La sentenza del Tribunale di Messina con la quale è stata riconosciuta la responsabilità dello Stato con riferimento all’omicidio di una donna da parte dell’ex-compagno, sulla base di un giudizio di inescusabile negligenza da parte dei pubblici ministeri destinatari di una serie di denunce presentate dalla donna nei mesi precedenti l’evento omicidiario, merita, a nostro avviso, un supplemento di riflessione dal punto di vista di chi svolge le funzioni di pubblico ministero, in quanto ci sembra che alcune astrattezze (o astrazioni) della decisione muovano da alcuni errori, prevalentemente di natura prospettica, ma non solo, in merito alla funzione del pubblico ministero e ai suoi doveri.
Trattandosi di una ipotesi di responsabilità colposa per omissione, la valutazione della sussistenza di un nesso causale tra l’omissione e l’evento, impone (rectius avrebbe imposto), in via preliminare, un accertamento in merito ai presupposti di seguito indicati:
a) la prevedibilità ed evitabilità, quantomeno in chiave probabilistica, dell’evento sulla base di un giudizio ex ante;
b) la doverosità della condotta omessa e la sua funzionalità in chiave di impedimento dell’evento;
c) la idoneità della condotta ad impedire l’evento.
Secondo il Tribunale di Messina, le denunce presentate dalla donna per fatti accaduti nel mese di giugno del 2007 avrebbero imposto una iniziativa da parte della Procura, segnatamente una perquisizione, finalizzata a rinvenire e sequestrare il coltello indicato in alcune di esse. Il che avrebbe impedito, con valutazione probabilistica, l’omicidio consumato nell’ottobre 2007 con un coltello che, secondo il tribunale, è razionalmente sostenibile fosse lo stesso indicato nelle denunce.
Tale conclusione non sembra, però, sia stata preceduta da una sufficiente analisi dei presupposti giuridici e fattuali cui si è fatto cenno sopra.
In punto di prevedibilità dell’evento, con valutazione ex ante, presupposto indefettibile per inferire l’efficienza causale di una condotta omissiva[1], il tribunale nulla dice.
Manca poi ogni riferimento alla prevedibilità in concreto, avuto riguardo all'agente modello eiusdem generis et condicionis, presupposto indefettibile per ogni giudizio di colpa, con il concreto rischio di trasformare un giudizio di colpa grave in un giudizio di responsabilità oggettiva.
A leggere la motivazione sembra difficile trarre dal contenuto delle denunce presentate dalla vittima nel mese di giugno – solo ad esse si riferisce la sentenza – una situazione che consentisse di ritenere prevedibile, sulla base della normale diligenza, una aggressione fisica in danno della donna, addirittura con esito mortale. In nessuna delle denunce del periodo in questione, infatti, si riferisce di condotte di violenza o di minaccia con armi. Solo nelle denunce di un anno prima era stato segnalato un episodio di violenza fisica, in ordine al quale era stata applicata la misura cautelare del divieto di avvicinamento. In quelle del giugno 2007, invece, la donna riferisce due episodi in occasione dei quali si recava presso l’abitazione dell’ex-compagno a prendere i figli, questi aveva estratto un coltello a serramanico, con una lama lunga circa 10 centimetri, con il quale aveva ostentatamente iniziato a pulirsi le unghie. Si tratta evidentemente di un gesto provocatorio – sulla cui rilevanza sul piano penale ci si soffermerà più avanti – ma si può razionalmente affermare che un tale gesto consentisse di ritenere prevedibile, in termini di probabilità, o anche solo di possibilità, l’omicidio commesso il successivo ottobre 2007?
Sempre in punto di analisi della prevedibilità della condotta e avuto riguardo alle condizioni concrete del fatto, la sentenza del tribunale non tiene conto del fatto che, per i fatti denunciati nel mese di luglio 2007, dunque immediatamente successivi a quelli di cui si discute, vi era stata iscrizione, per i delitti di violenza privata (610 cp) e di mancata osservanza dei provvedimenti del giudice in materia di affidamento dei figli (388 cp) (il procedimento si è poi definito con successivo esercizio dell’azione penale e patteggiamento).
Nessuna considerazione di tali circostanze concrete, ai fini della valutazione della prevedibilità in concreto dell’evento omicidiario.
Quanto alla valutazione in ordine alla doverosità della condotta omessa, il tribunale si limita ad affermare che i pubblici ministeri avrebbero dovuto procedere ad una perquisizione finalizzata a sequestrare il coltello, il che avrebbe impedito la commissione dell’omicidio.
Sul punto appaiono necessarie alcune precisazioni in materia di diritto penale, processuale e sostanziale.
La perquisizione è un atto di indagine, un mezzo di ricerca della prova, la cui esclusiva finalità è quella di ricercare il corpo del reato o le cose pertinenti al reato necessarie per l’accertamento del fatto. Per giurisprudenza costante l’aggettivo «necessarie», al femminile plurale, si riferisce ad entrambi i termini dell’alternativa, per cui anche il corpo del reato può essere sottoposto a sequestro probatorio solo se necessario all’accertamento del fatto.
La perquisizione, e il sequestro probatorio conseguente, non hanno, e non possono avere, alcuna finalità preventiva.
Non possono essere utilizzati per impedire la commissione di reati. E dunque la loro omissione non può in alcun modo considerarsi come omissione di una condotta che i pubblici ministeri avevano il dovere di compiere al fine di impedire la commissione di ulteriori reati.
Sarebbe stato invero possibile, e quindi sarebbe errore veniale quello nel quale incorre il tribunale, disporre un sequestro preventivo del coltello finalizzato ad impedire la commissione di ulteriori reati con armi.
Ma per quanto il diritto penale possa considerarsi meno nobile del diritto civile, esso è pur sempre diritto e la sua applicazione deve necessariamente rispondere al criterio di legalità.
Ora, un sequestro preventivo di un coltello può essere disposto solo se sussista un quadro indiziario (cd. fumus boni iuris) relativo ad un delitto commesso con quel coltello. Secondo il tribunale, sulla base delle denunce del giugno 2007 sarebbe stato ipotizzabile il reato di minaccia aggravata, ciò che avrebbe dovuto determinare un provvedimento di perquisizione e sequestro probatorio (rectius: richiesta di sequestro preventivo) da parte del pm, con il conseguente rinvenimento presso l’abitazione e sequestro del coltello a molla, in relazione ai possibili reati di porto abusivo di mezzi atti ad offendere fuori dalla propria abitazione senza giustificato motivo (art. 4 l. 110/75) ovvero quello di cui all’art. 699 comma 2, porto abusivo di armi, arma bianca propria, di cui, per giurisprudenza prevalente sarebbe vietato in modo assoluto il porto.
Si fa, dunque, largo uso di arnesi penalistici nel postulare la doverosità della condotta, nessuno dei quali, tuttavia, pare essere utilizzato in modo corretto.
A tacer della segnalata confusione tra lo strumento del sequestro preventivo con quello probatorio, uno dei cardini del sistema in materia di misure cautelari reali, nelle denunce presentate dalla vittima nel giugno 2007 vengono descritte condotte che non possono in alcun modo qualificarsi come minaccia commessa con armi. Il gesto di pulirsi le unghie con un coltello a serramanico, con una lama lunga circa 10 centimetri, per quanto effettuato con aria di minaccia e di sfida, non integra in nessun modo il fumus boni iuris del delitto di minaccia e quindi non sarebbe stato possibile disporre, con riferimento a quell’episodio, il sequestro preventivo di quel coltello. Né sarebbe stato possibile disporre un sequestro dell'arma per i reati di porto di arma fuori dalla propria abitazione – tale è il tratto comune delle due norme incriminatrici richiamate dal tribunale –, poiché in entrambi gli episodi denunciati il soggetto si trovava nella sua abitazione.
In sostanza il tribunale non considera che la omessa iscrizione di notizia di reato a seguito delle denunce di giugno e la mancata adozione di iniziative al riguardo possano essere derivati da una valutazione, negativa, da parte dei magistrati procedenti in ordine alla sussistenza di una notitia criminis e alla necessità di effettuare atti di investigazione al riguardo.
Quanto, poi, al tema della idoneità della condotta asseritamente omessa ad impedire l’evento omicidiario, il tribunale si limita ad affermare che il sequestro di quel coltello avrebbe impedito, con valutazione probabilistica, l’evento.
Per giungere a siffatta conclusione sono, però, necessari alcuni, non secondari, salti logici.
In primo luogo, l’affermazione secondo la quale il coltello, mostrato con aria di sfida alla donna nel giugno 2007, sarebbe lo stesso utilizzato per commettere il delitto di omicidio dell’ottobre 2007, viene dal tribunale definita razionalmente sostenibile, senza però indicare alcun elemento di fatto, se non le dimensioni (10 cm) e il tipo (a scatto o a serramanico, differenza non secondaria), sul quale si fonderebbe razionalmente tale affermazione. Eppure non sarebbe così irrazionale ipotizzare che l’omicida possedesse più di un coltello.
In secondo luogo, l’affermazione secondo la quale il sequestro di quel coltello avrebbe certamente impedito l’omicidio, almeno quell’omicidio commesso con quelle modalità, si fonda ancora una volta su presunzioni inammissibili. Quella che vorrebbe che il coltello utilizzato per uccidere fosse lo stesso mostrato nel giugno 2007. Quella che vorrebbe che il coltello utilizzato per commettere l’omicidio fosse l’unico coltello posseduto dal colpevole. Quella che pretende di escludere che un soggetto al quale venisse sequestrato un coltello nel giugno 2007 non avrebbe potuto procurarsene un altro identico per commettere l’omicidio nell’ottobre 2007.
In altri termini manca nella decisione del tribunale, una valutazione in concreto in merito alla inescusabilità della omissione. Eppure si tratta di questione decisiva, in quanto i tempi dell'intervento giudiziario dipendono, spesso, da molti fattori, non tutti ascrivibili al magistrato. E per qualificare come negligenza inescusabile la omissione di iniziative su denunce di giugno rispetto ad un evento verificatosi tre mesi dopo sarebbe stata necessaria una analisi ponderata del numero degli affari trattati dai magistrati in quel periodo, della rilevanza e gravità degli stessi, del peso degli altri impegni di ufficio e la loro, eventuale, indifferibilità.
Consentiteci, in ultimo, una notazione, che forse rischia di apparire autoreferenziale, o di sapore vagamente corporativo, ma che in realtà è frutto di una seria preoccupazione per i rischi di riduzione degli spazi di autonomia e di indipendenza dei magistrati, e dei pubblici ministeri in particolare, che derivano dalle sempre più pressanti richieste della politica di ampliamento delle ipotesi di responsabilità civile.
Il nostro è un mestiere assai complicato, che ti pone spesso davanti a delle scelte difficili e a rischio di conseguenze drammatiche, sia per l’azione che per l'omissione.
Ogni forzatura della sua valutazione che passi attraverso regole estranee al mestiere del penalista rischia di produrre da un lato paralisi, dall’altro burocrazia inutile.
Esattamente ciò che non serve a una buona amministrazione della giustizia, rispettosa dei diritti degli indagati e di quelli delle persone offese.
[1] Sulla nozione di prevedibilità ai fini della valutazione del nesso causale si veda ex plurimis: Sez. 3, Sentenza n. 11609 del 31 maggio 2005: «Un evento dannoso è da considerare causato sotto il profilo materiale da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (cosiddetta teoria della “conditio sine qua non”): ma nel contempo non è sufficiente tale relazione causale per determinare una causalità giuridicamente rilevante, dovendosi, all'interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che, nel momento in cui si produce l'evento causante, non appaiano del tutto inverosimili (cosiddetta teoria della causalità adeguata o della regolarità causale, la quale in realtà, oltre che una teoria causale, è anche una teoria dell'imputazione del danno). In tal senso viene in rilievo una nozione di prevedibilità che è diversa da quella delle conseguenze dannose, cui allude l'art. 1225 cod. civ., ed anche dalla prevedibilità posta a base del giudizio di colpa, poiché essa prescinde da ogni riferimento alla diligenza dell'uomo medio, ossia all'elemento soggettivo dell'illecito, e concerne, invece, le regole statistiche e probabilistiche necessarie per stabilire il collegamento di un certo evento ad un fatto. Nell'ambito di detta nozione di prevedibilità in tema di responsabilità aquiliana sono risarcibili anche i danni indiretti e mediati, purché appunto siano un effetto normale secondo il suddetto principio della causalità adeguata. Tuttavia, in riferimento all'illecito aquiliano per omissione colposa, detta nozione di prevedibilità statistica dev’essere adattata alla circostanza che in esso il giudizio causale assume come termine iniziale la condotta in quanto colposa (in senso proprio od improprio) e non la mera causalità materiale, di modo che per l'imputazione della responsabilità occorre che il danno sia una concretizzazione del rischio che la norma di condotta violata tendeva a prevenire, verificandosi un intreccio fra la causalità e la colpa, giacché la causalità nell'omissione non può essere meramente materiale, in quanto “ex nihilo nihil fit” ed il suo accertamento postula un giudizio ipotetico sulla idoneità dell'azione prescritta e colpevolmente omessa ad impedire l'evento, pur restando, comunque, distinguibili il piano della causalità e quello della colpevolezza. Anche in relazione alla causalità nell'omissione in ordine all'illecito aquiliano resta applicabile il principio per cui, non avendo l'art. 2056 cod. civ. richiamato l'art. 1225 cod. civ., sono risarcibili sia i danni prevedibili che imprevedibili, atteso che le dette particolarità rilevano sul piano della causalità giuridica di cui all'art. 1223 cod. civ. e non su quello della causalità materiale di cui agli artt. 40 e 41 cod. pen.».