1. Alla vigilia di lasciare i ruoli della Magistratura, la Presidente della Sezione specializzata Protezione internazionale e immigrazione del Tribunale di Firenze, Luciana Breggia, ci consegna un piccolo gioiello di giurisprudenza, come la si intendeva nel passato: iuris prudentia. Ri-cordare significa “riportare al cuore”. Si ricorda un frammento del passato, perché è in grado di accendere nel presente la scintilla della speranza. Tutto il processo giurisdizionale è un ri-cordare il passato per accendere quella scintilla. La parte che si rivolge al giudice ricorda un torto subito nel passato con l’auspicio di ottenere giustizia. Il giudice interpreta la legge come un frammento del passato da ri-accordare al presente con l’auspicio di rendere giustizia.
Ricordare iuris prudentia significa riportare al cuore la virtù del giudice.
Prudentia dice la phronesis aristotelica, secondo la traduzione che ne fece Cicerone in latino. La maggior parte dei filosofi preferisce dire phronesis come “saggezza”, ma Remo Bodei ha felicemente riproposto “prudenza”. Alla phronesis, Aristotele si rivolge nel sesto libro dell’Etica Nicomachea, che è destinato alla trattazione delle virtù dianoetiche, cioè delle eccellenze della parte razionale dell’anima. Tra queste ultime, mentre la sophia è la virtù della ragion teoretica, diretta al conoscere, la phronesis è la virtù della ragion pratica, diretta all’agire. Al pari della filosofia teoretica, anche la filosofia pratica è per Aristotele una scienza; la dialettica è il suo metodo. Del resto, nel mondo greco la filosofia era in quanto tale scienza, epistème, un sapere che “sta su”.
La sophia ha per oggetto cose della natura, che non possono essere diverse da come sono. Le cose della natura possono essere conosciute matematicamente o geometricamente. La phronesis ha per oggetto atti umani, che ben posson essere diversi da come son fatti. I contegni umani possono tenersi in un modo, piuttosto che in un altro. Mentre il modo di manifestarsi della sophia è la conoscenza, il modo di manifestarsi della phronesis è la deliberazione. La phronesis è definita da Aristotele come la capacità di deliberare sui mezzi più efficaci a realizzare un fine buono. Egli non era così ingenuo da escludere che gli esseri umani potessero calcolare i mezzi più efficaci per realizzare un qualsivoglia fine. Quella capacità di calcolare egli la chiamava deinotes (abilità, astuzia) e la teneva distinta dalla capacità di deliberare della phronesis.
Come modello di phronesis politica, Aristotele indica Pericle. Pratica la phronesis non solo il buon politico, ma anche chi sa fare il bene della propria famiglia o chi sa fare il bene dei singoli. Questi ultimi possono essere per noi anche le persone che si rivolgono al giudice per conseguire un fine buono: la tutela effettiva dei loro diritti. Il giudice è investito come persona di valore. Egli è valoroso poiché sa dar valore a ciò che fa, contribuendo a realizzare il fine buono.
Cicerone traduce sophia con sapientia e phronesis con prudentia. In età moderna, Giambattista Vico identifica nitidamente il nucleo dell’attività del giurista nella prudentia e vi collega saldamente il metodo dialettico del confronto degli argomenti (topica).
2. Legislatori, studiosi e pratici del processo parlano e scrivono di “cognizione”: di processi di cognizione, di fattispecie che sono conosciute dal giudice. Si dice che il giudice conosce il diritto: iura novit curia. Si dice che il giudice conosce, di volta in volta, i fatti relativi alle singole controversie: narra mihi factum, dabo tibi ius. Si dice che il giudice conosce dei fatti umani, li confronta con gli schemi della legge e riconosce l’effetto giuridico previsto da quest’ultima.
Dire in questo modo significa pensare secondo la logica della fattispecie. Pensare alla stregua della logica della fattispecie equivale a pensare secondo la logica della conoscenza delle cose della natura, alla stregua del metodo affermatosi nel XVII secolo. Diceva Galileo che la natura è un grande libro scritto nella lingua della matematica. Si percepisce una cosa della natura, il movimento di un astro, che non può muoversi se non nel modo in cui si muove; lo si riporta allo schema matematico congruente; e così lo si conosce.
Molto è già deciso dalle parole che usiamo. Esse sono i segni consegnatici dalla tradizione. Quella tradizione traccia un solco dentro di noi. Dirige lo sguardo sul presente e orienta l’aspettativa sul futuro. Tuttavia, se siamo legati al passato, siamo anche liberi. Riconoscere i vincoli che ci vengono dal passato è il primo passo per liberarci nel presente, quando il momento è propizio, cioè quando è la stessa linea del passato che chiede di essere spezzata nel presente.
Dire che il giudice conosce i fatti raccontati dalle parti nel processo e conosce la legge che ha studiato significa dire che il giudice guarda ai fatti e alla legge come Galileo scrutava le stelle con il suo cannocchiale. Solo che la legge non è la natura e le persone non sono astri. È un linguaggio che parla dalla tomba, come Montesquieu parla dalla tomba quando dice che il giudice è la bocca della legge. Il giudice non conosce di fatti, non conosce la legge. Il giudice delibera sui fatti, così come delibera sulla legge. Così richiede la sua prudentia. La legge è fatto dell’uomo, così come sono fatti dell’uomo quelli che le parti raccontano al giudice. I fatti dell’uomo sono contegni umani: possono contenersi in un modo piuttosto che in un altro. Non sono cose della natura, che sono nel modo in cui sono e quindi possono essere solo conosciute. I fatti umani che si sono contenuti in un modo nel passato possono contenersi in modo diverso nel futuro. La parte che narra di un torto subito nel passato si rivolge al giudice proprio perché questi accenda la speranza che l’autore del torto si contenga in modo conforme al diritto nel futuro. Il giudice interpreta la legge del passato e così, di volta in volta, la riaccorda al presente con la prospettiva di rendere giustizia nel futuro. Questo ci ha detto Hans Georg Gadamer: il testo della legge, per essere compreso in modo adeguato, deve venir compreso in ogni momento, ossia in ogni situazione concreta, in maniera nuova e diversa e comprendere significa sempre, necessariamente, applicare. La stessa legge, come ogni altro atto umano, per essere sempre coerente con il fine della giustizia, può contenersi in un modo in un caso, in un altro modo in un diverso caso, mediante una corretta interpretazione e «una corretta concettualizzazione che ne assicuri[no] la coerenza con la razionalità complessiva del sistema giuridico» (Luigi Mengoni).
L’immagine della giustizia è la bilancia, non il cannocchiale di Galileo. Ciò non significa che il giudice debba mettersi dalla parte del cardinale Bellarmino. Vuol dire che il giudice delibera sui fatti e sulla legge per il fine della giustizia. La parola delibera reca con sé l’idea della bilancia, che in latino si dice libra. De-liberare significa originariamente togliere dalla bilancia ciò che si è pesato e consegnarlo. L’idea del consegnare si è conservata nella parola inglese delivery. La decisione è la consegna del giudice. Prima della decisione c’è il deliberare e prima del deliberare c’è il soppesare. Il giudice soppesa la legge così come soppesa i fatti e li porta in equilibrio nella sua bilancia.
Così grande fu il bagliore promanato dal metodo scientifico del XVII secolo, che oscurò tutto il passato. Si pensò che anche i fatti umani dovessero essere letti nella lingua della matematica; che tutte le verità potessero essere scoperte con quel metodo. Thomas Hobbes fondò la politica su quel metodo. Baruch Spinoza scrisse una Ethica more geometrico demonstrata. William Petty fondò sulla matematica l’economia. L’etica, la politica e l’economia erano le parti della filosofia pratica di Aristotele. La tradizione scolastica di origine medievale, ancora ben praticata nelle università, si avviò ad un rapido declino.
Queste cose appartengono di nuovo al passato. La linea che veniva dal passato ha richiesto di essere spezzata nel presente ed è stata spezzata, dischiudendo la prospettiva di recuperi propizi di ciò che era stato oscurato da un bagliore troppo grande. Ragionare oggi secondo la logica della fattispecie significa continuare ad essere abbacinati da quel bagliore. Aristotele ci insegnò allora e continua ad insegnarci oggi che la phronesis è la capacità di deliberare sui mezzi buoni a realizzare un fine buono. Egli ci indica un’argomentazione che si orienta al fine da conseguire. Si ha a che fare con fatti umani e non con cose della natura. Pertanto, prima si pensa al fine e poi al mezzo. Prima si immagina l’azione buona nel futuro. Poi ci si impegna a cercare, tra i mezzi a disposizione, quelli più idonei a conseguirla. Quando si tratta di persone che si rivolgono al giudice per la tutela effettiva dei loro diritti, non è chiamato Pericle ad esercitare phronesis, ma il giudice ad esercitare prudentia. Pertanto, sia il fine buono che i mezzi buoni sono indicati dall’ordinamento giuridico.
3. Il Tribunale di Firenze ha applicato fedelmente la phronesis/prudentia al caso concreto. Si tratta di ripercorrerne il cammino, “dipingendo grigio su grigio”. Seguiamo il Tribunale dapprima nell’identificazione del fine e poi nel ritrovamento dei mezzi.
Quanto al fine buono, si tratta del potere di richiedere il permesso di soggiorno temporaneo (ex art. 103, comma 2 d.l. n. 34/2020, convertito nella l. n. 77/2020), senza che l’esercizio di tale potere precluda di coltivare l’opposizione (ex art. 35 d.lgs n. 25/2008) contro il diniego di protezione internazionale. La soluzione opposta non sarebbe un fine buono, ma una trappola che l’ordinamento giuridico – eventualmente attraverso uffici amministrativi e giudiziari - tenderebbe agli stranieri per impedire loro di vedere realizzato quel fine. Costoro potrebbero vedersi rigettare l’istanza di permesso di soggiorno, quando non possono più proseguire nell’opposizione al diniego di protezione internazionale.
Quanto ai mezzi buoni, sarebbe stata necessaria solo la sospensione del giudizio di opposizione al diniego di protezione internazionale, se una circolare ministeriale non avesse peccato di insipienza pretendendo la rinuncia all’opposizione come condizione di proponibilità dell’istanza di permesso di soggiorno temporaneo. Tuttavia, solo la prudenza, non anche l’insipienza, si addice al politico, al legislatore, al funzionario amministrativo e al giudice. La prudentia è superiore all’insipienza e deve poter essere sempre superiore alle astuzie. La persona si è rivolta al giudice.
Il Tribunale ha indicato alla ricorrente la condizione sospensiva: uno strumento che la tradizione giuridica ci ha consegnato per subordinare il compimento di un’azione al verificarsi di un evento incerto. In questo caso, si è trattato di subordinare la rinuncia all’opposizione rispetto all’accoglimento dell’istanza di permesso di soggiorno.
Altri mezzi buoni si sono resi necessari e accessibili alla prudentia del giudice.
In primo luogo, l’art. 306 c.p.c. esclude l’apponibilità di condizioni all’accettazione, non anche alla rinuncia agli atti del giudizio. Ciò non impedisce che, in un altro caso, l’art. 306 possa contenersi/applicarsi nel senso che il fine di giustizia escluda l’apponibilità di condizioni anche alla rinuncia agli atti. Il silenzio dell’art. 306 c.p.c. sull’apponibilità di condizioni alla rinuncia parla alla prudentia del giudice.
In secondo luogo, saldezza di nozioni di teoria generale del diritto ha consentito di argomentare l’insufficiente persuasività di un precedente della Corte di cassazione e di restituire alla disciplina processuale quei margini di negozialità che le competono, in vista della effettività della tutela giurisdizionale dei diritti: in presenza di una condizione sospensiva è l’avveramento della condizione che perfeziona la fattispecie e produce l’effetto definitivo; in questo caso, l’estinzione del giudizio di opposizione. Dapprima si producono solo effetti preliminari: si neutralizza l’insipienza e si accende la speranza per la ricorrente.
Il tribunale di Firenze ha portato la bilancia della giustizia in equilibrio.
È un equilibrio che parla il greco antico:
Kalòs Kai Agathòs