Sono ormai trascorsi sei mesi dall’ordinanza 97 del 2021[1], con la quale la Corte costituzionale ha ritenuto «la necessità che l’intervento di modifica di aspetti essenziali dell’ordinamento penale e penitenziario […] sia, in prima battuta, oggetto di una più complessiva, ponderata e coordinata valutazione legislativa», spettando «in primo luogo al legislatore, infatti, ricercare il punto di equilibrio tra i diversi argomenti in campo, anche alla luce delle ragioni di incompatibilità con la Costituzione attualmente esibite dalla normativa censurata»[2].
Giunti a metà del guado (il rinvio all’udienza pubblica del 10 maggio 2022 è stato fissato per «verificare ex post la conformità a Costituzione delle decisioni effettivamente assunte – ordinanze n.132 del 2020 e 207 del 2018»), la Commissione Giustizia della Camera ha votato un testo (diverso dalle proposte di legge precedentemente presentate) che lungi dal misurarsi con le indicazioni di rotta provenienti dalla Corte si rivela per quello che è: strame del "diritto alla speranza", in aperto contrasto con la Costituzione.
Materia buona per il consenso politico, e poco importa quel che succederà, ché poi potrà sempre dirsi che è colpa della Corte.
Prima di passare dunque all’esame del testo[3], si darà conto, sia pur in sintesi, dei punti centrali e più problematici contenuti nelle diverse proposte precedenti, anche in considerazione del fatto che non può escludersi che in eventuali futuri passaggi in aula si recuperino ulteriori strappi costituzionali; laddove talune previsioni delle proposte si rivelino sostanzialmente simili ci si limiterà per ragioni di sintesi ad un’unica breve disamina delle tante pietre di inciampo apposte alla rotta segnalata dalla Consulta.
Andando con ordine
La prima proposta di legge presentata in materia il 2 luglio 2019 dalla Deputata Bruno Bossio (dunque prima dell’ordinanza 97/2021) è certamente l’unica in linea con la prospettiva indicata dal leading case Vinter c. Regno Unito, avendo delineato la possibilità di accesso ai benefici penitenziari anche per i soggetti non collaboranti, condannati per delitti ostativi, laddove sia possibile rinvenire aliunde il segno d’una loro rivisitazione critica, di cui debba adeguatamente darsi conto in motivazione.
Composta di un solo articolo, la proposta prevede anche che le varie agenzie deputate alla trasmissione delle informazioni richieste debbano astenersi dall’esprimere pareri sulla concessione dei benefici, fornendo piuttosto elementi concreti e specifici che dimostrino in maniera certa l’attualità di collegamenti degli istanti con la criminalità organizzata (nulla in tema del pericolo di ripristino).
Seconda, in ordine temporale, la proposta di legge presentata alla Camera l’11 maggio 2021, prima firma Ferraresi, sulla quale il Movimento 5S ha concentrato tutti i suoi sforzi, perfino chiedendo che essa costituisse il testo base su cui avviare la discussione ed il voto in Commissione.
Composta di quattro articoli, la stessa non si limita a metter mano alla materia devoluta al giudizio della Corte, ma prevede una delega al Governo in materia di accentramento della competenza della magistratura di sorveglianza c/o il Tribunale romano per i giudizi riguardanti i soggetti sottoposti al regime differenziato per delitti di mafia o terrorismo, per le decisioni concernenti le modalità esecutive del regime e per quelle da assumersi per motivi di salute.
Sul punto, non a caso, la proposta sviluppa le indicazioni provenienti dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere, che in data 20 maggio 2020 ha presentato una relazione sull’art.4 bis o.p. e sulle conseguenze derivanti dalla sentenza n.253 del 2019 della Corte costituzionale.
Quanto alla delega al Governo contenuta sul punto all’art.2 del testo, è sufficiente evidenziare come eventuali attribuzioni di competenza centralizzata finirebbero col sottrarre alla magistratura di prossimità le prerogative che costituiscono l’ubi consistam del giudizio di sorveglianza, laddove è invece indispensabile che il giudice abbia contezza delle condizioni detentive che fanno da sfondo alle richieste del condannato, anche per le decisioni da assumersi in sede di reclamo giurisdizionale, ex art.35 bis o.p.
Per ciò che concerne le disposizioni sostanziali, si prevede l’inserimento di una disciplina analoga a quella di cui al comma 2 cpv dell’art. 41 bis o.p., per impedire l’accesso ai benefici (salva la collaborazione prestata) anche in caso di espiazione della pena patita per delitti ostativi quando sia stata accertata (anche in fase di cognizione) la connessione tra i reati la cui pena è in esecuzione.
Si supererebbe in questo modo un orientamento consolidato[4] che prevede la possibilità di scioglimento del cumulo per l’accesso ai benefici penitenziari, tema del quale la stessa Corte costituzionale ha avuto modo di occuparsi[5], affermando come debba «ritenersi ulteriormente valorizzato il tradizionale insegnamento giurisprudenziale della necessità dello scioglimento del cumulo in presenza di istituti che, ai fini della loro applicabilità, richiedano la separata considerazione dei titoli di condanna e delle relative pene”, con buona pace dei proponenti, non potendosi accettare “una sorta di status di detenuto pericoloso che permei di sé l’intero rapporto esecutivo a prescindere dal titolo specifico di condanna».
Ancora, l’art.1 prevede di estendere la valutazione del rischio del pericolo di ripristino anche per i casi di collaborazione impossibile/inesigibile[6], e disciplina altresì modalità di accesso ai benefici per i non collaboranti condannati all’ergastolo (a detta previsione vengono equiparati anche i condannati a pena diversa, ai fini della concessione del permesso premio). Sul punto, si stringe sulla necessità di far fonte alle obbligazioni civili derivanti dal reato e si pretende che il condannato giustifichi ed indichi le specifiche ragioni della mancata collaborazione[7].
Proseguendo nell’analisi del testo (e qui tralasciando l’esame delle disposizioni procedimentali e degli oneri motivazionali per il giudice che intenda discostarsi dalle informazioni acquisite), si prevede (art.4) che il termine per chiedere la liberazione condizionale per il condannato all’ergastolo sia portato a trenta anni, e che in tal caso la libertà vigilata estingua la pena dopo dieci anni, e non più cinque.
In disparte ogni più ampia valutazione sulla costituzionalità della presunzione di pericolosità della misura di cui all’art. 230, comma 1, n.2, c.p., in combinato disposto con l’art. 177, comma 2, c.p., che qui non è possibile trattare, ci si limita ad evidenziare l’assenza di disciplina transitoria della proposta, ciò che espone (inter alia) la stessa a plurimi dubbi di incostituzionalità anche sotto questo profilo, sol che si tenga conto di quanto affermato con la sent. n. 32/2020 e l’ordinanza n. 183/2020 della Corte costituzionale.
Infine, incredibilmente, una manifesta violazione della Costituzione (art.137, ult. comma), laddove si prevede la reintroduzione di una disciplina (art.58 quater, comma 4, o.p.) dichiarata incostituzionale dal Giudice delle leggi[8].
La terza proposta di legge (N.3184) è stata presentata alla Camera il 30 giugno 2021 da quindici deputati (primo firmatario Delmastro Delle Vedove); la relazione è illuminante.
Si pone infatti «l’obiettivo di salvaguardare, pur nel rispetto delle indicazioni della Corte, le esigenze social-preventive nei confronti della criminalità organizzata e di difesa sociale e di scongiurare che il percorso di frontale contrasto della criminalità organizzata venga disarticolato a causa di mal interpretati e mal metabolizzati principi relativi alla funzione rieducativa della pena», aggiungendosi ancora come, senza disconoscere detto scopo, ci si prefigga «di riaffermare e di valorizzare anche la funzione social preventiva, retributiva e punitiva della pena».
C’è scritto così, per chi avesse dei dubbi: «funzione punitiva»[9], con buona pace delle considerazioni sul punto del Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale[10].
Del resto, i deputati di F.lli d’Italia affermano chiaramente di voler evitare «ogni altra e più lassista impostazione [che] rischierebbe di disperdere il patrimonio giuridico degli istituti posti a presidio della legalità e per fronteggiare la criminalità organizzata»; ognuno lustra l’argenteria che ha in casa, e quella che si propone di introdurre con il comma 1 sexies dell’art. 4 bis o.p. («in termini meramente esemplificativi, non tassativi e quindi non esaustivi»…hai visto mai il lettore non avesse inteso…) costituisce un vero e proprio guazzabuglio, per di più (a tacer d’altro) tecnicamente claudicante[11].
Dopo le proposte citate, anche la Fondazione Giovanni Falcone ha inviato la sua (redatta dal Dott. Antonio Balsamo e dal Dott. Fabio Fiorentin) ai componenti della Commissione Giustizia della Camera.
Il testo è già stato oggetto di alcuni primi commenti, ai quali si fa qui rinvio per ragione di sintesi[12]; come ricordato in premessa, valgon per esso e per le altre proposte tutte le osservazioni concernenti disposizioni in parte comuni.
Ancora, la quarta proposta di iniziativa parlamentare (di marca leghista, primo firmatario Paolini) è stata presentata il 13 ottobre 2021, prendendo le mosse dall’affermata considerazione secondo la quale (così si legge nella relazione di accompagnamento) «questa percezione del problema e del relativo rischio, che è ben nota alla magistratura e alle Forze di polizia del nostro Paese, non è altrettanto chiara in altri Paesi europei (e quindi, indirettamente, nei loro giudici)»[13].
Grande è la confusione sotto il cielo
In sintesi, pur mantenendosi la possibilità di considerare la collaborazione impossibile/inesigibile/irrilevante (peraltro valutando, anche a tal fine, l’assenza del pericolo di ripristino dei collegamenti criminali, con allegazioni da parte del condannato), vengono introdotti dodici elementi di valutazione. Tra essi, «l’aver ottenuto il perdono esplicito e formale delle vittime del reato» (un’intollerabile giustizia privata), «l’essersi distinto per comportamenti particolarmente lodevoli» (non si comprende cosa siano, quale il parametro di giudizio, e apprezzato da chi), «le ragioni della mancata collaborazione»[14] e, alle lett. I) ed n) dell’art. 4 bis, comma 1 bis.1 o.p. che si vorrebbe introdurre, veri e propri indicatori attestanti la collaborazione (che dunque si ripropone come porta di ingresso per l’accesso ai benefici penitenziari), definita nella relazione di accompagnamento «in conflitto di interessi con terzi…per superare una sorta di remora morale ad accusare il consanguineo o il complice». Una sorta di whistleblowing criminale.
Ancora, si prevede di introdurre la possibilità di un vero e proprio potere di veto degli inquirenti in ordine all’accesso ai benefici e, soprattutto, la possibilità che con la sentenza di condanna il giudice possa «statuire anche un periodo, non superiore a tre anni, entro il quale sia preclusa la possibilità di richiedere tutti o alcuni dei benefici previsti dalla presente legge».
Su quest’ultimo aspetto, la relazione è davvero incredibile: si sostiene infatti che tale divieto consentirebbe «di modulare in modo ancora più individualizzato la pena irrogata, rendendo possibile, ad esempio in sede di patteggiamento, concordare, in parte, anche le modalità esecutive». Ora, al di là dell’ovvia considerazione per la quale appare francamente difficile sostenere che un divieto costituisca strumento di modulazione di qualcosa, un accordo tra le parti che contemplasse detta ipotesi finirebbe col rendere pari a zero l’accesso all’istituto di cui all’art.444 c.p.p.
Quanto all’esempio dell’isolamento diurno, ex art.72 c.p., bruttura giuridica che andrebbe definitivamente espunta dall’ordinamento, indicato come strumento per «anticipare e incentivare, già in fase di giudizio di merito, l’eventuale collaborazione dell’imputato all’accertamento della verità, consentendogli, con una condotta processuale collaborativa, di concorrere a predeterminare in parte anche il modo, oltre che la quantità, della pena espianda», valgono le motivazioni della sentenza n.253/2019[15].
Infine, diamo qui conto in sintesi di una provocazione, l’ennesima, nuovamente proveniente da Fratelli d’Italia (prima firmataria, Meloni).
Si tratta, in questo caso, di una proposta di legge costituzionale, presentata l’8 giugno 2021, di cui si è avuta notizia pubblica in questi giorni.
Si propone, citando a caso sentenze della Consulta, una «collocazione orizzontale dei valori costituzionali della funzione rieducativa della pena e, al contempo, della tutela dell’interesse alla salvaguardia dell’ordine pubblico e della sicurezza dei cittadini».
L’ordine pubblico
Veniamo al testo base concordato tra i Gruppi e discusso in Commissione Giustizia che appare immediatamente come un tentativo tarlato da stridente improvvisazione di neutralizzare le spinte riformatrici delle Giurisdizioni superiori annientandone di fatto la portata nel solco di un impeto di preservazione del diritto penale del nemico e delle sue più estreme conseguenze.
Viene disegnata con più nitore la figura del detenuto irredimibile con un superamento delle preclusione assoluta dei meccanismi ostativi che risulta meramente apparente.
Viene eliminato l'art. 4 bis co. I bis O.P., l'istituto della collaborazione inesigibile cui aveva dato vita la Consulta constatate situazioni nelle quali il detenuto, in ragione di una partecipazione minima al reato, o del compiuto disvelamento dei fatti e delle responsabilità, non fosse in grado di offrire una collaborazione utile con la giustizia e, dunque, fosse ingiustamente escluso dall'accesso ai benefici.
Una rimozione che appare marcatamente incostituzionale ove si consideri il carattere di necessarietà dell’istituto consacrato dalla Consulta con due differenti pronunce additive[16] - motivate dalla tutela del principio di eguaglianza sostanziale nonché dell'anima costituzionale di ogni pena - con cui le ipotesi di impossibilità/inesigibilità della collaborazione sono state estese a tutti i casi in cui il soggetto condannato per reati ostativi, incolpevolmente impossibilitato a collaborare con la giustizia, fosse di fatto irreversibilmente sottratto all'accesso ai benefici premiali[17].
Va precisato che il soggetto la cui collaborazione sia riconosciuta inesigibile non è assimilabile al non collaborante. La differenza è chiara e sostanziale tra chi vuole collaborare ma non può e chi, pur potendo, sceglie di non farlo. La procedura di valutazione della collaborazione inesigibile è faticosa, complessa e di difficile accesso. Richiede, al pari di quella prevista dall'art. 58 ter o.p., una corposa istruttoria tesa a dimostrare l'assenza di collegamenti con il gruppo di appartenenza e una udienza collegiale volta alla verifica in contraddittorio delle condizioni richieste: che il ristretto non sia in grado di fornire elementi utili al disvelamento di nuovi scenari processuali in ragione o del ruolo rivestito nell'ambito associativo o del già intervenuto accertamento di fatti e di responsabilità dei quali sia presumibile, alla luce dei capi di imputazione che gli sono stati contestati, che abbia avuto diretta conoscenza. Una volta verificati tali presupposti, il provvedimento del Tribunale che riconosca sussistente la collaborazione inesigibile comporta che il richiedente sia trattato, ai fini della concessione di benefici e di misure alternative, come un collaboratore di giustizia. In nessun caso, dunque, potrà essere parificato al soggetto non collaborante per sua scelta legittima sul quale ricade la presunzione, ora relativa, di perdurante pericolosità sociale da abbattere attraverso la farraginosa e pressoché insuperabile rete di allegazioni, pareri e sbarramenti di ogni genere.
Allo stato, il richiedente permesso post sentenza 253 del 2019 che aspiri alla collaborazione inesigibile, infatti, prima che il magistrato di sorveglianza possa valutare la meritevolezza del beneficio, deve attendere che l'organo collegiale abbia acclarato che non collabora non perché non vuole, ma perché non può. Non è tenuto, dunque, all'onere della prova rafforzato (assenza di collegamenti e impossibilità di ripristino) a fronte di una verifica complessa che determina nel detenuto il venir meno della condizione di ostativo[18]. La mancata collaborazione involontaria, insomma, non può equipararsi alla mancata collaborazione volontaria, pena l'incostituzionalità di una norma, il nuovo art. 4 bis co. I bis, che muove da una confusione concettuale ed elimina un istituto introdotto a sanare una già constatata illegittimità.
Ancora. Il nuovo testo disegna ulteriori, più stringenti paletti nel pretendere che il recluso dimostri l'integrale adempimento delle obbligazioni civili o l'assoluta impossibilità di esso e fornisca specifiche allegazioni, diverse e ulteriori rispetto ad una dichiarazione di dissociazione dall'organizzazione criminale di originaria appartenenza, idonee ad escludere con certezza l'attualità di collegamenti ed il pericolo di ripristino. Rende necessitata, dunque, la dichiarazione di dissociazione, con ciò lasciando fuori le aspirazioni di ritorno in società di quanti abbiano esercitato il diritto al silenzio (più volte definito inalienabile – sentt. n.238 del 2014, 323 del 1989, 18 del 1982)[19] o non abbiano mai cessato di gridare la propria professione di innocenza. Come costringere, infatti, ad una dichiarazione di presa di distanza una persona che non abbia mai ammesso, a torto o a ragione, comunque legittimamente e nel pieno esercizio dei suoi diritti, l'appartenenza?
La proposta votata dalla Commissione Giustizia, ancora, accomuna i reati di matrice associativa a quelli contro la pubblica amministrazione, tradendo il richiamo della Consulta ad una differenziazione tra le fattispecie inalveate nel 4 bis, assai diverse quanto ad offensività, nell'accesso alle opportunità trattamentali.
Uniforma l'onere probatorio per accedere al permesso premio e a tutte le misure ordinamentali connotate, invece, da differenze di sostanza connaturate al raggiungimento da parte del ristretto di obiettivi progressivi che lo rendano gradualmente meritevole di accedere a più ampi spazi di libertà e di responsabilità.
La liberazione condizionale costituisce il momento ultimo di un percorso; la possibilità concreta per il recluso di fare ritorno in società. È previsto che la persona condannata possa giungervi attraverso una osservazione intramuraria e, man mano che espia la sua pena, attraverso momenti di valutazione esterna via via più dilatati nel rispetto di un altro principio, anch'esso di valenza costituzionale: la progressione trattamentale. L'ordinamento, dunque, offre al detenuto l'opportunità di dimostrare l'effettività del proprio recupero gradatamente, risultando illogico che una persona torni libera in società senza che se ne sia testato il comportamento nell'approccio con il mondo esterno. Ciò corrisponde innanzitutto a un'esigenza di sicurezza ma anche alla necessità che il ristretto riprenda il contatto con il contesto sociale in modo progressivo e non traumatico. Per tale ragione l'ordinamento penitenziario prevede una serie di misure di reintegrazione: dal permesso premio, considerato parte del percorso trattamentale, che consente un primo, brevissimo, contatto con l'esterno, alle misure alternative alla detenzione (semilibertà, detenzione domiciliare, affidamento in prova al servizio sociale, fino alla liberazione condizionale).
La mancata diversificazione delle tappe del percorso detentivo in termini di onere probatorio e di verifica della maturità raggiunta dal ristretto rispetto ai nuovi e man mano più ampi traguardi di libertà destituisce di ragionevolezza e di efficacia l’individualizzazione del trattamento e la commisurazione ai progressi del soggetto dei benefici, non a caso definiti "premiali", in relazione ai risultati raggiunti e alla gradualità della restituzione al consesso sociale.
Il testo appena approvato stabilisce una soglia di certezza della prova, anche negativa, che, oltre ad essere diabolica ed inarrivabile per il recluso, appare in chiaro conflitto con il senso delle misure premiali ancorate ad un giudizio prognostico supportato, certo, da elementi concreti ma impossibile da santificare a verità assoluta. Amplia la rete dei destinatari richiamando l'art. 51 comma 3 bis e quater del codice di procedura penale che contempla fattispecie ad oggi non racchiuse nel 4 bis. Disegna un dedalo di pareri e di istanze istruttorie da parte delle Procure ed enfatizza gli oneri di motivazione per i giudici che volessero concedere un beneficio superando le opposizioni, così limitandone l'indipendenza e la libertà di giudizio a fronte di un impeto che è comunque di parte.
Stabilisce la pedissequa applicazione a chi ottenga un beneficio qualsiasi di prescrizioni di cautela previste dal codice antimafia finalizzate a prevenire il ripristino di collegamenti con la criminalità. Raddoppia il tempo minimo della pena espiata ai fini della ammissibilità della richiesta di un permesso premio o di una misura alternativa al carcere e porta a trent'anni quello per la liberazione condizionale, aumentando indiscriminatamente il tempo di soggezione alla libertà vigilata, così pervenendo a risultati paradossali quali parificare il tempo minimo del carcere patito per richiedere la semilibertà o la liberazione condizionale, dimostrando, anche in ciò, la cieca indifferenza alla previsione della gradualità del reinserimento che tutela anche la sicurezza sociale.
Inserisce (art. 1, n. 3), laddove delinea il tetto di pena ai fini della ammissibilità dell'accesso ai benefici di cui agli artt. 21, 30 ter co. 2 e 4, 50 O.P., la specificazione che la pena sia "effettivamente" espiata, insinuando la suggestione che si voglia intendere la esclusione dal computo delle decurtazioni scaturite dal godimento del beneficio della liberazione anticipata. Tale lettura radicherebbe all'evidenza una stridente frizione costituzionale confliggendo con la ormai datata pronuncia della Consulta, n. 274 del 1983, che nell'ammettere gli ergastolani alla fruizione del beneficio ex art. 54 O.P. poneva al centro del ragionamento la finalità rieducativa di ogni pena per ogni recluso, indipendentemente dal reato commesso. «La partecipazione alla rieducazione, che serve per la liberazione anticipata, è propedeutica al sicuro ravvedimento, che serve invece per la liberazione condizionale. Se la condizionale rende costituzionalmente compatibile l’ergastolo, allora non è possibile non estendere agli ergastolani la possibilità della liberazione anticipata, poiché entrambi rendono concreta la rieducazione delle pene»[20].
Ad assecondare tale lettura apparirebbe, peraltro, vistosamente illogico che lo stesso inciso non sia stato previsto nella modifica dell'art. 176 del codice penale laddove, nell'aumentare a trent'anni la pena da espiare per fruire della liberazione condizionale, l'avverbio “effettivamente” non è riportato. Così per l'accesso alla semilibertà servirebbe un tempo maggiore che per il conseguimento dell'ultimo obiettivo trattamentale, la restituzione alla libertà.
In ultima analisi, il testo appena approvato tende, al di là delle marcate confusioni concettuali, a cristallizzare il crisma della irredimibilità, contro i moniti della Corte, contro la stessa natura umana vocata all'errore quanto al suo superamento.
Appaiono un miraggio i principi guida disegnati nel tempo dalla Corte[21].
C’è chi ha messo in chiaro le cose[22], invitando ad alzare la guardia: «un aggravio probatorio a carico del richiedente – sino a chiedergli di provare il fatto negativo della mancanza di collegamenti con la criminalità organizzata – renderebbe solo nominale la modifica della presunzione di pericolosità, senza contare che la prova negativa di un fatto non può mai essere richiesta, incombendo all’autorità provare, semmai, la mancanza dei requisiti richiesti per accedere ad un beneficio. Una soluzione che non tenesse conto di queste basilari regole di diritto esporrebbe la nuova disciplina ad un nuovo giudizio di costituzionalità, il che ci pare un risultato da evitare».
Non basta dunque confidare nella saggia opera nomofilattica della Suprema Corte, quanto agli oneri probatori rafforzati[23]; a differenza di chi si rivela ottimista[24], invitando a guardare al processo di cui all’ordinanza n.97/2021 come a un percorso, più che a un giudizio, contando sul fatto che «la più che probabile inerzia futura del Parlamento, rimesso in gioco per l’ultima volta, sminerà il tratto di strada che separa dalla dichiarazione formale dell’incompatibilità tra la Costituzione ed una pena immutabile e dunque effettivamente non riducibile», qui si è dato conto che i gruppi parlamentari si muovono (facite ‘a faccia feroce!), pronti a passare all’incasso.
Si starà a vedere, con la consapevolezza che comunque sarà la Corte a compiere l’ultimo scrutinio del prodotto che dovesse arrivare sul banco di udienza della prossima primavera, verificando non si tratti di truffa delle etichette.
[1] Tra i tanti commenti sul punto cfr. D. Galliani, Il chiaro e lo scuro. Primo commento all’ordinanza 97/2021 della Corte costituzionale sull’ergastolo ostativo, in Giustizia Insieme, 20 maggio 2021; E. Dolcini, L’ordinanza della Corte costituzionale n.97 del 2021: euforie, dissonanze, prospettive inquietanti, in Sistema Penale, 25 maggio 2021; H.J. Woodcock, Qualche considerazione sulla recente pronuncia della Corte costituzionale in materia di ergastolo ostativo, in Questione Giustizia, 26 maggio 2021; F. Gianfilippi, La esibita incostituzionalità della preclusione assoluta all’accesso alla liberazione condizionale per il condannato all’ergastolo per reati di mafia non collaborante e il ritardo già cumulato dal legislatore nel porvi rimedio, in Questione Giustizia, 27 maggio 2021; M. Passione, Il muro torto. Barlumi di incostituzionalità dell’ergastolo ostativo, in Diritto di difesa, 27 maggio 2021; M. Pelissero, Il percorso sospeso: la posta in gioco radicale dell’ergastolo ostativo, in Diritto penale e processo n.8/2021; A. Pugiotto, Leggere altrimenti l’ord. n. 97/2021 in tema di ergastolo ostativo alla liberazione condizionale, in corso di pubblicazione, in Giurisprudenza costituzionale, 2021.
[2] Plaude a tale soluzione D. Mauri, La prevista censura dell’ergastolo ostativo non andrà in onda: al suo posto “un invito al legislatore”, in SIDIBlog, 27.5.2021, che leggendo la decisione della Corte alla luce della sentenza Viola c. Italia (n.2), con la quale si affermava la necessità di una riforma del regime ostativo “de préférence par initiative législative”, ritiene che la Consulta si sia mossa in attuazione diretta del principio di sussidiarietà, così garantendo l’esecuzione delle sentenze dell’organo convenzionale oltre il caso di specie.
[3] E. Dolcini, Fine pena: 31/12/1999. Il punto sulla questione ergastolo, in Sistema Penale, 15 novembre 2021.
[4] Cfr. SS.UU. 30.6.1999, n.14, Ronga; ex multis, successivamente, Cass. Sez. I, 11.12.2020, n. 13041.
[5] Corte cost., sent.n.361 del 1994.
[6] Cfr. la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Magistrato di sorveglianza di Padova il 12.4.2021, in GU del 9.6.2021.
[7] Contra, sent. Corte cost. n.253/2019 e 84/2021, ord. Corte cost. n.97/2021.
[8] Corte cost., sent.n.149 del 2018.
[9] D. Fassin, Punire: una passione contemporanea, Feltrinelli Editore, 2017.
[10] M. Palma, nella Relazione al Parlamento del 2020, ha opportunamente ricordato che «il contenuto della pena detentiva è la privazione della libertà e si va in carcere perché si è puniti, e non per essere puniti».
[11] Si pensi al richiamo dell’art.116, primo comma, c.p., (mutuato dalla vigente disposizione ex art. 4 bis, comma 1 bis, o.p.), invece che del secondo comma della norma citata, oppure alla non meglio specificata «intervenuta adozione di provvedimenti patrimoniali e al loro stato di concreta esecuzione».
[12] E. Dolcini, Reati ostativi e collaborazione con la giustizia: la proposta di riforma della Fondazione Falcone, in Sistema Penale, 2 novembre 2021; M. Passione, Vigilando redimere, in www.osep.jus.unipi.it
[13] Si vedano in proposito le dichiarazioni di Matteo Salvini all’Adnkronos dell’8 ottobre 2019: «ennesima follia ai danni dell’Italia dalla Corte dei diritti umani di Strasburgo. Dovremmo essere più gentili con ergastolani, mafiosi e assassini? Mai. Per quanto riguarda me e la Lega il carcere a vita per i peggiori delinquenti non si tocca, semmai lavoriamo per introdurre il lavoro obbligatorio in carcere come avviene in altri Paesi al mondo».
[15] Corte cost., sent. n. 253 del 2019, § 8.1 Considerato in diritto «Alla luce degli artt.3 e 27 Cost, l’assenza di collaborazione con la giustizia dopo la condanna non può tradursi in un aggravamento delle modalità di esecuzione della pena, in conseguenza del fatto che il detenuto esercita la facoltà di non prestare partecipazione attiva a una finalità di politica criminale e investigativa dello Stato».
[16] C. Cost. n. 357 del 27.07.1994; n. 68 dell'01.03.1975.
[17] A. Della Bella, La Cassazione dopo la sentenza 253 della Corte Costituzionale: il destino della collaborazione impossibile e lo standard probatorio richiesto per il superamento della presunzione assoluta di pericolosità, in Sistema Penale, 16.04.2020; L. Caraceni, sub art. 4 bis, in AA.VV., Ordinamento penitenziario commentato, a cura di F. Della Casa, G. Giostra, Milano, 2019, p. 67 ss.
[18] A. Ricci, “Collaborazione impossibile” e permessi premio: le prime risposte della giurisprudenza di legittimità post sentenza Corte Costituzionale n. 253 del 2019, in Giurisprudenza Penale, 09.05.2020.
[19] M. Passione, Il Muro Torto. Barlumi di incostituzionalità dell’ergastolo ostativo, in Diritto di Difesa, 27.05.2021.
[20] D. Galliani, Umana e rieducativa? La pena dell’ergastolo dinanzi alla Corte costituzionale.
[21] Corte cost., sent. n. 313 del 1990, § 8 Considerato in diritto, «se la finalizzazione venisse orientata verso quei diversi caratteri (reintegrazione, intimidazione, difesa sociale) anziché al principio rieducativo, si correrebbe il rischio di strumentalizzare l’individuo per fini generali di politica criminale (prevenzione generale) o di privilegiare la soddisfazione di bisogni collettivi di stabilità e sicurezza (difesa sociale), sacrificando il singolo attraverso l’esemplarità della sanzione»; Corte cost., sent. n.149 del 2018, § 7 Considerato in diritto, «La finalità di rieducazione del condannato [è] ineliminabile (sentenza n.189 del 2010), [e] deve essere garantita anche nei confronti di autori di delitti gravissimi, condannati alla massima pena prevista nel nostro ordinamento, l’ergastolo (sentenza n.274 del 1983)»; Corte cost., sent. n. 40 del 2019, § 5.2 Considerato in diritto, «I principi di cui agli artt. 3 e 27 Cost. esigono di contenere la privazione della libertà e la sofferenza inflitta alla persona umana nella misura minima necessaria e sempre allo scopo di favorirne il cammino di recupero, riparazione, riconciliazione e reinserimento sociale (sentenza n.179 delm 2017), in virtù del progressivo reinserimento armonico della persona nella Società, che costituisce l’essenza della finalità rieducativa della pena (da ultimo, sentenza n.149 del 2018)».
[22] Ergastolo ostativo e pena costituzionale: una nota dell’Associazione Antigone, in www.antigone.it
[23] Cfr. Corte Cass., Sez.I, sent. 14.7.2021, n.33743, secondo la quale il condannato «non può essere chiamato a riferire in sede di domanda introduttiva su circostanze di fatto estranee alla sua esperienza percettiva e, soprattutto, non può fornire – in via diretta – la prova negativa…del pericolo di ripristino dei contatti», dovendosi esigere che la domanda possa essere introdotta dall’interessato «in chiave meramente logica, e non rappresentativa»; F. Gianfilippi, Dopo la sentenza n. 253 d/2019 della Corte Costituzionale: oneri di allegazione e istanze di permesso premio dell'ergastolano non collaborante, in Sistema Penale, 20.09.2021.
Michele Passione, avvocato del Foro di Firenze
Maria Brucale, avvocata del Foro di Roma