Magistratura democratica
Giurisprudenza e documenti

La Corte Costituzionale sceglie il rinvio pregiudiziale sul “caso Taricco”

di Elena Nadile
Giudice presso il Tribunale di Livorno
Breve nota all'ordinanza n. 24/2017

Con la ormai nota sentenza Taricco, emessa l’8 settembre 2015, la Grande Camera della Corte di Giustizia dell'Unione Europea, rispondendo ai quesiti pregiudiziali sottoposti alla sua attenzione ed evidenziando che la disciplina italiana in materia di prescrizione (con particolare riferimento alle regole di cui agli artt. 160 e 161 c.p.) poteva di fatto comportare la sistematica impunità delle frodi IVA - con conseguente lesione degli interessi finanziari non solo dell’Italia ma anche dell’Unione - ha richiesto al Giudice nazionale, in forza del principio di supremazia del diritto “comunitario” su quello interno, di disapplicare, nell’ambito dei reati fiscali aventi ad oggetto frodi gravi, il combinato disposto degli artt. 160 e 161 c.p. al fine di rispettare gli obblighi imposti dall’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE (che impegna gli Stati membri a “lottare contro le attività illecite lesive degli interessi finanziari dell’Unione con misure dissuasive ed effettive”).

Tale pronuncia ha innescato un vivace dibattito interpretativo in quanto i giudici del Lussemburgo non hanno fornito alcuna indicazione sulla soglia minima di gravità, in presenza della quale scatta l’obbligo di disapplicare le suddette norme, né su quando in concreto ritenere che la normativa nazionale in materia di prescrizione comporti l’impossibilità di colpire con sanzioni effettive un numero considerevole di casi, lasciando così il giudice penale italiano senza alcuna guida nell’esercizio della propria discrezionalità. Al contempo, ha indotto la Corte d’Appello di Milano e la stessa Corte di Cassazione (v. rispettivamente ord. 18.09.2015 n. 6421; ord. 30.03.2016 n. 28346 e 31.03.2016 n. 33538) a sollecitare l’intervento della Corte Costituzionale, ritenendo che quanto statuito attraverso la sentenza Taricco poteva in realtà mettere gravemente in discussione i principi cardine del nostro ordinamento costituzionale, invocando peraltro il ricorso alla teoria dei “controlimiti”.

Più precisamente, i rimettenti hanno manifestato forti dubbi sul fatto che la soluzione individuata dai giudici del Lussemburgo fosse rispettosa dei diritti inalienabili della persona, espressi dagli artt. 3. 11, 24, 25 co. 2, 27 co. 3 e 101 co. 2 della Costituzione, con particolare riguardo al principio di legalità in materia penale.

Secondo i giudici rimettenti, infatti, mentre tale principio sancisce che sia il fatto costituente reato sia la sanzione ad esso ricollegata devono essere espressamente previsti dalla legge, la disapplicazione degli artt. 160 e 161 c.p., invece, comporterebbe, un aggravamento del regime di punibilità (con effetto peraltro retroattivo), in assenza di una normativa adeguatamente determinata.

A tale riguardo la Consulta ha pertanto innanzitutto premesso che il principio di legalità in materia penale è posto a presidio dei diritti inviolabili dell’uomo, ribadendo che le norme penali devono essere determinate e non devono avere in nessun caso portata retroattiva per cui, laddove l’applicazione dell’art. 325 del TFUE comportasse l’ingresso di una regola giuridica contraria a tale principio, la Corte stessa avrebbe il dovere di impedirlo.

Ciò posto, la questione fondamentale di cui il giudice delle leggi si è occupato nell’affrontare la problematica giuridica loro sottoposta è consistita nel verificare se dunque “l’art. 325 del TFUE vada effettivamente applicato nel senso indicato dai rimettenti, oppure se sia suscettibile di interpretazioni anche in parte differenti, tali da escludere ogni conflitto con il principio di legalità in materia penale formulato dall’art. 25, secondo comma, della Costituzione italiana, oltre che con analoghi principi contenuti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000”.

Per far ciò la Consulta ha innanzitutto evidenziato che, a differenza della concezione processuale della prescrizione, vigente in alcuni paesi europei, l’Italia (così come pure la Spagna) ha accolto una concezione sostanziale dell’istituto de quo che di conseguenza è soggetto al principio di legalità e ai suoi corollari (riserva di legge, tassatività e irretroattività) di modo che deve verificarsi se la regola tratta dalla decisione Taricco rispetti il requisito della determinatezza, che deve caratterizzare tutte le norme di diritto penale sostanziale e che costituisce un principio irrinunciabile del diritto penale costituzionale italiano (ma anche europeo posto che la Corte di Strasburgo alla luce dell’art. 7 della CEDU, ha affermato che reato e pena devono essere riconoscibili all’autore di un fatto sin da quando esso è commesso), in quanto permette “una percezione sufficientemente chiara ed immediata del relativo valore precettivo” della disposizione scritta.

Alla luce di tale premessa, la Corte Costituzionale ha innanzitutto evidenziato i profili di incompatibilità attualmente esistenti tra la regola che la Corte di Giustizia nella causa Taricco ha tratto dall’art. 325 del TFUE, la quale da un lato non ha consentito ai singoli individui di prevedere che, in caso di frodi gravi, laddove ne fosse derivata l’impunità anche in danno degli interessi finanziari dell’Unione, la normativa in materia di prescrizione avrebbe dovuto essere disapplicata, dall'altro - stante l’assenza di determinatezza della regola stessa che così posta - lascerebbe ai singoli tribunali, caso per caso, l’integrazione del contenuto della norma, il quale dovrebbe invece essere il frutto di scelte legislative sufficientemente determinate.

Operato tale necessario chiarimento la Consulta si è preoccupata, inoltre, di verificare se la Corte di Giustizia abbia ritenuto che il Giudice nazionale debba applicare la regola giuridica del caso Taricco anche quando essa confligge con un principio cardine dell’ordinamento interno.

A tale riguardo la nostra Corte, evidenziando che i rapporti tra Unione e Stati membri sono regolati alla luce del principio di leale cooperazione (sancito dall’art. 4 par. 3 TUE, come modificato dal trattato di Lisbona) - il quale “comporta che le parti siano unite nella diversità”, con rinuncia a spazi di sovranità, preservando tuttavia il nucleo dei valori su cui si regge il singolo stato membro - ha concluso chiarendo che “il diritto dell’Unione, e le sentenze della Corte di giustizia che ne specificano il significato ai fini di un’uniforme applicazione, non possono interpretarsi nel senso di imporre allo Stato membro la rinuncia ai principi supremi del suo ordine costituzionale”.

La Consulta, inoltre, ha proseguito la sua analisi aggiungendo che “la Corte di Giustizia non è sollevata dal compito di definire il campo di applicazione del diritto dell’Unione, né può essere ulteriormente gravata dell’onere di valutare nel dettaglio se esso sia compatibile con l’identità costituzionale di ciascuno Stato membro. È perciò ragionevole attendersi che, nei casi in cui tale valutazione sia di non immediata evidenza, il giudice europeo provveda a stabilire il significato della normativa dell’Unione, rimettendo alle autorità nazionali la verifica ultima circa l’osservanza dei principi supremi dell’ordinamento nazionale. Compete poi a ciascuno di questi ordinamenti stabilire a chi spetti tale verifica”.   

Nella specie, il giudice delle leggi ha ritenuto: che la  Corte di Giustizia non ha valutato la compatibilità della regola affermata con il nucleo essenziale dei principi cardine dell’ordinamento interno; che vi è necessità di ulteriormente chiarire se la regola tratta dall’art. 325 del TFUE sia applicabile solo se compatibile con l’identità costituzionale dello stato membro e se tale operazione di verifica spetti o meno alle competenti autorità di quello Stato (verifica che nel caso dell’ordinamento italiano avverrebbe mediante la proposizione da parte del singolo giudice a quo della questione di legittimità costituzionale dinnanzi alla Consulta, la quale sarebbe chiamata appunto ad accertare la compatibilità di una determinata regola giuridica, seppur di matrice comunitaria, con i principi cardine dell’ordinamento costituzionale).

In caso di risposta affermativa ai suddetti quesiti cesserebbe ogni ragione di contrasto tra la regola enunciata attraverso la sentenza Taricco e il nucleo essenziale dei principi costituzionali italiani, fermo restando comunque la necessità di accertare se il sistema normativo interno sia in grado di garantire l’efficacia dei giudizi in materia di gravi frodi IVA in danno degli interessi finanziari dell’Unione, auspicandosi in caso negativo un intervento urgente da parte del legislatore nazionale.

Alla luce delle sintetizzate considerazioni, la Corte Costituzionale ha dunque concluso proponendo rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, richiedendo che le questioni pregiudiziali stesse siano decise con procedimento accelerato, tenuto conto dell’incertezza immanente nei procedimenti pendenti e stante l’importanza delle questioni di diritto sollevate.

Queste le questioni proposte: 

- se l’art. 325, paragrafi 1 e 2, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea debba essere interpretato nel senso di imporre al giudice penale di non applicare una normativa nazionale sulla prescrizione che osta in un numero considerevole di casi alla repressione di gravi frodi in danno degli interessi finanziari dell’Unione, ovvero che prevede termini di prescrizione più brevi per frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione di quelli previsti per le frodi lesive degli interessi finanziari dello Stato, anche quando tale omessa applicazione sia priva di una base legale sufficientemente determinata;

- se l’art. 325, paragrafi 1 e 2, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea debba essere interpretato nel senso di imporre al giudice penale di non applicare una normativa nazionale sulla prescrizione che osta in un numero considerevole di casi alla repressione di gravi frodi in danno degli interessi finanziari dell’Unione, ovvero che prevede termini di prescrizione più brevi per frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione di quelli previsti per le frodi lesive degli interessi finanziari dello Stato, anche quando nell’ordinamento dello Stato membro la prescrizione è parte del diritto penale sostanziale e soggetta al principio di legalità;

- se la sentenza della Grande Sezione della Corte di giustizia dell’Unione europea 8 settembre 2015 in causa C-105/14, Taricco, debba essere interpretata nel senso di imporre al giudice penale di non applicare una normativa nazionale sulla prescrizione che osta in un numero considerevole di casi alla repressione di gravi frodi in danno degli interessi finanziari dell’Unione europea, ovvero che prevede termini di prescrizione più brevi per frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea di quelli previsti per le frodi lesive degli interessi finanziari dello Stato, anche quando tale omessa applicazione sia in contrasto con i principi supremi dell’ordine costituzionale dello Stato membro o con i diritti inalienabili della persona riconosciuti dalla Costituzione dello Stato membro.

01/02/2017
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