Magistratura democratica
Leggi e istituzioni

L’organizzazione degli uffici di procura *

di Piero Gaeta
avvocato generale presso la Procura generale della Corte di cassazione
Note sull’evoluzione dell’indipendenza ‘interna’ del pubblico ministero: verso una gerarchia funzionale

1. Licitazione

La riflessione che proverò a svolgere si può interamente compendiare in alcuni interrogativi: a distanza, ormai, di poco meno di tre lustri dalla riforma dell’ordinamento giudiziario del 2006, quale è la ‘condizione di effettività’ dell’indipendenza del singolo magistrato inquirente all’interno degli uffici di procura? Esiste un problema creato dalla gerarchia per l’indipendenza del pubblico ministero?

Si tratta, all’evidenza, di una riflessione sulla traccia di metodo di una Wirfungsgeschichte, di una “storia degli effetti”: autorizzata, per un verso, da un lasso temporale significativo ed abbastanza ampio per ritenere che l’interazione tra modello normativo (quello del 2006) e prassi si sia sufficientemente stabilizzata e, per altro verso, dalla previsione che l’attività paranormativa del Csm sull’organizzazione degli uffici di procura si sia ormai completamente espressa. Detto più semplicemente, è ragionevole ipotizzare che, dopo la “Circolare sull’organizzazione degli Uffici di Procura” approvata, dopo due anni di lavoro, dall’organo di autogoverno il 16 novembre 2017, non interverranno in questo ambito – nel breve/medio periodo- ulteriori e rilevanti modifiche normative o paranormative. In breve, il sistema si è stabilizzato ed è in uno ‘stato di quiete’: si presta dunque ad analisi.

Sacrifico allora la suspence e rispondo subito agli interrogativi, tentando successivamente di argomentare.

In un’estrema sintesi enunciativa, ritengo che la garanzia di indipendenza interna del pubblico ministero (con i suoi riverberi su quella funzionale) rappresenti ancora oggi un sistema perennemente in bilico: sospeso tra le esigenze di uniformità dell’esercizio dell’azione fortemente perseguite dal legislatore (da tutti i legislatori storici, senza apprezzabili differenze di colore politico) e le ragioni di autonomia del singolo sostituto, contrapposte essenzialmente dal Csm che, con la sua attività paranormativa, ha rappresentato, sul punto, un’importante stanza di compensazione. Ne è scaturita una serie di prassi – faticose, mai compiutamente tranquille, sempre precarie e, pur tuttavia, resistenti nel tempo – che hanno probabilmente fermato la preminenza di una deriva gerarchica – di una gerarchia d’antan, per intendersi ­– strutturandola piuttosto in un modello diverso, che può denominarsi di gerarchia funzionale. Nondimeno, tale equilibrio, a mio avviso, si regge su di un elemento nascosto e sfuggente alle analisi di taglio esclusivamente normativo-ordinamentale: vale a dire che, presso la stessa magistratura inquirente, è progressivamente subentrata una sorta di accettazione/assuefazione culturale al principio di una gerarchia interna ‘temperata’. In breve, il modello normativo di gerarchizzazione, pur se manipolato nella sua attuazione dalle circolari del Consiglio, sembra essersi diffuso ed affermato soprattutto ‘culturalmente’, specie presso le più giovani generazioni, sopravvenute alla riforma del 2006, della magistratura inquirente. Con il doppio effetto paradosso per cui quest’ultima non ‘rivendica’ più un modello alternativo di ‘potere diffuso’ e non crea, generalmente, condizioni di conflitto interne agli uffici per affermare/rivendicare interamente la propria indipendenza interna: si ferma cioè prima del contrasto con il vertice dell’ufficio.

Si è insomma affermata l’idea della verticalizzazione attraverso una moral suasion, quale accettazione dell’idea che il modello ‘normale’ di organizzazione inquirente sia appunto inevitabilmente quello ispirato ad una gerarchia interna, riconoscendosi quasi sempre nella complessiva azione dell’ufficio nel suo complesso.

Detto in maniera cruda e, forse, fastidiosa: il modello gerarchico avuto in mente dal legislatore del 2006 ha ‘perso’ quanto agli intendimenti coltivati in origine, ma forse ha ‘vinto’ rispetto alla prospettiva culturale poi affermatasi, anche ben oltre di quanto faccia intendere il risultato normativo.

Ovviamente, in tali sintetiche e sommarie asserzioni si celano innumerevoli punti problematici non certo di dettaglio, ciascuno dei quali meriterebbe approfondita riflessione, se solo fosse possibile. Ad esempio, occorrerebbe domandarsi se la ‘resistenza paranormativa’ del Csm – a mio avviso oltremodo opportuna politicamente – sia stata anche, se guardata nel prisma neutrale della gerarchia delle fonti, legittima interamente; ancora: se questa sottile moral suasion sulla opportunità/necessità della gerarchia inquirente abbia, in qualche modo, depotenziato il ‘tono costituzionale’ del problema dell’indipendenza interna; soprattutto: quanto ancora resta, nel sommerso nell’organizzazione gerarchica degli uffici di procura (e nella sua ‘accettazione culturale’ da parte dei più), dell’eventuale ‘compressione’ del dissenso; infine, quanto sia stata effettivamente rispettata la congruità dei fini prefissati: vale a dire, uniformità dell’azione (contro le derive solipsistiche nella sua gestione), ma concomitante tutela del suo dinamismo, che è l’irrinunciabile precipitato dell’obbligatorietà.

Tutto ciò dimostra come il tema dell’indipendenza interna o funzionale – benché quasi sempre negletto o comunque recessivo, nella riflessione dottrinale, rispetto a quello assai più allarmante ed allarmato dell’indipendenza esterna ed istituzionale – coinvolga a tutto tondo l’intero ‘problema’ del pubblico ministero: ne implichi, cioè, lo scandaglio dell’habeas corpus costituzionale; della delineazione dei margini e della ‘storia’ ordinamentale di questa figura; della sua collocazione processuale e, non da ultimo, della sua omogeneità culturale alla giurisdizione.

2. Ambiguità costituzionale

Detto così, l’originaria intenzione di tracciare una (semplice?) “storia degli effetti” della riforma del 2006 si trasforma in una assai più impegnativa prospettiva di ricostruzione storico-normativa, ovviamente impossibile in questa sede.

Nondimeno, prima di argomentare sull’oggi e sulla tesi sopra enunciata, questo sfondo merita di essere richiamato sia pure per punti essenziali: in caso contrario, come è stato scritto, «l’indipendenza interna del pm rischia di scolorire fino a rendersi inafferrabile». [1]

Il primo scandaglio può esprimersi in questa domanda: quale ‘tono’ costituzionale ha l’indipendenza interna del pubblico ministero? Detto altrimenti: quali limiti incontra, rispetto al modello costituzionale del pubblico ministero, un’organizzazione gerarchica del suo ufficio o, per meglio dire ancora, fino a quale punto di ‘incomprimibilità’ delle prerogative del singolo magistrato inquirente essa può spingersi senza divenire disarmonica rispetto alla Carta?

Ancora una volta, per rispondere, sono costretto più a dovere assemblare affermazioni che a potere organizzare dimostrazioni.

Dico subito che, su questo problema, scontiamo innanzitutto il dato dell’ambiguità di fondo della disciplina costituzionale del pm, da sempre evidenziata, pur con diversità di toni, da chi si è accostato al tema [2]: sicché, davvero «risulta del tutto fuori luogo la pretesa, spesso coltivata, di estrarre dalla Costituzione un costrutto normativo completo da assegnare al pubblico ministero» [3].

Non abbiamo insomma, in Costituzione, uno statuto certo sul pubblico ministero.

Tuttavia – per quanto ambigua sia la Carta sul punto – appare difficilmente contestabile l’idea sistemica secondo cui «non sembra possibile ritenere che, per Costituzione, al pm debbano essere inevitabilmente assicurate tutte le medesime garanzie attribuite dalle restanti disposizioni del titolo IV a tutti i ‘magistrati’: rispetto alle norme costituzionali generali sui magistrati, le norme sul pm si pongono infatti in rapporto di specialità, o di eccezione a regola, sicché l’estensione al pm delle garanzie in parola è condizionata alle scelte del legislatore ordinario»[4]. Garanzie, dunque, per il pm previste dalla Costituzione, ma non in Costituzione, perché affidate (art. 107, comma 4), anche per il quantum, al legislatore, con una riserva di ‘ordinamento giudiziario’.

La Costituzione, in breve, ci dice solo che le garanzie debbono esserci; che devono essere recate dalle ‘norme sull’ordinamento giudiziario’ e che dunque il pm non potrà essere trattato dal legislatore ordinario – libero di stabilire il ‘tipo’ della garanzia di indipendenza- come un ‘corpo separato’ rispetto all’ordinamento dei magistrati.

Alla luce anche della giurisprudenza costituzionale, pare insomma innegabile il rilievo che, tanto l’art. 25, primo comma, quanto l’art. 101, secondo comma, della Costituzione marcano una differenza “di garanzia” tra giudice ed accusatore difficile da forzare [5], così sottolineando come le strade per pervenire a delineare i tratti costituzionali dell’indipendenza dell’organo dell’accusa non sono esenti certamente da asperità. Queste raggiungono la punta più acuta in quell’ultimo comma dell’art. 107 Cost., che segna ulteriormente il distacco, con una soluzione innegabilmente ambigua, dell’organo dell’accusa rispetto al giudice.

La “riserva di ordinamento giudiziario” sancita in Costituzione dall’art. 107, quarto comma, è infatti, nella sua nuda essenzialità letterale, in sé neutra, demandando all’interprete l’individuazione dei limiti entro cui essa può essere “spesa” dal legislatore ordinario. Personalmente, aderisco (pur senza poterne spiegare le ragioni) a quel metodo di lettura della norma costituzionale che ne valorizza il contenuto secondo il paradigma logico “regola-eccezione”.

Attraverso l’ultimo comma dell’art. 107, la Costituzione «stabilisce che al pm devono essere per legge assicurate garanzie, ma non dice quali» [6]: esse dovranno essere innestate con il mezzo della legge sull’ordinamento giudiziario, ma in cosa debbano risolversi tali guarentigie e, soprattutto, se il loro grado debba essere assimilato pienamente o meno a quello del giudice non è affatto esplicitato dal testo normativo. Sotto tale profilo, la legge sull’ordinamento giudiziario sarebbe «legge costituzionalmente obbligatoria», ma non «legge a contenuto costituzionalmente vincolato» [7]. Dunque: le garanzie riservate “per ordinamento giudiziario” al pubblico ministero potranno sì attingere la pienezza di quelle riconosciute, per Costituzione, al giudice: ma senza che a tanto, per Costituzione, il legislatore ordinario sia obbligato.

Ciò che, icasticamente, significa che «l’estensione delle garanzie in parola è condizionata dalle scelte del legislatore ordinario» e che dunque a quest’ultimo «la sorte del pm è rinviata». [8]. Tale conclusione se, per un verso, vale a stigmatizzare una «disarmonia» profonda tra questa disposizione e le altre che, in Costituzione, assimilano a vari fini il pubblico ministero al giudice [9], per altro verso focalizza appieno il problema del vincolo costituzionale che essa pone. Che è quello – una volta realizzata tale “decostituzionalizzazione” della materia delle garanzie del pm [10] – non già dell’eventuale munificenza del legislatore ordinario in ordine alle garanzie da assegnare al pm, quanto, all’inverso, del “livello minimo essenziale” di esse: cioè, dell’eventuale soglia incomprimibile di indipendenza che, per legge di ordinamento giudiziario, il legislatore ordinario è tenuto comunque ad attribuire [11].

La riserva di ordinamento giudiziario “tiene assieme” le figure di giudice e pubblico ministero: quest’ultimo «deve comunque restare all’interno dell’ordinamento giudiziario, non potendo la legge ordinaria estrometterlo, riducendolo al rango di funzionario amministrativo» [12]. Ciò significa che una struttura di gerarchia ‘esterna’ dell’ufficio del pm – immaginato, cioè, dipendente, secondo una linea gerarchica diretta, dal Ministro della Giustizia – troverebbe ostacolo costituzionale insuperabile, a tacer del molto altro, nella stessa previsione costituzionale invocata.

Peraltro, per ricostruire la complessa trama dei possibili esiti normativi conseguenti alla previsione costituzionale in esame, dovrebbero essere innanzitutto chiari i diversi profili della indipendenza: a pena, in caso contrario, di un fraintendimento complessivo del discorso.

Riprendendo importanti contributi sistematici sul tema [13], occorrerebbe distinguere tra tre diversi profili dell’indipendenza: un’indipendenza funzionale, che garantisce il magistrato nello svolgimento della funzione attribuitagli; un’indipendenza organizzativa, «che ha lo stesso scopo per quanto attiene alla struttura ed alla organizzazione degli uffici»; infine, un’indipendenza personale o di status, che attiene allo statuto riguardante la sua carriera (dunque: nomina, assegnazione di sede e di funzione, promozioni, trasferimenti, provvedimenti disciplinari, cessazione, ecc.). L’elaborazione dottrinale concorda poi – ed è una delle poche unanimità che si riscontrano sul tema – sulla circostanza che, quanto all’indipendenza di status, la posizione del pubblico ministero e quella del giudice risultano perfettamente coincidenti per la generale e non frazionabile garanzia dettata dagli artt. 104 e 105 della Costituzione e nessuna differenziazione tra magistrati requirenti e magistrati giudicanti è autorizzata dal testo costituzionale e giustificabile con il meccanismo dell’art. 107, quarto comma, Cost. [14]

Quanto all’indipendenza funzionale, le opinioni invece divergono.

Secondo una prima, preferibile prospettiva, indipendenza funzionale e principio di obbligatorietà dell’azione penale risultano essere profili inevitabilmente complementari: «il significato fondamentale dell’art. 112 Cost. è proprio quello di impedire ogni possibile limitazione della sfera di indipendenza funzionale attribuita ai magistrati del pm» [15]. Se si intende, invero, il principio di obbligatorietà come riferito non soltanto al concreto esercizio dell’azione, ma a tutta l’articolata fase di indagine che lo precede e lo genera, la conseguenza è, logicamente, pressoché obbligata: si deve cioè ritenere che ogni magistrato del pubblico ministero sia soggetto soltanto alla legge, esattamente come lo è il giudice nell’esercizio della sua attività, così necessitando delle identiche garanzie di funzione [16]. La garanzia di legalità sostanziale di cui all’art. 25, secondo comma, Cost. necessita, per la sua concretizzazione, della “legalità del procedere” e quest’ultima è realizzata, in forza del principio di eguaglianza dei cittadini, attraverso l’obbligatorietà dell’azione penale, unico strumento che assicura l’indipendenza dell’organo chiamato ad esercitarla e che, per l’effetto, lo rende soggetto solo alla legge, al pari del giudice.[17] In sintesi, principio di indipendenza del pubblico ministero e principio di obbligatorietà dell’azione penale sarebbero uniti da una «inscindibile correlazione», nel senso che l’applicazione rigorosa del secondo costituirebbe una ratio compensandi del primo, bilanciando l’assenza di controlli extra-processuali in ordine all’esercizio dell’azione penale e, dunque, l’assenza di responsabilità in capo all’organo inquirente. [18]

Nondimeno, nella riflessione dottrinale, paiono tutt’altro che univoche le conseguenze di tale impostazione. Essa, in una sua applicazione estesa, è utilizzata a legittimare il principio della personalizzazione e della diffusività dell’attività dell’inquirente, cosicché il principio di obbligatorietà dell’azione, convertendosi in quello più ampio della legalità dell’azione, risulterebbe antidoto non soltanto ad ogni intervento “esterno” da parte di altri poteri dello Stato, ma anche di uffici diversi del pubblico ministero ancorché “sovraordinati (rendendo, ad esempio, di dubbia compatibilità costituzionale istituti quale il potere di avocazione del Procuratore Generale), e persino rimedio, nei rapporti interni al singolo ufficio, ad ogni ingerenza “gerarchica” del vertice dell’ufficio medesimo. Ma questo ponte – lunghissimo – tra legalità dell’indagine (attraverso l’obbligatorietà dell’azione) e postulata necessità del potere diffuso del pm pare, a molti, vacillante.

Residua il terzo profilo, quello dell’indipendenza organizzativa: nel senso che tale àmbito resta l’unico – una volta operata la scansione della generale nozione di indipendenza – a poter ospitare il disposto (derogatorio) dell’art. 107, quarto comma, Cost. ed idoneo ad attribuire significato e senso alla norma costituzionale.

Ciò significa – traducendo la teoria nell’esperienza – che, quanto all’organizzazione interna degli uffici del pubblico ministero, il legislatore ordinario sarebbe legittimato dal disposto della Carta ad agire «con relativa libertà», in ragione della diversa ed affievolita incidenza delle norme costituzionali sulla conformazione interna di tali uffici rispetto a quelli degli organi giudicanti.[19] Come dire che, intesa in senso funzionale e personale – e cioè nei sensi maggiormente pregnanti della garanzia costituzionale – l’indipendenza del pubblico ministero può dirsi omologata a quella del giudice ed esclude, ovviamente, modelli di organizzazione degli uffici inquirenti soggetti a forme di controllo/condizionamento esterna, ma che il dettato costituzionale non palesa medesima univocità con riferimento all’organizzazione ‘interna’ dell’ufficio del pm [20]: e dunque, sotto tale profilo, non potrebbe affermarsi l’incompatibilità costituzionale di modelli di organizzazione gerarchica degli uffici inquirenti. Impregiudicati, naturalmente, i limiti di essa.

3. Fotogrammi di evoluzione ordinamentale

È nota poi l’evoluzione ad “andamento carsico” dell’ordinamento giudiziario sulla collocazione del pubblico ministero e sulla configurazione, quindi, della sua indipendenza interna all’ufficio.

Conviene – come già sopra annunciato – mettere in fila qualche fotogramma di un movie assai complesso ed articolato, la cui visione completa è qui impossibile. Sono solo icone, che valgono a far riflettere sull’archeologia del ruolo, quindi del sapere su di esso.

I primi fotogrammi, quelli più sbiaditi, ci riportano davvero alle origini, all’indomani dell’unificazione geografica ed istituzionale del Paese.

Il pubblico ministero aveva allora una carriera nettamente distinta da quella del giudice: egli era infatti, nell’ambito di un sistema fortemente gerarchico, «il rappresentante del potere esecutivo presso l’autorità giudiziaria, posto sotto la direzione del ministro della giustizia» (art. 129 r.d. 6 dicembre 1865 n. 2626, ordinamento giudiziario Rattazzi). Era dunque l’organo tramite cui il governo controllava da vicino l’amministrazione della giustizia e, soprattutto, i giudici. Riconoscimento, questo, già notevole: nel precedente Statuto Albertino, infatti, nessuna norma si occupava direttamente del pm, considerato − nota Giancarlo Scarpari − «un membro del potere esecutivo, tanto che l’ordinamento giudiziario del 1851 si limitava appena a menzionarlo − e solo perché titolare dell’azione disciplinare nei confronti degli altri giudici − ma non ne disciplinava affatto la carriera ed i poteri». [21]

Tale disegno istituzionale (prima ancora che strettamente processual-criminale) era di diretta filiazione e di pura omologazione all’esperienza francese,[22] dove tanto il Consolato, quanto l’Impero avevano modellato una giurisdizione che – direttamente dipendente dal ministro della giustizia – trovava nell’organo di accusa un’autentica longa manus per la vigilanza in loco sui singoli giudici e sugli affari della giurisdizione.

Insomma, il pubblico ministero nasce per un’unica funzione: quella disciplinare. È poco più di un ispettore governativo dei giudici, ne spia il lavoro, perché non ci si fida di essi: e, per altro verso, si giustifica se si tratta di compiere atti che il giudice non può compiere. [23]

Il tutto in armonia coerente, d’altra parte, con il ruolo “minimalista” che l’organo ricopre nel processo penale, anche qui in costante ossequio all’impostazione del Code d’instruction criminelle francese del 1808. Infatti, l’organo ‘di accusa’ vantava un potere di iniziativa investigativa legato esclusivamente al reato commesso in flagranza, unica ipotesi che lo legittimava a compiere tutti gli atti di indagine necessari per l’accertamento di esso (assunzione delle persone informate; interrogatorio, ecc.) e per l’impulso ulteriore, con presentazione immediata dell’arrestato dinnanzi al tribunale per il giudizio “direttissimo” «qualora siavi udienza» (o trattenendolo in custodia e citandolo, al massimo, per il giorno successivo, in caso contrario: art. 46, commi 1 e 2 cpp del 1865). La gestione processuale delle altre ipotesi di notizie di reato − quelle, cioè, non originate da un arresto flagrante – confermava, ancora, il ruolo di funzionario, di puro burocrate con funzioni ispettive e di impulso, del pubblico ministero: egli era tenuto ad investire immediatamente il giudice istruttore della notitia criminis per l’istruttoria, così completandosi il suo munus.[24]
Dunque: esigenze di controllo sulla giurisdizione o di pura dinamica processuale.

La vera mutazione avviene, in Italia, verso la fine del secolo XIX e, precisamente, nel decennio degli anni ottanta-novanta. E ciò sia perché all’inquirente – puro prodotto ‘politico’ ed in continua osmosi con i vertici del potere esecutivo – iniziano ad affiancarsi i magistrati ‘tecnici’, i vincitori, cioè, dei primi concorsi pubblici in magistratura dell’Italia unita; sia perché allorquando, con l’art. 18 della legge 8 giugno 1890 n. 6878, il guardasigilli Zanardelli, unifica le carriere della magistratura giudicante e del pubblico ministero [25], questa linearità del sistema – retrivo culturalmente quanto si vuole, ma pur sempre coerente – si incrina, pur permanendo un’unitaria architettura ideologica. In forza di quest’ultima, l’origine dell’organo − e cioè la dipendenza dal potere esecutivo – continua a pesare: lungi dal divenire carattere genetico definitivamente recessivo, essa si trasforma in una costante tentazione, nei periodi bui, di un suo integrale ripristino. Cioè, in un senso contrario all’evoluzione unificante con il ‘mondo dei giudici’.

Questo ‘effetto di trascinamento’ spiega, storicamente, la ragione di alcune attribuzioni funzionali al pm davvero singolari, se non del tutto eccentriche. Ad esempio, quella che prevedeva, con la legge di pubblica sicurezza del 1926, che un Procuratore del Re sedesse nella Commissione provinciale che applicava la misura di sicurezza del confino (con potere di arresto immediato del prevenuto) assieme al prefetto, al questore, al comandante provinciale dell’Arma dei Carabinieri e ad un Ufficiale superiore della Milizia Volontaria: in una commistione di poteri di matrice non solo governativa, ma anche puramente politica. O quella che consentiva al pubblico ministero di procedere all’autoarchiviazione (art. 74 del cpp del 1930): non soggetto, cioè, ad alcun controllo da parte del giudice allorquando decidesse di non esercitare l’azione penale, a differenza di quanto accadeva nel precedente cpp del 1913 (art. 179, comma 2). O infine (ma gli esempi potrebbero a lungo continuare) quella che consentiva all’organo dell’accusa – traducendo in norma un’idea di Piero Calamandrei [26] – di parlare per ultimo anche nei giudizi di merito ed, in Cassazione, anche di assistere alla deliberazione della sentenza civile (art. 380, comma 1, cpc), in camera di consiglio. [27]

Conosciamo bene cosa avviene dopo: con la crisi del regime fascista, la sua caduta e l’avvento della Carta costituzionale. Mi limito a ricordarlo con passaggi rapidissimi. L’ordinamento giudiziario del 1941 (r.d. 30 gennaio 1941, n. 12) attenua, perlomeno lessicalmente, la dipendenza del pm dal potere esecutivo, stabilendo (art. 69) che egli «esercita, sotto la direzione del Ministro di Grazia e Giustizia, le funzioni che la legge gli attribuisce»[28]; il d.lg.lt 14 settembre 1944, n. 288 modifica l’art. 74 del codice di rito penale del 1930 ed attribuisce al giudice istruttore il sindacato sulla richiesta del pubblico ministero; la legge sulle Guarentigie (r.d.lg. 31 maggio 1946, n. 511) modifica, a distanza di soli cinque anni, l’art. 69 dell’ordinamento giudiziario, sostituendo alla “direzione” del Ministro della giustizia sull’attività svolta dal pm la semplice “vigilanza” del Guardasigilli. Può affermarsi, senza grandi timori di smentita, che l’art. 112 della Costituzione probabilmente esiste, nella sua attuale formulazione, in ragione di tali riforme che ne hanno tracciato la strada [29] e che esigevano rafforzamento ed asseverazione democratica mediante un ‘ancoraggio’ nella Carta fondamentale.

Nondimeno – e proprio per l’andamento carsico cui si accennava – l’evoluzione verso un modello organizzativo che garantisse l’indipendenza interna del pm è fatta di arresti e strappi, nonostante la Carta fondamentale. O, forse, proprio per l’ambiguità di essa sul punto, secondo quanto sopra detto.

È un arresto, infatti, la sopravvivenza in ordinamento giudiziario di una norma quale l’art. 70, comma 3, il cui disposto – fino alla riforma ordinamentale del 1988 (d.P.R. n. 449 del 1988, art. 20) – sanciva (si badi: per ben quarant’anni dopo l’entrata in vigore della Costituzione) che il Procuratore della Repubblica esercitasse l’azione (in generale, agisse) «personalmente o per mezzo dei dipendenti magistrati»: e, soprattutto, che la Corte costituzionale ritenesse di non ravvisare, sul punto, alcuna disarmonia con la Carta fondamentale (sentenza n. 53 del 1976).[30]

È invece uno strappo, fino allo smantellamento del precedente assetto gerarchico, l’esito della riforma dell’ordinamento giudiziario del 1988 (a mezzo del già citato d.P.R. n. 449 del 1988). La svolta, infatti, verso un’organizzazione degli uffici del pubblico ministero nel senso della ‘direzione funzionale’ è netta e percepibile: ed in tal senso gli indici sono numerosi. Innanzitutto, la riscrittura dell’art. 70, comma 3, che, nella nuova versione, elimina i precedenti tratti di verticalizzazione del potere. Anche se la norma sembra attingere a profili di attribuzione esclusiva all’organo di vertice («…i titolari degli uffici del pubblico ministero dirigono l’ufficio cui sono preposti, ne organizzano l’attività … ed esercitano personalmente le funzioni attribuite al pubblico ministero dal codice di procedura penale e dalle altre leggi…»), essa rivela presto la sua piena incompatibilità con il modello gerarchico: «…quando non designino altri magistrati addetti all’ufficio» (corsivi miei).

La designazione, antitetica alla delega, è concetto che presuppone ambiti di autonomia incompatibili con la mera distribuzione dell’altrui potere [31], peraltro puntualmente e prontamente ribaditi dal legislatore: «Nel corso delle udienze penali, il magistrato designato svolge le funzioni del pubblico ministero con piena autonomia e può essere sostituito solo nei casi previsti dal codice di procedura penale», secondo la formula -comune anche in senso letterale- del comma 4 dell’art. 70, dell’art. 53 cpp. e dell’originaria direttiva 68 della legge delega del nuovo codice di procedura penale. [32]

L’ultimo fotogramma di questa rapida carrellata che precede la cd. riforma Castelli riguarda «uno snodo saliente di tale percorso… verso la destrutturazione della gerarchia negli uffici del pubblico ministero»[33]: l’estensione del sistema tabellare dell’organizzazione degli uffici giudiziari anche a quelli di procura (art. 7-ter, c. 3, O.g., introdotto a mezzo dell’art. 6, c. 1, lett. b) del d.lgs. n. 51 del 1998). La norma – dalla vita assai breve, perché sarà cancellata otto anni dopo dalla riforma Castelli – è una pietra miliare e, assieme, il canto del cigno del modello della ‘direzione funzionale’: dopo di essa, sarà il diluvio della gerarchia.

L’importanza è duplice. Sotto un profilo pratico ed operativo, l’organizzazione tabellare del lavoro dell’ufficio di procura significa(va) la predeterminazione di un progetto organizzativo che, per legge (cioè per fonte primaria), richiede l’approvazione assembleare da parte di tutti i componenti dell’ufficio, l’espressione di parere favorevole da parte del Consiglio giudiziario e, infine (e soprattutto), l’approvazione da parte dell’organo di autogoverno per la sua efficacia. In breve, forme spiccate di controllo, ad ogni livello e con penetranti poteri di veto, della volontà del dirigente: con ogni intuibile conseguenza. Ma, più in generale, sotto un profilo politico, il metodo tabellare unificava l’organizzazione dei giudici con quella dei pubblici ministeri: predicava, cioè, l’unità della giurisdizione persino oltre il dettato costituzionale, smussando ogni differenza tra le due funzioni e davvero fornendo una blindatura all’unicità delle carriere. Insomma, un approdo di enorme, storica importanza.[34]

È questo il momento della massima espansione del principio ‘personalistico’ (o ‘diffusivo’ o di ‘stabilizzazione’, a secondo della varia nomenclatura utilizzata) della funzione. Alla piena autonomia del singolo sostituto in udienza – in forza del combinato disposto dell’art. 73, comma 4, O.g. e dell’art. 53 cpp, che ribadisce l’antico habeas corpus dell’accusatore coniato proprio nell’oscura gerarchia del parquet francese: “si la plume est serve, la parole est libre[35] – fa da armonico pendant il sistema tabellare introdotto dall’ art. 7-ter, c. 3, O.g., che ‘copre’ l’area dell’indagine e delle attività in essa svolte.[36]

4. La riforma dell’ordinamento giudiziario del 2006…

Non è un caso, infatti, che proprio la norma appena citata è tra le prime teste (norme) che rotolano allorquando il legislatore, nel 2006 – in un clima politico completamente diverso e con maggioranze politiche completamente mutate – pone mano alla definitiva (?) riforma dell’ordinamento giudiziario.

La riforma nasce, in realtà, nel 2003 attraverso il cd. maxiemendamento governativo al D.dl n. 1296/S, nella proposta di riformulazione dell’art. 5 (Riorganizzazione dell’ufficio del pubblico ministero) ed attua una completa metabasi dell’assetto sopra evidenziato.

Il maxiemendamento diviene tout court legge delega (n. 150 del 2005) ed il decreto legislativo n. 106 del 2006 recepisce, in senso letterale, semantiche già di tale dettaglio da potersi tradurre immediatamente in articolato legislativo. Insomma, un intervento netto, dalla forte impronta ideologica, chiuso ai compromessi ed alle possibili mediazioni: e soprattutto totalmente sbilanciato verso la gerarchizzazione più spinta. La legge delega [37] realizzava infatti l’ideal-tipo della gerarchia: titolarità esclusiva concentrata presso l’organo di vertice; personale responsabilità del relativo esercizio; vincolo generale predeterminato nell’osservanza dei fini generali. Questa architettura – disegnata, come detto, fin nel dettaglio – fu recepita à la lettre dal legislatore delegato.

Il testo del decreto legislativo n. 106 del 2006 fu a sua volta oggetto – com’è noto – di una modifica successiva ad opera della legge n. 269 del 2006: quest’ultima sarebbe dovuta essere la ‘controriforma’ dell’organizzazione gerarchica fortemente voluta e realizzata dal Guardasigilli Castelli ad opera del suo successore, on. Mastella, ed espressione della diversa maggioranza politica subentrata alla precedente. In realtà, la legge n. 269 si limita a pochi e, tutto sommato, marginali ritocchi del testo normativo, confermando così un sospetto già serpeggiante: che, cioè, l’intero côté politico, trasversalmente e senza distinzioni di coloritura, ‘tifasse’ (e continui a farlo) per una magistratura inquirente fortemente gerarchizzata, non incline cioè ad iniziative individuali poco controllabili. Come dire: se, come ha scritto qualcuno, “si può scoprire il proprio mistero a prezzo della propria innocenza”, il mistero della classe politica sulla magistratura inquirente è stato presto ed interamente scoperto nel 2006.

Il prodotto normativo finale (vale a dire, quello risultante dal testo del d.lgs. n. 106 del 2006 e delle modifiche della legge n. 269 del medesimo anno) non richiede eccessivo sforzo ermeneutico per comprenderne i caratteri, tutti assai netti.

Il Procuratore della Repubblica è «il titolare esclusivo dell’azione penale» (art. 1, c. 1) e ne «assicura il corretto, puntuale ed uniforme esercizio» (art. 2, c. 1), in origine persino «sotto la sua personale responsabilità»: fardello, quest’ultimo, poi caduto da una delle modifiche del correttivo Mastella. La ‘responsabilità personale’ per i modi di esercizio dell’azione evocava infatti scenari assai ‘americani’ (quasi cinematografici…), quelli del prosecutor, di contesti giudiziari a discrezionalità di azione e – secondo l’acuta lettura di qualcuno – costituiva la testa d’ariete per “l’ulteriore passaggio evolutivo costituito dalla previsione di forme di responsabilità politica”. [38]

La titolarità esclusiva e personale dell’azione in capo al vertice trova forma di concreto esercizio attraverso l’assegnazione (che sostituisce – nella seconda, importante modifica innestata dalla l. n. 269/2006 – l’originaria delega al sostituto: e non è solo un belletto terminologico) ed espressione articolata e completa nei poteri organizzatori del medesimo vertice, i quali sono davvero sconfinati: o perlomeno provocano questa univoca impressione. Da esso promana tutto: infatti, designa, tra i Procuratori aggiunti, il Vicario (art. 1, c.3); delega ad uno o più procuratori aggiunti ovvero anche ad uno o più magistrati addetti all’ufficio la cura di specifici settori di affari (art. 1, c. 4); determina i criteri di organizzazione dell’ufficio, i criteri di assegnazione dei procedimenti ai procuratori aggiunti e ai magistrati del suo ufficio – individuando eventualmente settori di affari da assegnare ad un gruppo di magistrati al cui coordinamento sia preposto un procuratore aggiunto o un magistrato dell’ufficio; individua le tipologie di reati per i quali i meccanismi di assegnazione del procedimento siano di natura automatica (art. 1, c. 6); assegna, oltre che i procedimenti, il compimento di singoli atti processuali (art. 2, c. 1) e, con l’atto di assegnazione per la trattazione di un procedimento, gli eventuali criteri ai quali il magistrato deve attenersi nell’esercizio della relativa attività (art. 2, c. 2); esercita il potere di assenso per iscritto (art. 3) sul fermo di indiziato di delitto disposto da un procuratore aggiunto o da un magistrato dell’ufficio sulle richieste di misure cautelari personali (salvo che per la convalida dell’arresto in flagranza o del fermo ex art. 390 cpp) e reali (salvo che abbia disposto, per queste ultime, la non necessità); determina i criteri generali ai quali i magistrati addetti all’ufficio devono attenersi nell’impiego della polizia giudiziaria, nell’uso delle risorse tecnologiche assegnate e nella utilizzazione delle risorse finanziarie delle quali l’ufficio può disporre (art. 4); mantiene personalmente i rapporti con gli organi di informazione (art. 5).

Si tratta di poteri a tutto tondo, incondizionati e capillari, che risultano penetranti sia (come è normale) per la gestione organizzativa dell’ufficio – i.e. per ‘l’amministrazione della giurisdizione, secondo la nota formula di Pizzorusso – che per le attività tecniche svolte dai magistrati. In breve, è proprio il possibile controllo pieno su modalità ed esiti dell’indagine che lascia apprezzare il profilo fortemente verticale dell’organizzazione: considerando anche che, a chiudere il cerchio, sono le abrogazioni di due norme, fondamentali nel precedente assetto ‘diffuso’.

La prima è quella (già sopra evidenziata) dell’art. 7-ter c. 3 dell’O.g.. (ad opera dell’art. 7 del d.lgs. n. 106/2006) e, dunque, dell’applicazione del ‘metodo tabellare’ agli uffici di procura, con la conseguente sottrazione del progetto organizzativo ai poteri di controllo e di fattivo intervento sia dei Consigli giudiziari che del Consiglio Superiore. Quest’ultimo è il destinatario di una mera informazione dei criteri di organizzazione predisposti dal Procuratore e delle eventuali modifiche sopravvenute [39], senza l’apparente previsione di alcuna interlocuzione o potere di intervento che, in qualche modo, possa subordinare l’efficacia del progetto ai rilievi dell’organo di autogoverno. Una pubblicità-notizia, insomma.

La seconda abrogazione è quella dell’art. 3 del d. lgs. n. 271 /89 (disposizioni di attuazione del cpp) che, come detto, disponeva la tendenziale concentrazione degli atti di un procedimento in capo al medesimo magistrato: disposizione che consentiva di affermare la parziale autonomia del sostituto nella fase delle indagini e rispondeva all’esigenza organizzativa e investigativa di concentrazione.

Parimente, anche dopo la modifica sul punto della legge n. 269, la disciplina dell’eventuale conflitto insorto tra magistrato inquirente e capo dell’ufficio lascia intravedere – al netto, lo si ripete, dai successivi aggiustamenti innestati dalle circolari consiliari – uno sbilanciamento di poteri in favore della figura di vertice. Infatti, il novellato art. 2, c. 2 del citato d.lgs. stabilisce che «… se il magistrato non si attiene ai principi e criteri definiti in via generale o con l’assegnazione, ovvero insorge tra il magistrato ed il procuratore della Repubblica un contrasto circa le modalità di esercizio, il procuratore della Repubblica può, con provvedimento motivato, revocare l’assegnazione; entro dieci giorni dalla comunicazione della revoca, il magistrato può presentare osservazioni scritte al procuratore della Repubblica». Soluzione, questa, all’evidenza diafana quanto a tutela del singolo magistrato: e, nondimeno, non completamente evanescente come quella originaria. Quest’ultima prevedeva, prima del correttivo operato dalla l. n. 269/2006, che il provvedimento del Procuratore e le osservazioni del Sostituto fossero inviate dal primo al Procuratore generale presso la Corte di Cassazione e comunque inserite nei rispettivi fascicoli personali. Quasi suprefluo sottolineare valenza e finalità di tale lembo procedurale: l’invio degli ‘atti del contrasto’ al titolare dell’azione disciplinare inevitabilmente alludeva (preludeva?) ad un intervento ‘forte’ nei confronti del magistrato riottoso e poco osservante e comunque rivestiva valenza intimidatoria in un solo senso, non risultando certo probabile (e neppure ipotizzabile) l’inizio di un accertamento predisciplinare a carico di chi aveva, motivatamente, revocato una delega.

Soprattutto, quell’originario meccanismo poneva completamente fuori (persino quanto ad informazione) l’organo consiliare e riduceva la soluzione del contrasto a fatto ‘interno’ ai vertici inquirenti [40]: esattamente all’inverso di quanto accadeva nel sistema preriformato, laddove, a fronte della revoca della designazione, il magistrato ben poteva adire il Csm e richiederne un intervento.[41]

Ora, se con un esperimento mentale si provasse ad immaginare questo pannello di poteri sopra descritti astraendolo dal successivo cheek and balance dell’autogoverno; se, cioè, si prendesse à la lettre il fascio di prerogative contemplate dal d.lgs. n. 106/2006 (cui non corrisponde per legge alcuna responsabilità, ma neppure alcun bilanciamento, alcun ‘controllo’[42] preventivo e successivo, alcun rimedio in caso di abuso, ecc.), ben si potrebbe concludere che, probabilmente, nessun funzionario di qualsivoglia settore della funzione pubblica abbia mai concentrato, in Italia, una somma di poteri talmente intensi e diretti nell’esercizio del suo munus.

A tale rilievo si potrà probabilmente obiettare che il sistema gerarchico è stato tracciato a tinte così marcate (fosche?) proprio nella previsione di un immaginato e previsto ‘riequilibrio’ della figura ordinamentale del procuratore della Repubblica, se incastonato poi nella disciplina paranormativa di dettaglio. Insomma, una gerarchia esasperata per ottenerne un ‘netto’ dalla sua concreta e storica attuazione. Ma tale osservazione (forse politicamente verosimile) appare nondimeno fragile ove si consideri, per un verso, che il sistema di gerarchia delle fonti contempla comunque la preminenza della legge, destinata a prevalere sulla sua eventuale eterointegrazione di fonte secondaria (circolare) e, per altro verso, che un costrutto normativo di tal genere, per gli àmbiti in cui è destinato ad operare, non è un plausibile oggetto di scrutinio di costituzionalità.

In breve – e per dirla più semplicemente – la riforma del 2006 ha spinto la politica davvero fino alla soglia di ciò che poteva osare.

5. …e la ‘resistenza’ paranormativa del Csm

Nondimeno, fin dal primo giorno di vigenza della riforma ordinamentale del 2006 si assiste ad un fenomeno di assai rara evenienza istituzionale: un organo di rilievo costituzionale il quale, attraverso atti di normazione secondaria [43], conforma un testo legislativo -vale a dire un atto di normazione primaria- verso esegesi, finalità ed effetti completamente estranei alla sua lettera e soprattutto al suo ‘spirito’ (inteso proprio quale Recthgeist).

Si è sottolineato da parte di numerosi autori come, in tale irripetibile vicenda, il Consiglio Superiore abbia in realtà promosso e pienamente realizzato un’interpretazione ‘costituzionalmente orientata’ del d. lgs. n. 106 del 2006: ma tale corretto rilievo non sposta evidentemente i termini del problema, posto che “non spetta al Csm l’interpretazione costituzionalmente conforme dei testi legislativi con valore erga omnes”. [44]

L’organo di autogoverno ha in realtà giustificato tale prerogativa attraverso un’argomentazione giocata sul proprio ruolo di “vertice organizzativo” dell’ordine giudiziario, deputato pertanto ad esercitare i poteri di indirizzo (nel caso di specie, nei confronti dei titolari degli uffici di procura in relazione alla formazione del progetto organizzativo) allorquando – ed è questo lo snodo fondamentale – «sono in gioco attribuzioni che concorrono ad assicurare il rispetto delle garanzie costituzionali». In breve, poiché la nuova normativa ordinamentale interseca, nella sua concreta applicazione, la piena attuazione dei valori costituzionali espressi dagli artt. 105 e 112 della Costituzione, ne consegue una competenza all’intervento da parte dell’organo di autogoverno, proprio per i riverberi e le sicure ricadute che originano dall’interpretazione della nuova normativa. Come dire che il Csm si pone quale custode garante dei valori costituzionali per ciò che attiene all’organizzazione dell’ordine giudiziario, in forza proprio di un potere direttivo relativo all’amministrazione della giurisdizione che si riconosce.

Ovviamente non vi è la possibilità qui per esaminare questa premessa teorica di ‘verifica dei poteri’ in capo all’organo consiliare. Preme maggiormente analizzare come questo manifesto di metodo sia stato realizzato: come, cioè, il testo di riforma dell’ordinamento giudiziario sia stato ‘scavato’ dall’interno dalle risoluzioni e dalla circolare citati e come pertanto gran parte di quei poteri gerarchici – che, di primo acchito, dalla lettura del d.lgs. di riforma, parevano illimitati – siano stati, in realtà, ricondotti a ragionevolezza funzionale, con un contrafforte di cospicuo spessore all’indipendenza interna del singolo sostituto. Se non temessi di esagerare, direi ­­-­ con un’iperbole – che il d. lgs. n. 106/2006 è stato ridotto ad una cornice al cui interno è stata sostituita l’immagine iniziale: l’impianto complessivo rimane indubbiamente a forte impronta verticale, ma si tratta di una gerarchia che – sotto il profilo dei presupposti degli interventi, dell’esercizio concreto dei poteri da parte del dirigente, dei rimedi possibili, delle soluzioni alle patologie estreme – ha cambiato facies ed oggi nuoce in maniera assai relativa all’indipendenza del singolo magistrato inquirente.[45] Su quest’ultima, piuttosto oggi incide molto di più la moral suasion della gerarchia, la veicolazione culturale del modello trasmesso, affermato ed assimilato: ma di questo dirò in conclusione.

Che tuttavia il livello della partita giocata sia di importanza apicale, lo si trae da quanto afferma lo stesso organo di autogoverno (punto 3.1. della Circolare del 12 luglio 2007), perentoriamente e senza infingimenti: «permane inalterato il potere del Consiglio Superiore della Magistratura di garantire lo status del magistrato, fissato dei principi costituzionali, anche attraverso indicazioni di carattere generale». Come dire: i modelli organizzativi dell’ufficio del pm rischiano di riverberarsi sullo status e l’indipendenza organizzativa non è affatto neutra, né a tenuta stagna rispetto a quella funzionale e di status.

I passaggi di questa ulteriore metabasi sono assai numerosi, toccano diversi punti e devono pertanto essere qui necessariamente sintetizzati.

Quanto ai progetti organizzativi predisposti dal Dirigente, le risoluzioni del 12 luglio 2007 e del 21 luglio 2009 curano un duplice obiettivo. Per un verso, ‘depotenziare’ il solipsismo del dirigente che, nelle intenzioni del legislatore, impronta la redazione dei progetti organizzativi; per altro verso, rendere in qualche modo efficace l’interlocuzione del Consiglio stesso, perché – come è intuitivo – il limite delle risoluzioni (come di ogni fonte secondaria di mera integrazione o esplicazione di quella primaria) è quella della sua efficacia: nessuna ‘linea guida’ è infatti precettiva e cogente.

Il primo obiettivo è realizzato attraverso il richiamo (e, verrebbe da dire, la diretta applicazione) di un precetto costituzionale: l’art. 107 Cost. ­- fissando il principio della diffusione del potere fra tutti i magistrati, inclusi quelli degli uffici requirenti – esige che «l’adozione dei progetti di organizzazione, basata su una corretta analisi dei flussi, non può che avvenire all’esito di momenti di partecipazione dei sostituti (assemblea dell’ufficio). Progetti discussi, partecipati e condivisi consentono, infatti, di perseguire un’azione trasparente ed efficiente (…)» (ris. 12.7.2007, § 3.2.a)

Il secondo obiettivo è perseguito seguendo una via indiretta: il progetto organizzativo è da comunicare sì, come previsto dalla riforma ordinamentale, per via verticale ed ascendente (al Procuratore generale della Corte d’appello e da questi, ex art. 6, al P.G. presso la Corte di cassazione), ma anche, in via orizzontale, ai Consigli Giudiziari, che li potranno valutare nell’ambito del più ampio esame delle tabelle degli uffici giudicanti, assieme ad esse e in relazione ai profili su di esse incidenti, «atteso lo stretto rapporto di interdipendenza tra tali uffici, al fine di garantire una funzionalità complessiva del servizio nel settore penale» (ris. 12.7.2007, § 3.2.d). D’altra parte – e ciò è decisivo – ancorché precluso per il progetto organizzativo «un giudizio di tipo approvativo alla stessa stregua del sistema tabellare proprio dei soli uffici giudicanti», il Consiglio (ris. 21.7.2009) ritiene «pur sempre consentito un vaglio terminale»: una formula di mera “presa d’atto” con eventuali osservazioni, pur se non vincolante per il dirigente, «al fine di dare un senso effettuale all’obbligo di mera “trasmissione” al Csm dei progetti organizzativi degli uffici requirenti, sancito all’art. 1, comma 7, del D.lgs n. 106/2006». Ove si constati, poi, che il programma organizzativo non sia rispondente alle norme dell’ordinamento giudiziario nonché alle indicazioni consiliari relative alla loro applicazione, il Csm «formula i suoi rilievi e li trasmette sia al Procuratore, per opportuna conoscenza anche ai fini dei possibili interventi di sua competenza, sia al Procuratore generale della Corte di cassazione e al Procuratore generale presso la Corte d’appello, cui competono i poteri di vigilanza ex art. 6 del più volte citato D.lgs n. 106». Non senza dimenticare il dettaglio (dove, come sempre, si cela il diavolo…) che «i criteri adottati dai Procuratori nella organizzazione degli uffici (…) assumono rilevanza ai fini delle valutazioni di professionalità e di idoneità del dirigente (anche attraverso l’inserimento nel fascicolo personale) e, nei casi più gravi, sul versante dell’incompatibilità funzionale» e che, in tale prospettiva «saranno anche utile elemento di valutazione per il “rinnovo” dell’incarico».

Questo completo mutamento di prospettiva riguarda anche la revoca dell’assegnazione.

Le direttive consiliari sul punto ribaltano la prospettiva legislativa originaria, realizzando il bilanciamento di un potere che – a differenza della secca previsione normativa – viene posto in relazione a valori contrapposti (quali l’autonomia professionale ed operativa del sostituto), a loro volta derivanti dal precetto costituzionale di obbligatorietà. Si stabilisce infatti che, il sostituto assegnatario o coassegnatario del procedimento, in caso di dissenso col Procuratore in ordine alle modalità di trattazione o all’esercizio dell’azione penale e qualora questi non abbia esercitato il potere di revoca, possa avanzare richiesta motivata di esonero dalla trattazione dell’affare. Ancora: la motivazione del provvedimento di revoca, che non deve essere meramente apparente, assume particolare valore quale strumento davvero esplicativo dei fatti posti a base del contrasto insorto, stabilendosi che il Consiglio, se richiesto dal sostituto, potrà intervenire per verificarne l’esistenza, la ragionevolezza e la congruità, «quale passaggio funzionale imprescindibile delle determinazioni adottate».

Oltre a partorire controlli, si immaginano rimedi: nei casi in cui la revoca risulterà ingiustificata, sarà l’organo di autogoverno ad intervenire con la segnalazione ai titolari dell’azione disciplinare, con l’inserimento della valutazione negativa nel fascicolo personale ai fini del giudizio di professionalità o con iniziative ex art. 2 legge delle guarentigie.

Risolti i punti nodali del progetto organizzativo (innesto di una condivisione iniziale da parte dei magistrati dell’ufficio e ‘controllo’ successivo del Consiglio) e della revoca dell’assegnazione [46], l’organo di autogoverno si prepara al grande salto sistematico, che avviene con l’adozione, nel novembre 2017, della Circolare sulla organizzazione degli Uffici di Procura, secondo una linea di continuità con le risoluzioni appena esaminate ed alle quali espressamente dichiara di ispirarsi.

Si tratta, effettivamente, di «un nuovo, organico e sistematico intervento nella materia dell’organizzazione degli uffici requirenti» ([47]), completato dopo oltre due anni di lavoro e dopo il capillare monitoraggio dei progetti organizzativi di tutti gli uffici inquirenti italiani, con ‘scrematura’ delle prassi più diffuse. Soprattutto, si tratta di un articolato (ben 25 articoli) di estremo dettaglio: quasi un testo di legge, determinato dalla «necessità di una maggiore chiarezza nella determinazione delle regole di funzionamento in grado di prevenire delicate questioni interne agli uffici (e di assicurare) la certezza e prevedibilità (…), l’omogeneità dei modelli gestionali e la definizione di uno statuto minimo di organizzazione degli uffici di procura» (così la Relazione introduttiva, § 1).

L’ispirazione è data dagli obiettivi che – in continuità con le precedenti risoluzioni – risultano attuativi di precisi precetti costituzionali: vale a dire, un’organizzazione «che consenta di tutelare (…) l’esercizio imparziale dell’azione penale, la speditezza del procedimento e del processo, l’esplicazione piena dei diritti di difesa dell’indagato e di effettività dell’azione penale, nonché la pari dignità dei magistrati che concorrono all’esercizio della giurisdizione nel suo complesso» (ivi, §1.1.). In proposito, il contributo dei singoli magistrati all’elaborazione del progetto organizzativo diviene – con una rotazione integrale rispetto a finalità e spirito della originaria littera legis – obbligo individuale. Infatti, se è indiscutibile che il Procuratore della Repubblica, titolare esclusivo dell’azione penale, «organizza l’Ufficio», tale attività è svolta non solo «nel rispetto delle norme (…) sull’indipendenza dei magistrati ed ispirandosi a principi di partecipazione e leale collaborazione», ma con la piena partecipazione di costoro. Essi infatti (art. 2, c. 3) «partecipano alle riunioni, alle assemblee generali e di sezione, e forniscono i contributi in tema di organizzazione quale adempimento di un preciso obbligo funzionale e secondo i canoni di leale collaborazione» (corsivo mio). La valenza di tale principio è di tale evidenza da non esigere ulteriori commenti. Tralascio poi l’esame dei criteri di priorità, per porre piuttosto in evidenza come l’articolato della circolare diviene ‘prescrittivo’ su punti nodali concernenti il «corretto, puntuale e uniforme esercizio dell’azione penale e giusto processo», come recita l’epigrafe dell’art. 4. In esso diviene ‘sistema’ (articolato in regole precettive) il principio della distribuzione degli affari tra i magistrati dell’ufficio «in modo equo e funzionale» (con la costituzione necessaria in dipartimenti, sezioni o gruppi di lavoro modulati alla stregua degli obbiettivi individuati e dell’analisi della realtà criminale); l’affidamento di ciascun gruppo ad un aggiunto o ad un magistrato coordinatore; il promovimento di riunioni periodiche per lo «scambio di informazioni sull’andamento dell’ufficio» (con un preciso onere di partecipazione dei magistrati dell’ufficio quale «adempimento dei doveri funzionali»); l’assegnazione dei magistrati ai vari gruppi «previo interpello (e) valorizzazione delle specifiche attitudini dei sostituti (…)»; la partecipazione alle udienze. Il progetto organizzativo – vigente per un triennio, in stretto collegamento con le tabelle dei giudici ed adottato previa assemblea generale dei magistrati dell’ufficio obbligatoria - è ben più di un generico programma per il suo redattore: è il suo vincolo per i criteri generali di assegnazione e coassegnazione; per i criteri cui i magistrati dell’ufficio dovranno attenersi (con i limiti, quindi, per gli eventuali contrasti futuri); per le ipotesi di revoca dell’assegnazione; per l’allocazione delle risorse umane e materiali.

In breve: più è dettagliato (come espressamente previsto nella circolare) e si oggettivizza in disposizioni specifiche e meno consente, nel futuro, una discrezionalità nell’agere del dirigente. Esso si incrocia poi con i poteri del Consiglio (art. 8): se, ovviamente, è confermata l’assenza normativa di una procedura di approvazione, nondimeno il ‘reticolo’ di interlocuzioni ne garantisce il controllo. Diviene stabile ed oggetto di espressa prescrizione ‘normativa’ che la competente commissione referente del Csm lo esamini, espleti l’istruttoria, richieda eventuali chiarimenti al Procuratore, gli invii «eventuali osservazioni e specifici rilievi» e che tali provvedimenti siano «inseriti nel fascicolo personale del dirigente anche ai fini delle valutazioni di professionalità e della conferma», oltre che al p.g. presso la Corte di cassazione e della Corte d’appello.

Dunque, il controllo indiretto del Csm sul progetto organizzativo realizza ben più di un formale potere di approvazione, che la legge formalmente continua a negare. Anche perché è espressamente sancito (art. 9 della Circolare) il vincolo dei provvedimenti attuativi, essendo il Procuratore tenuto al rispetto, oltre che della normativa primaria e secondaria, «dei criteri e delle disposizioni fissate nel progetto organizzativo».

La Circolare lambisce poi a tutti i profili critici propri di una direzione gerarchica, sempre con l’idea di una conformazione ad esiti – se così si può dire ‒ di segno contrario: verso approdi, cioè, di direzione funzionale. Così è, ad esempio, per l’assegnazione al magistrato, che «spiega i suoi effetti per tutto il periodo delle indagini preliminari e fino alla definizione del procedimento» (art. 10); per l’assegnazione di singoli atti del procedimento, che «è di regola disposta solo nei procedimenti personalmente trattati dal Procuratore della Repubblica» (art. 11); per la designazione per l’udienza, rispetto alla quale è richiesta la garanzia di tendenziale continuità di trattazione tra la fase delle indagini preliminari e le fasi successive e per la quale si ribadisce l’assoluta eccezionalità della sostituzione e sempre con provvedimento motivato.

Questa intensa procedimentalizzazione dell’agere del Procuratore riguarda anche – e non potrebbe essere diversamente – il sistema dei controlli che il vertice della Procura esercita sugli atti dei suoi sostituti. Nel progetto organizzativo può esservi sì la generale previsione di un visto relativo a determinati atti o categorie di atti reputati di particolare rilievo, ma tale strumento – secondo il disposto dell’art. 14 della Circolare – ha mera funzione di conoscenza ed informazione e non di approvazione preventiva dell’atto, con significative conseguenze sul piano degli effetti in caso di mancata apposizione, per perdurante ed insanabile contrasto insorto. Esperita infatti l’interlocuzione con il sostituto, il dirigente potrà sì esercitare il motivato potere di revoca dell’assegnazione (con la possibile investitura, tuttavia, dell’organo di autogoverno adito dal sostituto), ma, qualora non intervenga la revoca, l’atto avrà tuttavia piena efficacia, ben potendo il magistrato assegnatario procedere oltre, anche in caso di dissenso del suo dirigente.

Lo snodo fondamentale della revoca è poi ripreso sulla falsariga delle precedenti risoluzioni del 2007 e del 2009 e strutturato in forma sistemica (artt. 15 e 16). È confermata la necessità di una più stretta tipizzazione dei presupposti di essa fin dal progetto organizzativo ed è ribadita l’ottica di extrema ratio di tale patologia, attraverso «la massima interlocuzione possibile con il magistrato assegnatario», ed esperendo «ogni idonea azione volta ad individuare soluzioni condivise». Di più e di diverso rispetto al passato è il fatto che, oggi, le osservazioni scritte del magistrato destinatario della revoca sono inviate obbligatoriamente e tempestivamente (entro cinque giorni) dallo stesso dirigente al Consiglio (salvo improbabili ipotesi di segretezza dell’indagine), il quale – nel caso di ritenuta insussistenza dei presupposti o di violazione delle regole procedimentali o di incongruità della motivazione ‒ invia «le relative osservazioni e gli specifici rilievi» al Procuratore interessato (oltre che ai vertici inquirenti della Corte di cassazione e della Corte di appello).

6. “Everybody’s fine”? Verso una gerarchia funzionale

All’esito di questa complessa analisi dell’evoluzione ordinamentale e della straordinaria metabasi attuata a mezzo di normazione secondaria, verrebbe quasi da dire, evocando un capolavoro cinematografico: “stanno tutti bene”.

Alla domanda, infatti, se – stando al quadro normativo primario e secondario – esista oggi in Italia un problema di indipendenza interna del pubblico ministero, difficilmente potrebbe fornirsi una risposta affermativa.

L’indipendenza interna è sì scalfita, e talvolta scheggiata, se si ha riguardo alla sola e pura disciplina ordinamentale, cioè al prodotto normativo rappresentato dal d.lgs. n. 106 del 2006. Ma la radicale trasformazione di essa – attraverso gli innesti, i reticoli, le esplicazioni, le eterointegrazioni, le mute abrogazioni – derivante dalla normativa secondaria del Consiglio ha mutato completamente il volto dell’originaria gerarchia: del suo carattere quasi militaresco (“un uomo solo al comando” e, per di più, privo di sostanziale responsabilità), da ancien régime, insomma, è rimasto davvero poco. O comunque nulla che possa davvero prospettarsi come una minaccia reale all’indipendenza interna. Della gerarchia postulata da quell’originario testo normativo sono venuti meno molti genotipi: l’originario solipsismo decisorio, innanzitutto (nessun progetto organizzativo oggi potrà davvero ignorare ed evitare il confronto con l’assemblea che ne precede l’adozione); poi, l’assoluta separatezza con l’organizzazione tabellare dei giudici; l’assenza originaria di controlli che non fossero la blanda vigilanza degli stessi vertici requirenti; la mancanza di collegamento con scopi e valori costituzionali, ignorati – anche semanticamente- dalla legge di ordinamento; l’inesistenza di protocolli procedimentali di gestione dell’ufficio; la separatezza assoluta con l’organo di autogoverno ed il difetto di ogni interlocuzione con esso; la carenza di ogni trasparente rimedio per le ipotesi di contrasto irrisolto tra dirigente e singolo sostituto. Tutto ciò caratterizzava (e, formalmente, continua a marcare) la legge di ordinamento giudiziario sul pubblico ministero: ma ciò che mancava è stato provvidamente inserito dalla normazione secondaria e ciò che risultava eccessivo ed irricevibile è stato potato in maniera silente.

Un diafano esempio di cosa davvero può fare l’autogoverno nobile.

Sotto altro versante, la normazione secondaria ha anche opportunamente agganciato all’esercizio dei poteri del dirigente il “principio-responsabilità” (per dirla con Jonas), sia pure in via indiretta e sul piano della (futura) carriera giudiziale (valutazione di professionalità ai fini della conferma nell’incarico dirigenziale e delle future prospettive di dirigenza): ma tali erano i limiti istituzionali di manovra del Csm Nondimeno, rispetto ad una normativa che aveva concepito, in capo al dirigente, poteri tanto estesi quanto completamente esonerati da qualsivoglia onere di rendiconto, il risultato raggiunto appare apprezzabile.

In breve, la gerarchia iniziale ha cambiato pelle attraverso la radicalità, e quasi l’egemonia, della normazione secondaria; ha cessato di essere gerarchia ciecamente tesa solo all’uniformità (o, peggio, fine a sé stessa) ed è divenuta gerarchia funzionale, direzione (ancora verticale, ma) finalizzata ad intenti condivisi dal singolo ufficio e ispirati da un preciso quadro di valori di riferimento, dunque funzionalmente orientata: soprattutto, con intenti ed esecuzione di essi perfettamente controllabili, attraverso precisi passaggi procedimentali.

Può essere contento di ciò innanzitutto l’organo di autogoverno, che ne è stato l’artefice, con grande acume istituzionale, speso nell’arco di un decennio.

Possono essere contenti i magistrati inquirenti, che ne sono i diretti beneficiari e la cui indipendenza interna trova importanti reticoli di sicura garanzia, pur in un modello gerarchico. Ritorno a breve sul punto: ma fin d’ora si può dire che, nella situazione data (storica, normativa, ecc.), l’assetto attuale e finale del sistema pone quasi sempre il singolo sostituto in una condizione di sicura prevedibilità della linea di sviluppo del proprio potere di azione e dei connessi poteri investigativi. Certo, il sistema attuale ha sostituito lo spontaneismo collaborativo di un tempo con protocolli organizzativi rigidi; iniziative individuali di ricerca della notizia criminis con sequenze procedurali standardizzate: ed è indubbio che l’assetto che ne è scaturito, specie per i piccoli e medi uffici, non escluda affatto il possibile contrasto con il vertice ed appronti rimedi solo indiretti, preventivi e ‘compensativi’. Ma la tenuta complessiva di un sistema non si giudica dall’insorgenza di possibili, sporadiche patologie: dagli ‘accidenti di fatto’, come li chiamerebbe una sentenza della Corte costituzionale. I problemi, probabilmente, sono altri.

Può infine – e paradossalmente – essere contento persino il legislatore storico: e qui il discorso è più delicato.

Se guardata nel suo risultato immediato, l’operazione ‘politica’ della riforma ordinamentale del 2006 è fallita. La gerarchia realizzata è assai diversa da quella immaginata (e voluta) dal legislatore storico e l’idea di fondo – quella di ‘verticalizzare’ al massimo grado gli uffici inquirenti, al contempo isolandoli completamente (per scopi ulteriori?) sia dalla gestione dell’autogoverno, sia dalla sponda dei giudici – è sostanzialmente naufragata.

Ma tale conclusione, a sua volta, è vera solo in parte e richiede importanti precisazioni. In realtà, la riforma Castelli rappresenta un punto di non ritorno per molti profili. Innanzitutto, essa ha dimostrato che un ordinamento gerarchico è per Costituzione tollerabile. So bene che tale affermazione si presta ad un’obiezione di fallacia naturalistica. Dalla constatazione che un fatto è (nella specie: un ordinamento gerarchico) non può derivarsi che quel fatto debba essere (nella specie: per Costituzione). Ma è proprio questo il punto. Una gerarchia ben temperata non è parsa – di principio – intollerabile per Costituzione, incompatibile cioè con lo statuto costituzionale (ammesso che se ne possa compiutamente ricavare uno) del pubblico ministero. In breve, il modello gerarchico affidato ad una legge di ordinamento giudiziario è stato sperimentato. E poco importa che esso, nella sua versione originaria, andasse in più punti in vistosa frizione con i precetti della Carta: non abbiamo il riscontro storico (vale a dire: cosa sarebbe accaduto senza l’intervento manipolatore del Csm?). Ciò che conta è piuttosto il risultato finale: una gerarchia interna del pubblico ministero (più o meno temperata; più o meno bilanciata, ecc.) è possibile per Costituzione ed il potere diffuso non è una soluzione costituzionalmente obbligata. Preferibile, magari: ma non obbligata.

Ma sotto altro profilo – e considerando gli effetti sul medio/lungo periodo – il legislatore storico ha tutt’altro che maturato una sconfitta strategica, posto che il modello gerarchico sembra essere andato in armonia (storica e sistematica) con il progressivo sfilacciamento del principio di obbligatorietà dell’azione. Si tratta di fenomeni che camminano necessariamente assieme, in parallelo. Più lasco diviene il principio di obbligatorietà dell’azione e si trasforma da regola in principio (per adottare una terminologia alla Dworkin), e maggiormente esso sembra doversi sposare con un modello gerarchico, funzionalmente orientato, dell’ufficio del pubblico ministero.

L’obbligatorietà ‘pura’ dell’azione – quella scevra da priorità, quindi da scelte, quindi da organizzazione di tali scelte, quindi dall’inevitabile sovraordinazione che indirizzi tale organizzazione – postula l’agire diffuso del pubblico ministero; viceversa, un’obbligatorietà che ammetta, quantomeno nella selezione della direzione dell’obbligo, delle scelte, sollecita concettualmente, per ciò stesso, modelli tendenzialmente gerarchici. Il legislatore storico ha probabilmente intuito tutto ciò ed ha intercettato l’azione al tempo della crisi (dell’obbligatorietà), concependo un modello organizzativo consono, coerente con tale crisi. Detto altrimenti, se l’obbligatorietà da regola (costituzionale) dell’agire del pm diviene (solo) principio (seppur costituzionale), allora esso – come ogni principio costituzionale – è bilanciabile: necessariamente cedevole e necessariamente armonizzabile. Ed uno dei modi del suo bilanciamento è quello di uno stretto coordinamento funzionale dei fini selezionati cui l’azione è diretta (cosa altro sono i criteri di priorità?), che non tollera evidentemente l’azione irrelata e ‘spontanea’ del singolo inquirente.

È già avvenuto tutto questo in Italia? L’obbligatorietà dell’azione è già assimilata ad un principio ‘bilanciabile’ come per la prestazione di un diritto sociale? È già parificabile – in metafora, naturalmente – ad un “livello essenziale di prestazione”, incomprimibile al di sotto di una certa soglia, ma certamente non erogabile illimitatamente ed a prescindere dalle risorse disponibili? Non ho risposta. Certo: istintivamente questi pensieri (vale a dire: il pensare l’azione penale come una sorta di ottimizzazione di un servizio sociale) raggelano ed angoscia il pensiero della corrosione di una regola costituzionale (rispetto alla quale opera solo un meccanismo di pura sussunzione) in un principio (rispetto al quale opera invece un possibile bilanciamento). Ma la realtà osservata lascia intravedere che l’obbligatorietà dell’azione non è più, nei fatti, una monade intoccabile: e di questo ha ‘approfittato’ (lo dico senza stigmatizzare, ma solo per descrivere) il legislatore storico.

La domanda finale, sul punto, pare essere questa: è davvero possibile il modello del potere diffuso dell’azione penale (quindi della mera direzione funzionale nelle procure, del modello del primus inter pares) in presenza della logica dei criteri di priorità? È davvero possibile una totale indipendenza all’interno di un ufficio in cui si devono operare scelte su cosa perseguire prima (o su cosa abbandonare per strada) o su cosa costituisce emergenza criminale per quella determinata area geografica? Affido naturalmente alla meditazione individuale questi interrogativi.

In conclusione, un ultimo punto di riflessione, in realtà primo per importanza: quanto il modello gerarchico si è (felicemente) sposato con una diversa cultura della più prossima magistratura inquirente – quella, cioè, ‘nata’ funzionalmente a modello gerarchico già realizzato – e l’ha, a sua volta, penetrata e plasmata ulteriormente?

Discorso anche questo delicatissimo e soggetto a molti, possibili equivoci, di cui ho consapevolezza.

Negli ultimi anni, al conflitto –manifesto ed eclatante – tra sostituto e dirigente non si quasi mai arrivati: pochi casi davvero, anche se qualcuno famoso alle cronache. Sono portato a pensare che il fenomeno si sia manifestato in forma così minimale e statisticamente irrilevante non soltanto per l’equilibrio del sistema ed i contrappesi immessi, ma anche per una certa assuefazione all’idea di gerarchia interna da parte degli stessi protagonisti principali, i magistrati inquirenti. È come se il modello normativo avesse fatto pedagogia culturale, fosse serpeggiato e poi penetrato nell’idem sentire dei magistrati inquirenti delle generazioni più recenti: appunto, di coloro che hanno iniziato questa funzione già respirando l’aria normale dell’assetto verticistico. Ho cioè il forte sospetto che al conflitto non si arrivi, perché ci si ferma sulla soglia; che, ad esempio, nonostante le chiare parole della Circolare del Consiglio, il ‘visto’ del Procuratore sia vissuto, nel concreto, non come l’informazione su di un atto di indagine già deciso, ma come un’autorizzazione a compierlo. Nel sommerso – mi chiedo – a quante intercettazioni ciascun sostituto ha rinunciato nella manifestata prospettiva dell’assenza di un visto? E quante iscrizioni a mod. 45 non sono decollate a mod. 21 per lo stesso motivo o quante richieste di proroghe delle indagini non sono state mai avanzate? Certo, è solo un sospetto: che ovviamente assume una coloritura diversa in relazione all’autorevolezza e bravura di un dirigente. Questo è un punto nodale. Una cosa è la moral suasion di un Procuratore di collaudata capacità, di incontestato valore e di sicura competenza: e rispetto al quale è normale che l’interlocuzione sia, oltre che spontanea (al di là cioè di ogni prescrizione del progetto organizzativo), anche foriera di soluzioni autenticamente condivise; altro è che l’arretramento del singolo sostituto avvenga quasi per rassegnata, preventiva adesione all’idea del suo potere gerarchico. Ora, indubbiamente, presso la nostra magistratura inquirente c’è stata e c’è una fenomenologia della prima specie; ma è forte il sospetto che la seconda stia progressivamente prendendo il sopravvento, per vari fattori (ma il discorso è oltremodo incerto e complesso): per una diversa coscienza del ruolo del pubblico ministero, i cui tratti ‘burocratici’ risultano più accentuati rispetto al passato; per una diversa incidenza dell’ordine numerico degli affari trattati; per una differente consapevolezza culturale del modello di magistratura. Come dire: l’inoculo dell’idea della necessaria gerarchia dell’ufficio pm (anche spinta) ha trovato un humus conciliante e, quindi, agevole diffusione. Sotto questo aspetto, il legislatore del 2006 potrebbe sorridere, perlomeno per la lungimiranza avuta.

In questa situazione – che innanzitutto registra una temperie culturale diversa- ancora una volta è chiamato a dire una parola decisiva l’organo di autogoverno, proprio nobilitando al massimo una funzione all’apparenza di mera amministrazione tecnica, vale a dire la nomina dei direttivi degli uffici di Procura: nella piena consapevolezza di cosa significhi e di quanto sia incidente per l’intero assetto di sistema ciascuna nomina, anche quella della più sperduta procura della Repubblica italiana.

Deve essere (dovrà essere, sempre) una parola univoca, nel metodo e nel merito: che non si avveri, cioè, il timore del Salmo: “una parola ha detto (…) due ne abbiamo udite”.

 

 

[1] È un passaggio del notevole contributo di M. Bignami, L’indipendenza interna del pubblico ministero, in Quest. giust., riv. trim. on line, 2018, I, p. 2.

[2] Si è sottolineata, pressoché unanimemente, la formulazione «non esplicita» del testo costituzionale che «ha inevitabilmente risentito del travaglio che ne ha accompagnato la genesi» (F. Spagna Musso, Problemi costituzionali del pubblico ministero, in Studi di diritto costituzionale, Morano, Napoli, 1966, p. 17), nonché gli «elementi di contraddittorietà (…) insiti nello stesso testo della Costituzione», oltre che l’ «ambiguità e contraddittorietà delle disposizioni che attualmente disciplinano l’istituto» in ambito ordinamentale (A. Pizzorusso, Per un collegamento fra organi costituzionali politici e pubblico ministero, in Pubblico ministero e accusa penale. Problemi e prospettive di riforma, a cura dello stesso, Zanichelli, Bologna, 1979, p. 30).

[3] O. Dominioni, Per un collegamento fra ministro della giustizia e pubblico ministero, in Pubblico ministero ed accusa penale, cit., p. 67.

[4] Così N. Zanon, Pubblico ministero e Costituzione, Milano, 1996, p. 4. Impossibili, in questa sede, le illimitate citazioni possibili. Sono noti, d’altra parte, il peso ed il fascino degli argomenti dell’opposta sponda ermeneutica (garanzia di indipendenza del pm pressoché sovrapponibile a quella del giudice ex art. 112 Cost.; inamovibilità anche del pm; distinzione tra i magistrati solo per funzione ex art. 107, comma 3, Cost.; disponibilità della p.g. ex art. 109 Cost.; la garanzia di indipendenza del pm nelle giurisdizioni speciali ex art. 108, comma 2, Cost., ramo di tutela superflua senza quella del tronco principale, ecc.), il cui fondamento è splendidamente riassunto nel famosissimo chiasmo del suo più illustre sostenitore: «l’azione penale è obbligatoria perché l’ordinamento vuole che essa sia esercitata in modo indipendente ed imparziale, mentre il pubblico ministero deve essere indipendente ed imparziale, in quanto l’azione penale è obbligatoria» (così G. Silvestri, Giustizia e giudici nel sistema costituzionale, Torino, 1997, p. 128): di guisa che «l’art. 112 risulta essere un contraltare, per il pm, di quel che è l’art. 101,comma 2, per i giudici, tutti ricondotti in ultima analisi sotto il principio di legalità e il principio di eguaglianza» (così L. Daga, voce Pubblico ministero (diritto costituzionale, in Enc. giur., XXV, Roma, 1991, p. 3) e con l’ulteriore conseguenza che la differenza tra uffici giudicanti ed uffici requirenti, sotto il profilo della cd. indipendenza interna, «è sensibile, ma non netta», risultando pertanto in qualche modo «forzata» l’affermazione secondo cui l’indipendenza del giudice garantirebbe il singolo magistrato, mentre quella del pubblico ministero riguarderebbe il solo l’ufficio nel suo complesso e non il magistrato addetto (così, V. Zagrebelsky, Indipendenza del pubblico ministero e obbligatorietà dell’azione penale, in AA.VV., Pubblico ministero e accusa penale, cit., p. 16). Lettura costituzionale, questa, di assoluto pregio (per la cui esposizione, nella sterminata letteratura, v., al minimo, G. Neppi Modona, Art. 112 e 107, 4° c., in AA.VV., Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca), Bologna-Roma, 1987, p. 56 ss.) che chiamerebbe tuttavia ad argomentazioni e dibattito teorico incompatibili con le finalità di questo intervento. In ordine a tale prospettiva, si rimanda pertanto alla brillante ed approfondita esposizione di C. Salazar, Pace-Bartole-Romboli curatori di L’organizzazione interna delle procure e la separazione delle carriere, in Problemi attuali della giustizia in Italia. Atti del Seminario di studio tenuto a Roma l’8 giugno 2009, Napoli, 2010, pp. 179 ss. Per un quadro aggiornato delle problematiche costituzionali ed ordinamentali del pm, v. N. Zanon e F. Biondi, Il sistema costituzionale della magistratura, V ed., Zanichelli, Bologna, 2019, pp. 249-266.

[5] Distinzione, d’altra parte, che anche autori non certo sospettabili di indulgenza verso visioni retrive della magistratura o simpatie per assetti assai gerarchizzati del pm non mancano di rinvenire nella diversa connotazione funzionale tra la figura del giudice e quella del pm, decisamente incidente quanto al profilo dell’indipendenza interna. Il riferimento è, ancora, a M. Bignami, L’indipendenza interna, cit., p. 2, secondo il quale l’indipendenza interna del giudice origina dall’assenza di mediazione del suo «contatto con la legge»: la sua «sfera riservata di potestà interpretativa» implica – essendo questo il proprium della funzione dello ius dicere – che ad essa non possa sovrapporsi gerarchicamente alcun «comando interpretativo» (tale non essendo il principio di diritto espresso dalla Corte di legittimità – salva l’ipotesi del giudizio di rinvio – né delle Corti sovranazionali). In breve: la funzione interpretativa del giudice, quanto all’indipendenza interna, lo garantisce in duplice senso: per l’assenza di una gerarchia ordinamentale nell’esercizio della funzione giudicante; per la libertà assoluta (discrezionalità) «nell’interpretazione dei testi normativi, secondo un processo cognitivo che implica sì il confronto con l’esegesi correntemente praticata», ma senza «vincolo inderogabile». Tutto ciò non pare immediatamente estensibile alla figura del pubblico ministero (se si eccettua forse – aggiungiamo noi – quello che opera in sede di legittimità). Il pm è più «organo dell’azione, che dell’interpretazione»: svolge, cioè, la sua eminente funzione attraverso una serie di attività più che altro incidenti sulla realtà fenomenica (acquisizione della notizia di reato; predisposizione ed acquisizione dei mezzi di prova; direzione organizzata della polizia giudiziaria; esercizio dell’azione; impugnazione dei provvedimenti del giudice) che, sebbene perennemente intrecciate con l’ermeneutica normativa, la sopravanzano, ponendola quasi in secondo piano rispetto alla modificazione della realtà che ne costituisce l’effetto precipuo. Un atto di indagine vale non tanto per l’ermeneutica normativa del potere di cui costituisce espressione (cioè per la «quiete e silente interpretazione» del testo normativo che l’autorizza), quanto per la fenomenologia probatoria che innesta. I virgolettati sono dal citato lavoro di Marco Bignami.

[6] N. Zanon, Pubblico ministero, cit. p. 3.

[7] Cfr. N. Zanon, Pubblico ministero, cit. p. 3, nt. 3 ed ivi ulteriori richiami.

[8] Così ancora N. Zanon, op. cit., p. 4.

[9] Il rilievo è di A. Pizzorusso, Per un collegamento fra organi costituzionali politici e pm, cit. p. 32.

[10] A. Pizzorusso, Problemi, cit., p. 89, nt. 2.

[11] A parere di N. Zanon-F. Biondi, Il sistema costituzionale della magistratura, cit., p. 252, la riserva di legge contenuta nell’art. 107, quarto comma, Cost. (al pari di quella di cui all’art. 108, secondo comma) non avrebbe solo «il tradizionale significato di innalzare, dal regolamento alla legge ordinaria, il grado di normazione relativa alle garanzie da assicurare al pm»: infatti, esistendo già una generale riserva di legge in materia di ordinamento giudiziario, di portata più ampia, nell’art. 108 Cost., «la sua ripetizione nelle disposizioni in questione ha (anche) il diverso significato di abbassare, dal livello costituzionale al livello di legge ordinaria, il grado di disciplina delle garanzie da attribuire ai magistrati del pm» Dunque – e riprendendo, sul punto la tesi di Pizzorusso – gli Aa. sostengono che tanto l’art. 107, quarto comma, quanto l’art. 108, secondo comma, hanno tale specifica finalità: sono, cioè, «costruiti come norme dirette a decostituzionalizzare le garanzie di indipendenza del pm, consentendo che la legge ordinaria le differenzi da quelle spettanti ai magistrati giudicanti». Sul punto, già N. Zanon, Pubblico ministero e Costituzione, cit., p. 5.

[12] Con grande chiarezza, in tal senso, N. Zanon, loc. ult. cit.

[13] Il riferimento è a S. Bartole, Autonomia e indipendenza dell’ordine giudiziario, Cedam, Padova, 1964, p. 180 ss. Sulla funzione strumentale dell’autonomia dell’ordine giudiziario – realizzata, secondo la Costituzione e nei limiti da essa tracciati, attraverso un «sistema di autodisciplina interna della magistratura, tale da consentire l’indipendenza delle sue articolazioni funzionali» – e sulla molteplicità di significati dell’indipendenza, si veda anche, tra i molti, P. Bonifacio – G. Giacobbe, sub art. 104 Cost., in Commentario della Costituzione a cura di G. Branca, La Magistratura, tomo II, Bologna-Roma, 1986, spec. p. 26 ss.

[14] Sul punto, ampiamente G. Monaco, Pubblico ministero ed obbligatorietà dell’azione penale, Milano, 2003, p.304.

[15] N. Zanon, Pubblico ministero e Costituzione, cit., p. 6.

[16] Così M. Bellone, Pubblico ministero (diritto processuale penale), in Nss. dig. it., App. VI, Torino, 1986, 195 ss., citazione a p. 206.

[17] Secondo l’impostazione ed i sintagmi affermati dalla Corte costituzionale nella nota sentenza n. 88 del 1991.

[18] Così acutamente G. De Luca, Controlli extra-processuali ed endo-processuali nell’attività inquirente del pubblico ministero, in Accusa penale e ruolo del pubblico ministero, p. 217.

[19] N. Zanon, loc.ult.cit.

[20] A riconoscerlo è, ad esempio, G. Neppi Modona, op. cit., p. 76, che attribuisce questa irrisolta indicazione costituzionale alla scarsa consapevolezza del problema in seno all’Assemblea Costituente, essendo «il dibattito monopolizzato dal vivace scontro sul problema dell’indipendenza esterna».

[21] G. Scarpari, Quando il pm dipendeva dall’esecutivo, in Il Ponte, 2008, 11, p. 46 ss.

[22] Per la ricostruzione delle cui origini, nel periodo a cavallo della Rivoluzione francese, rimangono di pregio insuperato le pagine di Massimo Nobili, Accusa e burocrazia. Profilo storico-costituzionale in (a cura di G. Conso), Pubblico ministero e accusa penale. Problemi e prospettive di riforma, Zanichelli, Bologna, 1979, p. 89.

[23] F. Cipriani, L’agonia del pubblico ministero nel processo civile, in Foro it., 1993, c. 15.

[24]) Per questi profili, tra i molti, cfr. F. Ruggieri, voce Pubblico ministero (dir.proc.pen.), in Enc. dir., Annali, II, t.1, Milano, 2008, p. 1000 ed ivi ulteriori importanti citazioni.

[25]) La norma recitava: «Le carriere della magistratura e del pubblico ministero continuando a rimanere distinte quanto alle funzioni, sono eguali e promiscue quanto agli aumenti di stipendio e alle promozioni. I magistrati che vi appartengono sono compresi in una graduatoria unica per ciascuno dei gradi e delle categorie che corrispondono nelle due carriere».

[26] F. Cipriani, loc.ult.cit.

[27] Trasferendosi nel codice del rito civile una previsione già contenuta nell’art. 193 dell’Ordinamento giudiziario all’epoca vigente. La Corte costituzionale, con sentenza n. 2 del 1974, dichiarò l’illegittimità costituzionale dell’art. 380 del codice di procedura civile nella parte in cui consentiva l’assistenza del procuratore generale della Corte di cassazione alla deliberazione in camera di consiglio delle decisioni sui ricorsi in cui lo stesso procuratore generale era attivamente o passivamente legittimato come parte.

[28] Sul punto, ma anche sugli altri profili evidenziati, importanti riflessioni in M. Vellani, Il pubblico ministero nel processo, Bologna, Zanichelli, 1965, 2 v.

[29] Non a caso la stessa Corte costituzionale, nella sentenza n. 84 del 1979, afferma, con storica perentorietà ed a chiare lettere: “L’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale ad opera del Pubblico Ministero, già reintrodotta nell’ordinamento con il dll. 14 novembre 1944 n. 288 (art. 6)…".

[30] È la nota pronuncia (rel. Capalozza) nella quale la Corte pone una duplice affermazione di principio, assai rilevante per l’oggetto di cui si discute, vale a dire: a) se è pur vero che la stessa Corte (sentenza n. 190 del 1970), aveva definito la posizione del pubblico ministero come quella di un magistrato appartenente all’ordine giudiziario, che, fornito di istituzionale indipendenza rispetto ad ogni altro potere, “non fa valere interessi particolari, ma agisce esclusivamente a tutela dell’interesse generale all’osservanza della legge, perseguendo fini di giustizia”; «è altrettanto vero che le garanzie di indipendenza del pubblico ministero sancite, a livello costituzionale, dall’art. 107, vengono rimesse, per la determinazione del loro contenuto, alla legge ordinaria sull’ordinamento giudiziario», le cui disposizioni “non possono essere ritenute illegittime se per alcuni momenti processuali, in cui è più pronunciato il carattere impersonale della funzione, atteggiano a criteri gerarchici l’attività dell’organo”; b) “a differenza delle garanzie di indipendenza previste dall’art. 101 Cost. a presidio del singolo giudice, quelle che riguardano il pubblico ministero si riferiscono all’ufficio unitariamente inteso e non ai singoli componenti di esso”.

[31] Non dubita che, a differenza della delega che presuppone la conservazione del potere in capo all’autorità delegante, la designazione “sembra attribuire al designato un potere proprio e une determinata sfera di competenza (intesa in senso ampio), nell’ambito della distribuzione del lavoro interna all’ufficio”, N. Zanon, Pubblico ministero, cit., pp. 31-32. In argomento, anche V. Zagrebelsky, Sull’assetto interno degli uffici del pubblico ministero, in Cass.pen., 1993, I, 455 e, soprattutto, la circolare del Consiglio Superiore della Magistratura del 25 marzo 1993.

[32] Che sia stata netta la scelta verso la direzione funzionale del legislatore del 1988 non pare revocabile in dubbio, proprio in forza della modifica stessa della delega sul punto: l’originaria direttiva n. 61 della delega del 1974 limitava, infatti, lo svolgimento di funzioni ‘con piena autonomia’ da parte del pubblico ministero al solo dibattimento, laddove il riferimento ad ‘ogni udienza’ contenuto nella direttiva n. 68 della delega definitiva è assolutamente sintomatico.

[33] Per dirla con le perspicue parole di C. Salazar, L’organizzazione interna delle procure, cit., p. 192.

[34] Per un approfondito quadro del rapporto tra organizzazione delle procure e procedura tabellare nella situazione normativa vigente prima della ‘riforma Castelli’, si rimanda al lavoro di C. Salazar, L’organizzazione interna delle procure, cit., pp. 196-199.

[35] Sul noto adagio, tra i molti, v. gli ampi richiami di M. Scaparone, Sul potere del procuratore generale di dare ordini al procuratore della Repubblica, in Giur. It., 1979, II, pp. 457 ss.

[36] Ovviamente, i limiti del presente intervento non consentono di esporre il dettaglio di tale evoluzione storica, ad esempio ponendo in evidenza i riverberi ordinamentali scaturenti dalla riforma del processo penale del 1988. Due notazioni essenziali valgono comunque a far comprendere tali ricadute: la prima, riguarda l’autonomia piena del pubblico ministero d’udienza, scaturente dal punto di delega per la riforma del codice di procedura penale previsto dall’art. 2, n. 68 della l. n. 81 del 1987, da cui ebbe origine l’art. 53 cpp; la seconda è il riferimento all’art. 3, d.lgs. 28 luglio 1989, n. 271, Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, recante l’affermazione del principio della cd. continuità della designazione (“I titolari degli uffici del pubblico ministero curano che, ove possibile, alla trattazione del procedimento provvedano, per tutte le fasi del relativo grado, il magistrato o i magistrati originariamente designati”) e che poneva argini ulteriori (di principio, appunto) alla revocabilità della designazione. La norma in questione sarà abrogata appunto dalla riforma ordinamentale del 2006 (art. 7, comma 1, lett. b) del d.lgs. 20 febbraio 2006, n. 106).

[37] … che nella sua versione originaria, poi smussata grazie anche all’intervento di rinvio del Presidente della Repubblica, prevedeva peraltro pericolosi slittamenti verso forme di condizionamento esterno dell’indipendenza dell’organo di accusa, quali: l’esposizione alle Camere da parte del Ministro della Giustizia, entro venti giorni dall’inizio dell’anno, della comunicazione sull’andamento della giustizia dell’anno precedente e «sulle linee di politica giudiziaria per l’anno in corso», nonché l’istituzione «presso ogni direzione regionale o interregionale dell’organizzazione giudiziaria dell’ufficio per il monitoraggio dell’esito dei procedimenti …al fine di verificare l’eventuale sussistenza di rilevanti livelli di infondatezza giudizialmente accertata della pretesa punitiva manifestata con l’esercizio dell’azione penale o con mezzi di impugnazione ovvero di annullamento di sentenze per carenze o distorsioni della motivazione, ovvero di altre situazioni inequivocabilmente rivelatrici di carenze professionali».

[38] C. Salazar, loc. ult. cit., p. 203.

[39] Art. 1, c. 7: “I provvedimenti con cui il procuratore della Repubblica adotta o modifica i criteri di cui al comma 6 devono essere trasmessi al Consiglio superiore della magistratura”.

[40] Laddove proprio la circostanza che, dopo l’intervento novellatore della l. n. 269, è prevista la facoltà del sostituto di presentare osservazioni, senza alcuna indicazione sull’ulteriore iter, «porta ragionevolmente a concludere che, qualora il Procuratore non riveda la propria posizione, il magistrato potrà rivolgersi al Csm a tutela della sua sfera di autonomia professionale ed operativa, come già statuito dalla Corte costituzionale (sent. n. 143/73) e dalle plurime delibere consiliari nella vigenza l’ordinamento Grandi del 1941» (così la risoluzione Csm 12 luglio 2007.

[41] Risoluzione del Csm del 25 marzo 1993. Non senza dimenticare che la medesima risoluzione ritagliava e tipizzava in qualche modo le circostanze idonee a giustificare la revoca, ammessa solo in presenza di richieste del sostituto “oggettivamente insostenibili sul piano tecnico, esulanti dal campo dell’opinabilità e manifestamente ingiustificabili”.

[42] Tale non potendosi considerare, in termini immediati e diretti, l’attività “di vigilanza” del Procuratore generale presso la Corte di appello, secondo l’art. 6 del medesimo decreto legislativo, il quale dispone: «Art. 6. Attività di vigilanza del procuratore generale presso la corte di appello 1. Il procuratore generale presso la corte di appello, al fine di verificare il corretto ed uniforme esercizio dell’azione penale (l’osservanza delle disposizioni relative all’iscrizione delle notizie di reato) ed il rispetto delle norme sul giusto processo, nonché il puntuale esercizio da parte dei procuratori della Repubblica dei poteri di direzione, controllo e organizzazione degli uffici ai quali sono preposti, acquisisce dati e notizie dalle procure della Repubblica del distretto ed invia al procuratore generale presso la Corte di cassazione una relazione almeno annuale».

[43] Precisamente due risoluzioni, del 12 luglio 2007 e del 21 luglio 2009, ed una circolare, quella del 17 novembre 2017.

[44] Così C. Salazar, op. cit., p. 206.

[45] S. Panizza, L’organizzazione degli uffici del pubblico ministero, in N. Zanon, G. di Renzo Villata, F. Biondi (a cura di) L’ordinamento giudiziario a cinque anni dalla riforma. Atto del Convegno di Milano del 21 giugno 2011, Milano, 2012, p. 71 ss., afferma che la circolare del 21 luglio 2009 è un «testo di straordinario rilievo nonostante l’insistito tentativo del Consiglio di configurarlo come “atto di mero orientamento” utile ad offrire (semplici) “linee guida” ai dirigenti degli uffici del pubblico ministero» (p. 93).

[46] Ovviamente gli interventi consiliari con le due risoluzioni citate sono assai più ampi ed articolati e si completano con ulteriori profili, il cui dettaglio è impossibile argomentare in questa sede. Ad esempio, è di rilievo la precisazione che riguarda l’esclusione di un potere di assegnazione e di autoassegnazione svincolato da congrua motivazione, perché ciò si porrebbe in contrasto con gli articoli 97 e 101, comma 2, della Costituzione: in conseguenza, il dirigente non ha il potere di scegliere tra l’auto assegnazione o l’assegnazione al sostituto, se non previa adozione di un provvedimento motivato, «da collocare nel momento in cui procedimento ha origine». Inoltre, l’assegnazione al compimento di singoli atti, proprio in quanto non può incidere negativamente sulla sfera di autonomia professionale riconosciuta al singolo magistrato inquirente e non può comprometterne la dignità delle funzioni esercitate, non può che riguardare un procedimento trattato personalmente dal procuratore: non è possibile cioè, se non nel caso di assoluto impedimento del magistrato titolare, assegnare ad altro magistrato dell’ufficio il compimento di singoli atti di un procedimento trattato da altro assegnatario.

[47] Come, con un pizzico di orgoglio, è detto nella presentazione da parte dei relatori (664/VV/2011).

[*] Lo scritto riproduce, con l’aggiunta di essenziali note bibliografiche, la relazione tenuta al Seminario di studi “L’indipendenza della magistratura oggi”, organizzato dall’Università degli Studi di Milano, Dipartimento di Diritto Pubblico italiano e sovranazionale, l’8 novembre 2019, in occasione della pubblicazione del volume Il sistema costituzionale della magistratura, di N. Zanon e F. Biondi, Bologna, Zanichelli, 2019.

18/12/2019
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07/12/2024
Il caso della consigliera Rosanna Natoli. E’ venuto il momento del diritto?

Se nella vicenda della consigliera Rosanna Natoli l’etica, almeno sino ad ora, si è rivelata imbelle e se gran parte della stampa e della politica hanno scelto il disinteresse e l’indifferenza preferendo voltarsi dall’altra parte di fronte allo scandalo cha ha coinvolto un membro laico del Consiglio, è al diritto che occorre guardare per dare una dignitosa soluzione istituzionale al caso, clamoroso e senza precedenti, dell’inquinamento della giustizia disciplinare. L’organo di governo autonomo della magistratura può infatti decidere di agire in autotutela, sospendendo il consigliere sottoposto a procedimento penale per delitto non colposo, come previsto dall’art. 37 della legge n. 195 del 1958, contenente norme sulla costituzione e sul funzionamento del Consiglio Superiore della Magistratura. Questa peculiare forma di sospensione “facoltativa” può essere adottata con garanzie procedurali particolarmente forti per il singolo consigliere - la votazione a scrutinio segreto e un quorum deliberativo di due terzi dei componenti del Consiglio – ed è regolata da una normativa speciale, non abrogata né in alcun modo incisa dalle recenti disposizioni della riforma Cartabia che mirano a garantire il cittadino da effetti civili o amministrativi pregiudizievoli riconducibili al solo dato della iscrizione nel registro degli indagati. Le questioni poste dal caso Natoli sono troppo gravi e serie per farne materia di cavilli e di vuote suggestioni e per tutti i membri del Consiglio Superiore è venuto il momento dell’assunzione di responsabilità. Essi sono chiamati a decidere se tutelare l’immagine e la funzionalità dell’organo di governo autonomo o se scegliere di rimanere inerti, accettando che i fatti già noti sul caso Natoli e quelli che potranno emergere nel prossimo futuro pongano una pesantissima ipoteca sulla credibilità e sull’efficienza dell’attività del Consiglio Superiore. 

02/09/2024
L’imparzialità dei giudici e della giustizia in Francia…in un mondo dove gravitano i diritti fondamentali

Un viaggio nella storia del pensiero giuridico alla luce dell’esperienza francese, sulle tracce di un concetto connaturato al funzionamento della giustizia, reattivo ai tentativi di soppressione o mascheramento tuttora capaci di incidere sul ruolo del magistrato all’interno della società. Una società complessa e plurale, di cui egli è parte attiva a pieno titolo. Nella lucida e personalissima testimonianza di Simone Gaboriau, l’imparzialità emerge come principio-cardine dell’ordine democratico, fondato – necessariamente – sull’indipendenza dei poteri che lo reggono.
Pubblichiamo il contributo nella versione italiana e nella versione originale francese. 

16/05/2024
L’imparzialità del giudice: il punto di vista di un civilista

Il tema dell’imparzialità del giudice, di cui molto si discute riferendosi soprattutto all’esercizio della giurisdizione penale, presenta spunti di interesse anche dal punto di vista civilistico. Se è ovvio che il giudice debba essere indipendente e imparziale, meno ovvio è cosa per “imparzialità” debba intendersi. Si pongono al riguardo tre domande: se e quanto incidono  sull’imparzialità del giudice le sue convinzioni ideali e politiche e il modo in cui egli eventualmente le manifesti; se  l’imparzialità debba precludere al giudice di intervenire nel processo per riequilibrare le posizioni delle parti quando esse siano in partenza sbilanciate; entro quali limiti la manifestazione di un qualche suo pre-convincimento condizioni  l’imparzialità del giudice all’atto della decisione. Un cenno, infine, all’intelligenza artificiale e il dubbio se la sua applicazione in ambito giurisdizionale possa meglio garantire l’imparzialità della giustizia, ma rischi di privarla di umanità. 

04/05/2024