare, in estrema sintesi, che il contratto bancario, ove non sottoscritto dal funzionario della banca, non può essere considerato valido, in quanto il requisito della forma scritta ad substantiam è soddisfatto solo ove vi sia la prova che entrambe le parti, anche se in documenti distinti, abbiano manifestato per iscritto la loro volontà negoziale.
Secondo la citata sentenza del 2016, a differenza di quanto sostenuto in passato, detta prova non può essere ritenuta sussistente, stante i limiti posti dal codice civile alla prova per testi e presunzioni dei contratti con forma necessaria, per il solo fatto che nell’esemplare prodotto in giudizio, firmato dal solo cliente, vi sia la dicitura "Prendiamo atto che una copia del presente contratto ci viene rilasciata debitamente sottoscritta da soggetti abilitati a rappresentarvi"; inoltre, il comportamento delle parti in costanza di contratto ‘monofirma’ non potrebbe essere considerato come valida manifestazione del consenso della Banca.
La Suprema Corte afferma, in generale, che nei contratti soggetti alla forma scritta ad substantiam, non può essere desunta la formazione del consenso contrattuale dal comportamento complessivo o successivo delle parti, poiché la forma scritta, quando è richiesta come necessaria, è elemento costitutivo del contratto e, quindi, l’eventuale documentazione depositata dalla banca (contabili, attestati di seguito, estratti conto), redatta dalla stessa ai fini della esecuzione del contratto e non della manifestazione della propria volontà di concludere il contratto, non possiede i caratteri della "estrinsecazione diretta della volontà contrattuale" e, quindi, non può essere considerata rilevante dal giudice per ritenere il contratto bancario validamente concluso tra le parti.
Appare chiaro che tali conclusioni, a prescindere dalla loro condivisibilità o meno sul piano giuridico, siano in pieno contrasto con il precedente orientamento giurisprudenziale che valorizzava il comportamento delle parti nel corso del rapporto e siano destinate ad incidere in maniera dirompente sul destino di tantissime cause di merito ad oggi pendenti ed istruite alla luce dei principi di diritto affermati sempre dalla Cassazione nel 2012.
Ciò che stupisce non è tanto il percorso argomentativo della Corte, ma il fatto che un mutamento di indirizzo così rilevante, capace di rimettere in discussione l’istruttoria svolta in migliaia di giudizi in primo grado e di essere posto alla base di altrettante impugnazioni delle sentenze di primo grado, pronunciate alla luce del precedente orientamento, sia stato posto in essere, a sezioni semplici, in maniera sì consapevole, ma forse senza pensare alle dirompenti conseguenze sul piano della giustizia di merito e dei rapporti commerciali in ambito bancario, ove l’esigenza della certezza del diritto è evidentemente centrale.
La nullità di cui trattasi non è assoluta, ma una nullità di protezione, sancita all’art.117 TUB al fine di tutelare il contraente debole, il cliente della banca, nella fase di conclusione del contratto, atteso che, nella precedente prassi bancaria, i contratti erano conclusi sulla base di condizioni economiche non sufficientemente comprensibili per il cliente.
Appare evidente, quindi, che, ove il contratto bancario risulti sottoscritto dal solo cliente, l’esigenza di tutela del soggetto debole risulta assolutamente soddisfatta e garantita, tanto che si arriverebbe a dichiarare nullo un contratto per un vizio di forma, quando la specifica esigenza sottesa alla formalità prevista dal legislatore risulta pienamente soddisfatta. E con l’ulteriore conseguenza che, trattandosi di nullità di protezione, la mancanza della sottoscrizione da parte della banca non potrebbe mai essere invocata dalla banca stessa che non ha sottoscritto, ma solo dal correntista che invece ha manifestato la sua volontà negoziale per iscritto e in seguito goduto dei servizi bancari.
Ad oggi tale orientamento appare essere stato seguito anche dalla sentenza n. 7068 del 2016 della prima sezione della Cassazione.
E’ dunque auspicabile che su detta questione vi sia una presa di posizione della Sezioni Unite che dirima il contrasto, eliminando, in tempi ragionevolmente brevi, l’incertezza che ne deriva, al fine di evitare che, ancora una volta, le sentenze pronunciate nei giudizi di merito, fondate sull’uno o sull’altro orientamento, altro non siano che un passaggio verso i gradi successivi, in attesa di un approdo più certo e stabile della giurisprudenza di legittimità.