1. Critiche alla democrazia rappresentativa
La critica alla democrazia rappresentativa riceve da qualche anno nuovo impulso. Si tratta di un fenomeno che non può essere svalutato ed anzi va apprezzato perché costituisce un’occasione importante per riflettere sull’indispensabile vivificazione del rapporto tra comunità politica e soggetti politicamente rilevanti che agiscono all’interno delle strutture di autorità (F. Lanchester, Il sorteggio in campo politico come strumento integrativo dell’attività delle assemblee parlamentari, in http://www.nomos-leattualitaneldiritto.it/nomos/fulco-lanchester-il-sorteggio-in-campo-politico-come-strumento-integrativo-dellattivita-delle-assemblee-parlamentari/).
Viene alla ribalta una pluralità di profili critici della democrazia rappresentativa e, correlativamente, sono numerose le proposte di superamento dell’attuale assetto delle democrazie occidentali.
Alcuni osservatori (da ultimo, Jason Brennan, Contro la democrazia, Luiss University Press, 2018) danno innanzitutto sostanza alla famosa battuta di Winston Churchill secondo la quale «il migliore argomento contro la democrazia è una conversazione di cinque minuti con l’elettore medio». Il problema della delega politica risiede, in questa prospettiva, nella condizione di chi vota e risulta largamente ignaro dei temi che qualificano la scelta elettorale. La soluzione di Brennan è quella di riservare il voto a chi dimostri di poterne fare buon uso, nel senso che sia consapevole di quanto è implicato dal voto. L’auspicata scrematura degli elettori incarna la "epistocrazia", il potere alla conoscenza.
Si fa strada una seconda critica alla rappresentanza politica, più radicale, secondo la quale il problema non riguarda tanto la qualità degli elettori ma l’atteggiamento degli eletti. Questi, alla lunga, tendono a coltivare interessi propri che risultano divergenti da quelli della cittadinanza elettrice. La tradizione che avversa la delega politica si può riassumere nella celebre notazione di Jean-Jacques Rousseau secondo la quale «il popolo inglese crede di essere libero ma lo è soltanto durante l’elezione dei membri del Parlamento; dopo torna schiavo». Si pone così il problema, ben noto, della corrispondenza dell’azione dell’eletto all’interesse degli elettori (M. Cotta, voce Rappresentanza politica, in N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino, Il dizionario della politica, Torino, 2004, p. 800 e ss.) laddove la rappresentanza parlamentare, attuata a mezzo di partiti, tende ad atteggiarsi come una oligarchia (in questo senso, specialmente R. Michels, La democrazia e la legge ferrea dell’oligarchia, Indipendently published, 2020).
A questo problema si danno due soluzioni, non necessariamente alternative.
Per un verso, si auspica il ricorso alla democrazia diretta che, nella versione più aggiornata di questa opzione, è definita come "democrazia deliberativa". La deliberazione (secondo etimo: l’atto di soppesare mediante la bilancia) è la consapevole gestione della cosa pubblica che i cittadini attuano senza intermediari. Evocata da uno stuolo di pensatori (Stuart Mill, Rousseau, Habermas), la democrazia deliberativa ha trovato una specifica attenzione, in anni recenti, ad opera di due studiosi statunitensi, il costituzionalista Joseph Bessette e l’esperto di comunicazione James Fishkin. La proposta di una assemblea permanente della cittadinanza, sia pure formata da membri informati che siano agevolati da collegamenti virtuali, trova un limite nella straordinaria complessità delle società dei nostri giorni, bisognosa di interventi da assumersi secondo tempi rapidissimi impiegando competenze specialistiche.
Per altro verso allora, considerando il limite della democrazia diretta, si propone che la cosa pubblica sia trattata, più o meno estesamente, da una cerchia di cittadini selezionati non già dal voto ma mediante il sorteggio.
2. La res publica gestita da sorteggiati
Tra quanti hanno recentemente portato in auge il ricorso alla sorte in questo campo, hanno conquistato visibilità editoriale: un politologo francese, Yves Sintomer (Il potere al popolo, Dedalo, 2008); un collettivo interdisciplinare di accademici dell’Università di Catania (A. Caserta, C. Garofalo, A. Pluchino, A. Rapisarda, Democrazia a sorte ovvero la sorte della democrazia, Malcor D’ Edizione, Catania 2015); uno storico belga, David van Reybrouck (Contro le elezioni, Feltrinelli, 2015)
Il primo ritiene che il sorteggio possa oggi realizzare l’ideale classico dell’uguaglianza di tutti i cittadini in ragione dell’evoluta tecnica selettiva di un campione rappresentativo della popolazione, una sorta di mini-pubblico che può dare il proprio assenso, valutare, giudicare ed eventualmente decidere in nome della collettività.
I secondi conducono un’analisi (teorica e bisognosa di validazione reale, come si incaricano di chiarire) di efficienza dell’assemblea parlamentare. Il punto di partenza è il rilievo secondo il quale il controllo esclusivo e pervasivo dei partiti produce atti legislativi sostanzialmente lontani dalle esigenze dell’elettorato. Questa distanza tra i bisogni della società e le scelte legislative assunte, nel loro interesse, dai parlamentari eletti, produce una forma di inefficienza istituzionale. Per risolvere il problema, questi studiosi propongono che le assemblee parlamentari siano composte sì da membri eletti ma anche da una quota di sorteggiati. Questi ultimi, portatori “naturali” delle reali istanze della collettività, sono anche capaci di realizzarle in ragione del fatto che i parlamentari eletti non dispongono della maggioranza assoluta e devono quindi venire a patti con i sorteggiati.
Il terzo ritiene che per fronteggiare il fenomeno per cui «in tutto il mondo, i partiti politici sono annoverati tra le istituzioni più corrotte del pianeta» occorre «democratizzare la democrazia», particolarmente attraverso la pratica del sorteggio.
In questa prospettiva, ancora, non va dimenticata la riflessione del filosofo australiano John Burnheim (The demarchy manifesto, Imprint Academic, 2016) che definisce con il termine demarchia siffatto ricorso al sorteggio.
Se la gestione della cosa pubblica secondo il canone della democrazia diretta pone fondamentalmente un problema di agibilità pratica o logistica, l’alternativa alla delega politica costituita dal sorteggio ne pone molti di più.
3. Il contributo di Urbinati. Storia del sorteggio nell’esercizio delle cariche pubbliche
Una rassegna di questi problemi si trova scorrendo l’agile libretto che qui si segnala (N. Urbinati, L. Vandelli, La democrazia del sorteggio, Einaudi, 2020). I due autori ripercorrono innanzitutto la storia del sorteggio come criterio di selezione per l’accesso alle cariche pubbliche e forniscono quindi un quadro normativo degli incarichi oggi assegnati in Italia ricorrendo alla sorte, compiti rispettivamente assolti dalla politologa Urbinati e dal giurista Vandelli.
L’indagine storica perviene ad una serie di puntualizzazioni che dovrebbero essere considerate quando, ad oggi, si qualifica il sorteggio come caratteristico della “vera” democrazia. Se ne indicano alcune.
Innanzitutto, storicamente il sorteggio delle cariche pubbliche è pratica aristocratica. La realtà storica capovolge il noto assunto di Montesquieu secondo il quale la designazione per scelta promuove l’aristocrazia mentre la selezione casuale realizza la democrazia. A ben vedere, il sorteggio si propone come strumento egalitario ma all’interno di un ceto privilegiato. La selezione aleatoria all’interno di una cerchia oligarchica è propriamente il modo di scegliere tra pari senza umiliare alcuno che appartenga alla élite. I precedenti sono molto chiari, in proposito. Nella storia ateniese vi fu una prima fase nella quale il sorteggio interveniva all’interno di una fetta della popolazione assai ristretta, una vera e propria oligarchia. Successivamente, il sorteggio fu praticato tra tutti i cittadini maschi che avevano prestato il servizio militare, una cerchia pari a circa un quarto della popolazione. Dopo l’esperienza ateniese, il sorteggio ha avuto sporadiche ma significative applicazioni, specialmente in Italia. Ancora una volta, si è sempre trattato di un sistema oligarchico. Sia nella repubblica veneziana (dal 1268) che in quella fiorentina (dal 1328) la selezione per sorte interveniva tra esponenti delle famiglie più eminenti, sodalizi così forti da non potere accettare alcun altro criterio discriminatore. Se una differenza può cogliersi tra il sorteggio ateniese e quello praticato da questi – e pochi altri - Comuni italiani, sta nel fatto che la mano della sorte aveva come obiettivo, nel primo caso, la promozione della libertà dei cittadini mentre nel secondo caso la concordia civile. Il tratto comune rimane quello di un sistema che esclude larga o massima parte della popolazione dalla possibilità di concorrere alla definizione delle scelte politiche. A tenore di questi precedenti storici, dunque, non si è mai dato che il sorteggio abbia riguardato una base di selezionabili pari all’intera popolazione di un territorio.
In secondo luogo, storicamente il sorteggio si eclissa dall’orizzonte della selezione politica dopo la rivoluzione inglese del Seicento. Il salto di qualità si compie quando viene assunta l’eguaglianza giuridica dei cittadini, ciascuno dei quali esprime un voto che è unità di misura unitaria e identica tra tutti. Si realizza così la c.d. "isonomia", l’eguaglianza di tutti di fronte alla legge. A distanza di secoli dalla sua affermazione, sappiamo che questa eguaglianza è una "finzione" (p. 65), quel formalismo che ha traghettato le società occidentali dai sistemi esplicitamente oligarchici alla democrazia rappresentativa che pratichiamo. Una democrazia che, nata per superare le oligarchie e conferire a tutti i cittadini pari peso politico, propizia poi la nascita di quella particolare oligarchia che è rappresentata dal ceto dei rappresentanti. Il dato è critico e l’esigenza di rimediare è visibile. Ma dobbiamo sapere che ricorrere al sorteggio può implicare, in ogni senso e per ogni aspetto, la superfluità dell’eguale diritto di tutti al cospetto della legge. Un valore del quale non è così facile privarsi.
In terzo luogo, il sorteggio non è mai stato impiegato nella formazione delle istituzioni legislative, semmai nell’ambito di quelle amministrative e giudiziarie. In Atene potevano essere sorteggiati i controllori delle leggi (i nomothetai, una sorta di giudici costituzionali) ma non i legislatori. Aristotele, nella Politica, componendo una sorta di decalogo delle istituzioni ateniesi, ha cura di precisare che leggi e decreti siano decisi dall’assemblea e non da sorteggiati e che tutte le altre funzioni siano sorteggiabili ad eccezione di poche che richiedono speciali competenze (ad esempio, l’incarico di stratega militare). Devono quindi ritenersi inedite e senza precedenti storici le attuali proposte di comporre parlamenti in tutto o in parte popolati da membri sorteggiati.
In quarto luogo e da ultimo, l’autrice nota che l’obiettivo di elidere o almeno attenuare gli effetti patologici di quella «oligarchia parlamentare» (quale portatrice di istanze proprie individuali o conformi all’interesse della parte politica di appartenenza) risulta «sacrosanto» ma non può essere perseguito ricorrendo al sorteggio. Questo strumento, infatti, nella migliore prospettiva possibile si propone di perseguire una misurabile migliore efficienza del prodotto legislativo, secondo la proposta dei citati studiosi catanesi. Ma se così è, occorre ricordare che la scienza applicata alla politica (quella che persegue la "scelta razionale") piacerebbe alla città ideale di Platone ma sarebbe anche la fine della libertà politica che consiste nella irrinunciabile facoltà di rimediare a scelte sbagliate (p. 83).
Esiste allora un rimedio alle patologie della democrazia rappresentativa che non sia quella negazione della politica che risponde alla pratica del sorteggio? La direttrice indicata da Urbinati è, letteralmente, quella di «mettere mano alla struttura dei partiti e alle forme di finanziamento» perché «l’espansione delle funzioni dei partiti in tutte le sfere dell’attività amministrativa…è un problema ingente, di corruzione e di inefficienza». Una strada appena indicata e che attende di essere tracciata.
4. Il contributo di Vandelli. Il recente esteso ricorso al sorteggio nel diritto amministrativo: comprovata inefficienza
Scendendo dai piani alti della filosofia politica e dell’analisi storica ad una essenziale rassegna del quadro normativo vigente oggi in Italia, si scopre che al sorteggio è riservato un crescente ruolo selettivo nel conferimento di compiti pubblici.
L’ambito tipico della designazione a sorte è quello giudiziario, in ragione della peculiare esigenza di "imparzialità" dei selezionati. Così sono designati i giudici popolari che compongono le Corti di assise, i giudici che integrano la Corte Costituzionale nei giudizi di accusa contro il Presidente della Repubblica e i componenti del Tribunale dei Ministri.
In altri settori il sorteggio risponde all’esigenza di allontanare possibili sospetti sull’esercizio della "discrezionalità" del designatore. Così si spiega la nomina casuale dei revisori dei conti degli enti locali, dei componenti delle commissioni che valutano l’aggiudicazione degli appalti, dei docenti che compongono le commissioni per le abilitazioni all’insegnamento universitario, dei membri delle commissioni dei concorsi statali, dei professionisti incaricati dal ministero dello Sviluppo economico di gestire grandi imprese. Il sorteggio compare anche come strumento selettivo per l’attribuzione di risorse o benefici di erogazione pubblica. La logica è sempre quella di sfuggire alla responsabilità della scelta motivata.
Il crescente ricorso al sorteggio non sembra migliorare la qualità dell’azione amministrativa. Da quando le commissioni per le abilitazioni all’insegnamento universitario sono formate a sorte (1998), si registrano tanto un complessivo peggioramento della qualità media delle università italiane quanto una accresciuta diseguaglianza di performance tra le stesse. Altro mondo, analoghe criticità: i commissari di alcune delle più importanti imprese nazionali (Condotte, Piaggio Aerospace), designati per sorteggio, si sono dovuti dimettere tra polemiche o sono stati al centro di rilevanti e noti contenziosi amministrativi.
Sostituire la discrezionalità amministrativa con il sorteggio non porta benefici, per quanto emerge dall’esperienza. Non a caso: la "discrezionalità" è l’ineliminabile snodo tra i principi astratti stabiliti dalla legge e la specifica realtà in cui devono trovare applicazione. L’elisione di questo passaggio in favore del “tiro di dadi” non assicura un risultato migliore. Anche qualora i sorteggiandi siano previamente selezionati in ragione del possesso di dati requisiti e titoli, la scelta casuale ne svilisce la designazione se addirittura non apre la strada a risultati inefficienti.
5. La composizione del Consiglio Superiore della Magistratura
Non poteva mancare un cenno – non molto di più – al dibattito sul sorteggio come metodo di selezione dei componenti del Consiglio Superiore della Magistratura. Tema assai rilevante per l’opinione pubblica interessata ai temi della giustizia ma anche materia che, di questi tempi, trova un più ampio bacino d’interesse. Non a caso, dopo il c.d. scandalo-nomine emerso dalle indagini condotte dalla Procura della Repubblica di Perugia. Una vicenda così grave da far temere abbia indotto «una crisi sistemica, senza una evidente via di uscita» (Mariarosaria Guglielmi, Crisi della magistratura e rischi per la giurisdizione, su questa Rivista, 22 giugno 2020). In questa contingenza, sortiscono nuovi fautori (e riprendono fiato antichi assertori) della composizione casuale del Consiglio. Alcuni dei nuovi sostenitori del sorteggio riconoscono che si tratta della «ammissione di una sconfitta» (S. Passigli, Un’idea per cambiare il Csm, Corriere della sera, 22 giugno 2019).
Il libretto qui segnalato innanzitutto rassegna, pur sinteticamente, varie proposte di applicazione del sorteggio. Secondo alcuno, la designazione a caso deve applicarsi a tutti i consiglieri, togati e laici. Secondo altra opinione, basterebbe che la nomina per sorte riguardasse la metà dei consiglieri di ciascuna categoria. C’è chi ritiene sorteggiabili, per la categoria togati, tutti i magistrati e chi auspica una preliminare selezione che riservi la chance a chi abbia dimostrato una data (ma non specificata) qualità professionale. Taluno desidera invertire la sequenza tra scrutinio dei requisiti e sorteggio. Si segnala infine l’idea di praticare il sorteggio pescando da un’urna nazionale, contrapposta a quella di chi predilige plurime estrazioni a più ristretta base territoriale.
L’idea del nostro Autore sul punto è assai chiara: si tratta di «proposte che cercano di evitare di contrastare troppo apertamente con la Costituzione che con nettezza afferma che i componenti del Consiglio superiore della magistratura sono eletti» (art. 104 Cost.). Questo argomento, di carattere strettamente normativo, pare inconfutabile. Ma non può escludersi che a taluno venga in mente di promuovere una legge di revisione costituzionale. Conviene allora ragionare sulla ratio della norma, verificando se davvero meriterebbe di essere modificata.
Non appartiene all’economia di questa recensione affrontare un tema così complesso, peraltro non specificamente trattato nel libretto alla nostra attenzione. Basterà dunque riferire due riflessioni espresse in materia da un Maestro del diritto costituzionale.
La prima, riferita alla designazione casuale dei consiglieri superiori della magistratura: «il sorteggio sottrarrebbe gli eletti ad ogni valutazione di capacità da parte degli elettori e non contribuirebbe peraltro ad evitare le trattative correntizie ma solo di affidarle al caso, aggiungendo una forte componente personale di chi, sentendosi svincolato da ogni responsabilità, potrebbe regolarsi – com’è avvenuto in ambito universitario – sul motto “ora o mai più”» (G. Silvestri, Consiglio Superiore della Magistratura e sistema costituzionale, in questa Rivista, 2017 n. 4).
La seconda, più latamente riferita alla classificazione del Consiglio come organo di garanzia cui è demandato di operare un confronto di idee «volto all’individuazione della più regolare, coerente ed efficace prassi attuativa delle norme costituzionali e legislative. Se questa “politica” in senso peculiare fosse stata sempre prevalente nel Consiglio, forse le correnti non si sarebbero trasformate in macchine spartitorie di posti e benefici, favorite, in questa loro disdicevole tendenza, da accordi slegati da ogni considerazione generale, che non sia di pura accumulazione del potere, anche in collegamento con la politica partitica, che avrebbe dovuto invece rimanere fuori dall’organo di garanzia» (G. Silvestri, Principi costituzionali e sistema elettorale del Consiglio superiore della magistratura, in https://www.sistemapenale.it/it/opinioni/gaetano-silvestri-principi-costituzionali-e-sistema-elettorale-del-consiglio-superiore-della-magistratura).