Il 30 maggio a Roma Magistratura Democratica organizza (insieme al portale di studi giuridici Articolo29, nato da una iniziativa di giudici e avvocati, ed all'associazione Avvocatura per i diritti lgbt Retelenford), un convegno intitolato alla "Costituzione e la discriminazione matrimoniale delle persone gay e lesbiche e delle loro famiglie".
Un'importante occasione di riflessione, sia per la qualità dei relatori (Rodotá, Ferrando, Saraceno, Rescigno, Wintemute, Pezzini, Brunelli, Acierno, Dogliotti, Lalli, Ferrari) sia per il suo significato, anche simbolico, evidenziato dalla chiusura affidata ad una tavola rotonda con Stefano Rodotá, Gilda Ferrando e Massimo Dogliotti, moderata dal segretario generale di Magistratura Democratica, Anna Canepa, a testimonianza del rinnovato impegno di MD in materia di diritti civili.
Oggetto del dibattito saranno le riflessioni sul concetto e sull’ampiezza dell’omolegame, inteso come famiglia e formazione sociale, e sul tema del “diritto alla vita familiare”, sancito dall’art. 14 della CEDU , un “macrodiritto” che contiene in sè una serie di posizioni, aspettative, facoltà e desideri legittimi che rappresentano niente di più che la sua necessaria realizzazione concreta.
L'Italia è ormai l'unica grande democrazia occidentale a negare i diritti delle famiglie formate da coppie gay e lesbiche e dai loro figli e figlie. Negli ultimi decenni grandi Paesi come la Spagna, la Francia, l'Inghilterra hanno revocato il divieto di matrimonio ed adozioni per le coppie dello stesso sesso, aprendo alla piena uguaglianza. Il diritto alla doppia genitorialità dei figli delle coppie gay e lesbiche è garantito in tutti i Paesi dell'Europa occidentale anche dove non vi è il matrimonio, dal Portogallo alla Germania e persino Malta riconosce da qualche settimana le unioni civili tra persone dello stesso sesso e le adozioni nell’ambito di un omolegame. La Corte di Strasburgo e la nostra Cassazione hanno riconosciuto che le coppie gay e lesbiche ed i loro figli e figlie rientrano nella nozione giuridica di "famiglia" e sono coperte dunque dalla protezione che la Convenzione europea dei diritti umani (e, per suo tramite, dalla nostra Costituzione) assicura alla "vita familiare".
Eppure in Italia, un Paese aderente alla Convenzione, così tante famiglie vivono ancora prive di qualsiasi riconoscimento legale.
Gli omosessuali sono circa il 5% del Paese. Coppie, bambini, anziani, milioni di individui nascono, vivono, muoiono senza alcuna tutela delle loro relazioni familiari. É come se per una intera regione d'Italia, grande come la Toscana o la Puglia, il Parlamento avesse deciso di sospendere tutte le norme che il codice civile dedica al diritto di famiglia. Un'intera regione in cui è vietato sposarsi ed i cui cittadini e cittadine restano privi e prive delle tutele che conseguono al matrimonio civile, persino quando hanno figli: bambini allevati in famiglie nelle quali è negata ogni relazione giuridica con il proprio genitore sociale, la persona che li ha voluti, allevati, educati, e che ha dimostrato spesso sul campo di possedere talenti specifici spendibili nel ruolo di genitore; cittadini invitati a rivolgersi a notai o avvocati per tentare di assicurare qualche incerto diritto con contratti privi di effetti per i terzi, o con testamenti che non offrono garanzie di certezza alcuna di rispetto della propria volontà.
Ormai da trent'anni attendiamo, dunque, una Legge capace di dare finalmente voce e dignità alla dimensione affettiva dei tanti che, per natura, non possono ascriversi alle dinamiche della famiglia eterosessuale, ma che al tempo stesso rivendicano dallo Stato il pieno riconoscimento del loro diritto alla vita familiare. Mentre altri Parlamenti hanno prodotto in un primo tempo riforme più timide (chi si ricorda ancora dei pacs francesi o delle civil unions inglesi?) per arrivare poi alla cessazione della discriminazione matrimoniale, la nostra classe politica è rimasta immobile e spesso persino infastidita. I timidi dibattiti poltici degli ultimi anni sono naufragati miseramente restituendo l’immagine di un legislatore incapace di affrontare il tema dell’uguaglianza, spesso privo del necessario spessore culturale e politico, ma soprattutto fastidiosamente incline a dinamiche di mediazione e di compromesso che sul tema dei diritti civili vanno considerate inaccettabili.
I giudici italiani, fino ad oggi, chiamati su singole e specifiche vicende, più volte non hanno saputo o potuto offrire idonea risposta alle istanze della comunità omosessuale. In assenza di specifiche normative, e alla luce di un sistema di fonti frammentario ed eterogeneo, spesso si sono approntate soluzioni di chiusura, talvolta abdicando in modo poco coraggioso al proprio ruolo di interpreti delle fonti, talaltra prendendo semplicemente atto della impossibilità di “giudicare” su situazioni e vicende non normate. Molteplici le questioni passate al vaglio dei giudici, dalle richieste di ricongiungimento familiare, alla separazione di due bambini dalla loro mamma non biologica, dal rifiuto del passaporto diplomatico al coniuge di un nostro diplomatico, alle recenti vicende in tema di iscrizione del matrimonio contratto all’estero senza dimenticare la questione di legittimità costituzionale sollevata in relazione al divorzio imposto a seguito della rettificazione di sesso di uno dei coniugi.
La lettura rigorosamente originalista del termine “matrimonio” offerta dalla Consulta nella sentenza n. 138 2010 è stata già travolta, come prevedibile, dall’evoluzione del diritto europeo: come affermare che la parola “matrimonio” debba essere riservata, per sua indiscussa accezione, alle coppie eterosessuali, quandola Corte di Strasburgo afferma il contrario, quando la parola “matrimonio” nell’art. 9 della Carta di Nizza è espressamente gender neutral, quando nel dizionario giuridico e nella lingua comune dei nostri più stretti vicini il matrimonio ha già un’accezione più ampia e comprensiva?
I timidi passi compiuti dalla giurisprudenza italiana, alcuni dei quali rilevanti nella loro portata innovativa (la Corte di Cassazione, e conseguentemente la giurisprudenza di merito, hanno escluso che tra i requisiti fondamentali del matrimonio possa annoverarsi la diversità di sesso dei nubendi, ed hanno negato che l’omosessualità possa essere motivo per rifiutare l'affidamento dei minori o il diritto di visita), sono continuamente presi d’assalto da più parti, e sviliti alla luce della sterile accusa di chi vede in tali pronunce un’inopportuna invasione di campi d’azione che sarebbero di esclusiva competenza del Legislatore: si afferma a più voci,infatti, che per tutelare i diritti di gay e lesbiche servirebbe pur sempre una legge ordinaria, approvata col consenso della maggioranza, e che riconoscere per via giudiziaria i diritti di queste famiglie configurerebbe una invasione del campo della politica.
Questo ambiguo corto circuito tra legislatore inerte e giurisdizione silente e comunque in costante difficoltà anche per l’assenza di un rete di norme, provoca un procrastinare sine die di un’emergenza democratica, quale quella del riconoscimento trasversale del diritto alla vita familiare, e fa il gioco di quella parte del paese che purtroppo è ancora barbaramente ostile verso la minoranza omosessuale.
Tutto questo non può però farci dimenticare che seppur viviamo in una democrazia, dove le regole della maggioranza assicurano il buon esito delle decisioni, l’essenza stessa della democrazia costituzionale impone di assicurare il rispetto e la tutela dei diritti fondamentali secondo il disposto della Carta costituzionale, dei Trattati e della Convenzione europea dei diritti umani.
É dunque compito dei giudici garantire i diritti fondamentali, sempre e comunque, ed a maggior ragione qualora siano in gioco i diritti fondamentali di una minoranza, la cui tutela non può essere appesa al volere della maggioranza. Il fascismo vietò i matrimoni tra ebrei e cristiani e tra italiani e stranieri col pieno consenso popolare, senza che ciò rendesse quelle norme meno odiose, ed è per questo che i Costituenti vollero il diritto al matrimonio ed alla libertà matrimoniale in Costituzione.
Quando le maggioranze ignorano o, peggio, calpestano, i diritti fondamentali delle minoranze, è dovere della giurisdizione assumere sulle proprie spalle la responsabilità costituzionale di garantirne l'agibilità.
Tutto questo non rappresenta uno spostamento o un’ invasione di competenze né ha certamente valenza eversiva, ma rappresenta l’applicazione delle regole democratiche di una comunità costantemente ispirate ai valori della Costituzione.
Così hanno ritenuto più volte i giudici occidentali negli ultimi anni. Così ha ritenuto, prima al mondo, la Corte suprema di Boston (non a caso la città nei cui pressi ha sede la prestigiosa scuola giuridica di Harvard) che ha dichiarato l'incostituzionalità del divieto di matrimonio. Così hanno ritenuto, a seguire, i giudici costituzionali canadesi, californiani, sudafricani che hanno aperto il matrimonio alle coppie dello stesso sesso. Così ha ritenuto di recente la Corte Suprema degli USA che ha dichiarato l'illegittimità delle norme che vietavano il riconoscimento dei matrimoni a livello federale. Così, ancora nelle ultime settimane,varie corti statunitensi con decine di decisioni, tanto che è pressoché impossibile tenerne il conto. Così in ripetute sentenze la Corte costituzionale tedesca (in materia di rettificazione anagrafica di sesso senza intervento chirurgico, di tutela del matrimonio del transessuale, di equità fiscale, di adozione del figlio biologico del partner ecc..). Così, in tante occasioni e su varie questioni (genitorialità, adozioni, imposte, previdenza..), i giudici della Corte di Giustizia dell'Unione europea e della Corte europea dei diritti umani.
Non si è gridato all'attentato alla democrazia o all'invasione del campo della politica, perché vi è la consapevolezza che i giudici americani, canadesi, sudafricani, tedeschi, europei stanno svolgendo in pieno il loro compito in una sana democrazia costituzionale.
Su questi temi, il tempo della politica si è ormai lentamente e colpevolmente consumato e forse oggi è già scaduto. È dunque tempo che anche la giustizia italiana guardi alla realtà di queste famiglie inforcando la lente del principio di uguaglianza formale.
Su questo ampio dibattito e su questo processo giurisdizionale di inveramento del principio di uguaglianza formale, Magistratura Democratica, Articolo29 e Rete Lenford vogliono riflettere il 30 maggio a Roma, in un’aula del Parlamento, con alcuni dei più autorevoli studiosi dell’evoluzione della nozione sociale di famiglia e del diritto costituzionale, comparato e della famiglia.