Sommario: 1. I giovani magistrati, la delusione e la questione generazionale / 2. Premessa sui “giudici ragazzini” / 3. Questioni su tirocinio e formazione iniziale / 3.1. Il tirocinio mirato e la questione delle specificità territoriali / 3.2. La formazione dei magistrati in materia ordinamentale. Uscire dalla paura e dall’incertezza / 4. Alternative all’efficientismo per realizzare l’efficienza / 4.1 L’efficienza attraverso la stabilità / 5. Prospettive sulla democratizzazione degli uffici / 6. Postilla per un’agnizione.
1. I giovani magistrati, la delusione e la questione generazionale
Si assiste, negli ultimi anni, a un fenomeno generalizzato di allontanamento dei magistrati dai luoghi dell’associazionismo giudiziario. Un fenomeno che, in larghissima parte, riguarda i magistrati più giovani.
Non è solo un abbandono delle correnti, ma anche (e soprattutto) senso di incolmabile distanza rispetto alle questioni che formano oggetto della discussione nelle associazioni, senso di distanza rispetto alle vicende dell’Associazione Nazionale (al di fuori dell’annuale rinnovo dell’assicurazione professionale) e, infine, nei confronti dell’agire del Consiglio Superiore.
Refrattari al discorso identitario o ideologico, i neo-magistrati si descrivono come troppo occupati nella gestione quotidiana delle asperità della funzione e del peso della responsabilità.
Sono, in realtà, diffidenti verso l’associazionismo giudiziario, anche alla luce delle recenti “degenerazioni”[1], ma soprattutto perché lo vedono come un mondo del tutto autoreferenziale, come il luogo in cui i colleghi con maggiore anzianità di servizio si dedicano alle loro competizioni personali e aspirazioni di carriera.
Le sedi destinate ai magistrati di prima nomina sono, prevalentemente, uffici di frontiera, in cui per giunta si riserva all’ultimo arrivato il posto non desiderato da alcuno, il ruolo vacante da più anni, il più disordinato, più faticoso da gestire e riorganizzare.
Il meno anziano è poi quello che cambia più di frequente ruolo, viene spostato da un ufficio all’altro, viene preferito nelle applicazioni, è sempre il prescelto quando si tratta di far da rattoppo temporaneo nelle falle dell’ordinamento. Gli uffici di frontiera sono infatti costretti ad adottare, con non poco sforzo, un approccio organizzativo che funziona (per necessità) secondo lo schema del “navigare a vista”, della copertura di un’emergenza sempre nuova.
Non pochi, tra i neo-magistrati, parlano di un senso di delusione: la consapevolezza d’aver realizzato un sogno è presto resa amara dalla successiva, inaspettata, sensazione d’esser sacrificati alle (preesistenti) disfunzioni ordinamentali, schiacciati da una pressione che si avverte come ingiusta perché mal distribuita lungo la linea generazionale.
Magistratura Democratica, storicamente, è stata sin dalla sua nascita «nel 1964, alla vigilia di Gardone», l’associazione che «aveva subito evidenziato la capacità di raccogliere i magistrati giovani»[2].
Oggi, nel dibattito interno a MD, è stata riaffermata la centralità della questione generazionale. Ricominciare a parlare un linguaggio che possa superare la diffidenza e l’amarezza della giovane magistratura è uno degli obiettivi principali dell’attuale magistratura progressista, ma le modalità per raggiungerlo sono ancora in discussione.
La preoccupazione, assai sentita, è di dare un messaggio e un insegnamento fuorvianti; si vorrebbe dar voce alla delusione dei giovani magistrati ma si teme di assumere un tono che suggerisca la semplice deresponsabilizzazione, che incanali la (pur giusta) frustrazione dei giovani sulla via di una pericolosa deriva corporativista.
Non si vuole che le nuove leve della magistratura si abbandonino alla rivendicazione meramente sindacale. Che dimentichino, in un clima di autocommiserazione tipico del pubblico impiego italiano, la soddisfazione intellettuale quotidiana e la passione per la funzione pubblica esercitata.
In realtà, io credo che sia ancora possibile affrontare l’attuale questione generazionale interna alla magistratura secondo tracce già note e già percorse in passato nel contesto dell’associazionismo progressista, senza per questo accettare una sgradita deriva corporativista.
2. Premessa sui “giudici ragazzini”
Prima di procedere alla formulazione di alcune proposte, è necessario un chiarimento. Negli ultimi anni vi sono stati tentativi di sottoporre all’opinione pubblica il disagio dei nuovi arrivati in magistratura. Tuttavia, non solo l’approccio prescelto non è stato, a mio parere, focalizzato sul problema reale, ma anche ha sortito più effetti negativi che positivi.
Nelle sedi di frontiera con l’immissione di nutriti gruppi di neo-magistrati (che anche quando prendono le funzioni continuano a essere chiamati m.o.t., magistrati in tirocinio) sono stati coperti gli organici di intere sezioni di tribunale, perlopiù quelle penali.
Per l’assenza di magistrati anziani (tutti ormai stabilmente collocati su ruoli civili, o in quelli monocratici delle sezioni g.i.p./g.u.p.) si è iniziato ad assistere al fenomeno dei collegi interamente composti da giovani, in cui giovane è anche il pubblico ministero.
L’esposizione mediatica, tipica delle vicende giudiziarie in terre ad alta densità mafiosa o comunque quando si parla di criminalità organizzata, ha diffuso l’immagine dei tribunali e delle procure popolati dai “giudici ragazzini”. L’espressione, prontamente rivangata, ha riempito negli ultimi anni i titoli della stampa locale e nazionale[3].
In molti hanno sostenuto che i collegi chiamati a giudicare sui maxiprocessi di criminalità organizzata, con molteplici persone sottoposte a misure cautelari detentive, non dovrebbero essere interamente composti da magistrati di prima nomina. Giudici inesperti, senza la guida di un presidente anziano, non dovrebbero essere chiamati a responsabilità troppo gravose, a decisioni troppo complesse.
Una simile narrazione, tendente a denunciare una sorta “emergenza”, quella dell’invasione dei “giudici ragazzini”, non aiuta affatto i giovani colleghi ma finisce anzi per esacerbare il loro senso di frustrazione e di scoraggiamento.
In primo luogo, è una ricostruzione non veritiera.
Si tratta infatti di colleghi che hanno superato il concorso “di secondo grado”, con una necessitata sospensione dopo la fine degli studi per l’acquisizione dell’ulteriore titolo di accesso.
I colleghi additati come ragazzini sono perlopiù giudici che hanno fra trentacinque e quarant’anni. Non si tratta di neolaureati in giurisprudenza lanciati di punto in bianco in un’aula di giustizia.
L’avanzamento dell’età di ingresso in magistratura ha comportato il prolungamento delle esperienze professionali degli aspiranti, nell’accademia, nel libero foro o in altre amministrazioni dello Stato.
A tale avanzamento anagrafico ha sicuramente contribuito il fatto che le conoscenze richieste per il superamento delle prove scritte sono divenute sempre più specialistiche – a oggi, nessuno si arrischia a tentare la consegna degli elaborati solo sulla base di uno studio manualistico di livello universitario.
Le conoscenze giuridiche si sono perciò affinate, in maniera quasi spasmodica.
Gli anni di studio prima e le prove poi determinano una selezione estremamente severa dei giuristi non solo più bravi ma anche, in verità, più pazienti.
D’altronde, forse andrebbe ripensata l’idea secondo cui l’esperienza, intesa quale anzianità di servizio e nella funzione, costituisce di per sé un valore. Qualche volta l’esperienza è foriera di involontari pregiudizi, di ripetizione seriale degli stessi errori, di generalizzato disincanto, di insofferenza verso l’aggiornamento dottrinale e giurisprudenziale.
In secondo luogo, il mito del “giudice ragazzino” finisce per ripercuotersi in modo delegittimante sul sereno svolgimento delle funzioni che i giovani magistrati sono chiamati a svolgere.
I giovani colleghi e, soprattutto, le giovani colleghe (purtroppo la delegittimazione generazionale si intreccia strettamente con la questione di genere, che non è questa la sede per trattare) si rapportano con avvocati la cui età media è più elevata della loro, soprattutto nella trattazione degli affari di maggior rilievo. Lo stesso vale per i giovani pubblici ministeri al cospetto della polizia giudiziaria che devono dirigere.
Questi magistrati che, pur nelle difficoltà, si mostrano autorevoli perché scrupolosi e giuridicamente preparati non meritano di essere additati come inesperti o inadeguati.
Prima di procedere alle arringhe, dinanzi a un collegio giudicante composto da colleghe tutte alle soglie della prima valutazione di professionalità, qualcuno dei difensori ha dato pubblica lettura di un articolo[4] riguardante proprio il tema dell’eccessiva inesperienza dei collegi giudicanti nelle sedi del sud. L’intenzione dell’articolo era positiva, ossia quella di richiamare l’attenzione sulla condizione dei tribunali calabresi; l’effetto finale è purtroppo quello delegittimante subito dalle colleghe: “discuto di fronte a un collegio troppo giovane, non del tutto credibile”.
Va insomma chiarito che interventi rivolti a migliorare realmente le condizioni di lavoro dei neo-magistrati, come quelli che qui di seguito cercherò di illustrare, presuppongono l’abbandono della visione paternalistica e la disponibilità a comprendere le loro reali esigenze.
3. Questioni su tirocinio e formazione iniziale
L’indipendenza del magistrato non è un attribuito acquisito per concorso, ma un valore che il singolo magistrato impara a custodire e realizzare. Il percorso è spesso accidentato.
Per coltivare il valore dell’indipendenza è essenziale il tema della formazione iniziale.
Allo stato, il dualismo del tirocinio in magistratura è netto. Da una parte, gli incontri presso la Scuola Superiore ripropongono il modello accademico della lezione frontale, con qualche aggiustamento (esercitazioni sulla stesura dei provvedimenti), con lo scopo indiretto di favorire l’incontro e il dibattito esterno e interno (tra magistrati provenienti da territori diversi). Dall’altra parte c’è la formazione artigiana presso gli uffici giudiziari, che dovrebbe istruire preparare alle inattese asperità dell’amministrazione in concreto della giustizia.
3.1. Il tirocinio mirato e la questione delle specificità territoriali
Le specificità territoriali, nell’assetto formativo, sono riconosciute e se ne tiene conto prevedendo l’organizzazione di iniziative, di aggiornamento e approfondimento, nelle strutture territoriali (decentrate).
D’altro canto, alle peculiarità della sede prescelta dal magistrato in tirocinio non sembra essere attribuita alcuna importanza.
Al punto che è possibile (ed è accaduto) che un magistrato che ha scelto di fare il giudice penale a Reggio Calabria svolga e completi il tirocinio mirato propedeutico alla presa delle funzioni presso la sezione penale del Tribunale di Trento.
La concentrazione delle sedi, destinate ai magistrati di prima nomina, nei tribunali più piccoli e difficili dovrebbe indurre a incentivare lo svolgimento del tirocinio mirato, in tutto o in parte, nella sede in cui saranno prese le funzioni.
Sarebbe un periodo da sfruttare non solo per completare la formazione artigiana ma anche: per ambientarsi nell’ufficio e avere i primi contatti con il foro; per conoscere il personale amministrativo (anche nel rapporto con le cancellerie molti colleghi, formati al nord, quando arrivano nelle piccole sedi meridionali si sentono scaraventati su un diverso, incomprensibile pianeta!); per studiare il ruolo che si andrà a gestire (prima di lanciarsi, in modo ben più faticoso, in medias res).
3.2. La formazione dei magistrati in materia ordinamentale. Uscire dalla paura e dall’incertezza
La formazione dei magistrati sui temi dell’ordinamento giudiziario si colloca, debitamente condensata, nella prima settimana di tirocinio generico, a breve distanza di tempo dal giuramento.
Naturalmente una materia così complessa e in continua evoluzione (ma rilevantissima nella vita professionale) non può essere contenuta in poche lezioni frontali.
La formazione sul punto diventa allora di carattere prevalentemente sapienziale: per comprendere cosa si può e non si può fare, come lo si può fare, l’unica via sembra essere quella di chiedere al collega anziano.
Il sapere ordinamentale è dunque agli occhi del giovane magistrato difficilmente accessibile e governabile, come se non si trattasse di una branca del diritto (come tale esplorabile autonomamente da qualunque giurista) ma di una tradizione orale per la cui conoscenza è necessario di volta in volta rivolgersi a colleghi più esperti e navigati.
A ciò contribuisce il tradizionale e mai realmente risolto deficit di organicità della legislazione in materia, integrata da una copiosissima e stratificata normazione secondaria costituita da circolari del CSM.
Se ne ha, in questo campo, che in effetti «la socializzazione professionale del giudice, o del magistrato, avviene in misura preponderante all’interno dell’organizzazione giudiziaria»[5].
Gli effetti dell’incertezza, quando attengono al mondo della responsabilità disciplinare, si tramutano senz’altro in un senso di paura che non consente di essere pienamente indipendenti.
Tale approccio è d’interesse per Magistratura Democratica, che tradizionalmente combatte contro il modello di giudice spaventato e conformista per paura delle conseguenze delle proprie decisioni e azioni.
Andrebbe promossa con costanza e con fermezza una cultura dell’analisi individuale, sin dall’ingresso in magistratura, sulle norme e le circolari in materia ordinamentale, con l’obiettivo di renderle oggetto di riflessione giuridica comune e intergenerazionale.
Un cambiamento culturale auspicabile soprattutto nell’epoca delle riforme, perché proprio la lettura “ingenua” delle norme (scevra di qualsiasi preconcetto: senza speranze, senza timori e soprattutto senza rancori e precedenti di natura personale) potrebbe condurre alla migliore interpretazione.
La prima necessaria riconciliazione generazionale deve nascere dall’incoraggiamento a uscire autonomamente dall’incertezza, a divincolarsi dalla paura della responsabilità disciplinare.
4. Alternative all’efficientismo per realizzare l’efficienza
La realizzazione faticosa del sogno dell’ingresso in magistratura si scontra oggi soprattutto, una volta acquisite le funzioni, con una logica della performance verso cui i giovani colleghi sono insofferenti perché spesso basata su criteri di tipo puramente formale e numerico.
Chiunque abbia appena fatto ingresso in magistratura si sente oppresso dal peso dell’obiettivo di gestione, soprattutto quando si vede imposta la pronuncia di un determinato numero di sentenze per ogni udienza.
L’impressione è quella secondo cui debba essere operata una difficile scelta, finalizzata a estrapolare dal ruolo quei procedimenti che meritano un’attenzione minore e una frettolosa conclusione. Ciò accade, naturalmente, soprattutto nei primi tempi, in cui il ruolo non è ancora perfettamente ordinato, con un congruo numero di affari maturi per la decisione in ciascuna udienza.
Vi è piena consapevolezza del fatto che l’efficienza della giustizia è un valore che non può essere trascurato. Ma è anche un valore che «può inclinare o burocraticamente o democraticamente»[6].
Alla logica del numero (al mero “efficientismo”, in cui il suffisso esprime la degradazione del valore originario) possono essere opposte, soprattutto da parte dell’associazionismo progressista, alternative plausibili.
Chi inizia a esercitare le funzioni ha bisogno, più che di obiettivi di risultato, di indirizzi sostanziali sull’organizzazione del lavoro. Un rilievo particolare, a tal fine, potrebbe rivestire la partecipazione dei magistrati nello stabilire, nell’ambito dei programmi di gestione di cui all’art. 37 del dl n. 98/2011 (conv. in l. n. 111/2011), i “criteri di priorità” che ne costituiscono parte integrante.
Oltre al criterio di priorità, andrebbe pensata la raccomandazione per realizzarlo in concreto, ad esempio gli indirizzi di massima su come ordinare le scansioni procedimentali e i metodi di razionalizzazione delle pendenze. Un ambito, questo, spesso riservato allo strumento dei protocolli per la gestione delle udienze: documenti che, non a caso, quando contengono “buone pratiche”, fungono da fondamentale ausilio anche per il singolo magistrato nei primi tempi dell’organizzazione del ruolo.
4.1. L’efficienza attraverso la stabilità
I correttivi ordinamentali che, anche in parte, realizzano l’obiettivo della stabilità degli uffici mi paiono quelli più seriamente rivolti all’efficienza.
Il semplice ampliamento della pianta organica, che prescinde dal tentativo della copertura di lungo periodo, si è spesso rivelato come una soluzione apparente.
Il continuo (e perlopiù forzoso) cambio di sede, di ufficio e di ruolo è il primo nemico dell’efficienza ed è fenomeno che riguarda precipuamente la giovane magistratura.
Vi sono uffici giudiziari che patiscono condizioni di costante scopertura, peraltro spesso con incidenze percentuali che non consentono l’esercizio efficace della giurisdizione.
Il tema è allora quello, tradizionalmente proposto nella magistratura di orientamento progressista, dell’insufficienza del sistema delle sedi disagiate, che ha ingenerato forme di turismo giudiziario strettamente “a termine”.
Ma, ancor prima, il problema è che vi sono uffici in cui si ha un numero nettamente insufficiente di magistrati “autoctoni” rispetto al minimum dei posti che sarebbe necessario coprire a lungo termine. La scopertura diventa allora endemica e riferita a un determinato settore, non di rado quello penale (nel distretto di Reggio Calabria riguarda anche ed in maniera abnorme gli uffici giudicanti di secondo grado, sia penali che civili).
La questione di fondo è, invero, da individuarsi nella gravissima sproporzione tra la criticità di alcune situazioni locali della giustizia (numero degli affari, soprattutto di quelli urgenti e complessi), da un lato, e dall’altro lato il numero dei magistrati di provenienza territoriale. Un intervento radicale dovrebbe dunque anzitutto identificarsi con la rinnovata e particolare attenzione all’adeguatezza ma soprattutto all’accessibilità e alla libertà della formazione concorsuale. Su tale aspetto l’attenzione di Magistratura Democratica deve essere ben focalizzata, perché bisogna richiedere quelle azioni positive serie, rivolte a eliminare ostacoli di ordine economico e sociale, che purtroppo negli ultimi decenni sono mancate[7].
Ancor più rilevante è però un altro aspetto.
Finora si è provveduto ad arginare le endemiche scoperture secondo una logica latamente emergenziale: quella dell’individuazione delle sedi entro cui i magistrati in tirocinio possono selezionare la loro prima collocazione, spesso con l’incentivo della qualificazione come sede c.d. a copertura necessaria.
In alcuni casi tale scelta si è accompagnata a quella, contestuale, dell’ampliamento di pianta organica. Una doppia manovra d’emergenza che, come tale, ha fatto doppiamente notizia, perché sulla stampa locale sono apparsi in rapida sequenza due titoli apparentemente rassicuranti per i cittadini: prima “più magistrati” e poi “arrivano i nuovi magistrati”.
La destinazione della sede alla scelta dei m.o.t. non tiene conto delle loro provenienze territoriali ma, comprensibilmente, solo della contingente necessità dell’ufficio.
I neo-magistrati, di diverse provenienze territoriali, si sentono inviati “al confino” per un triennio e giungono con l’obiettivo di abbandonare la sfortunata prima sede alla prima utile tornata di trasferimenti.
Alcune sedi giudiziarie finiscono per essere costantemente e ciclicamente coperte da magistrati di prima nomina. Si innesca infatti un circolo vizioso per cui l’effetto del trasferimento di sede di una precedente tornata concorsuale (tornata per cui è scaduto il fatidico triennio, valevole per la legittimazione ai tramutamenti di sede), corrisponde temporalmente con il momento della scelta di un successivo gruppo di magistrati in tirocinio. Ciò determina però che i posti, sempre lasciati e presi dai m.o.t., non siano quasi mai messi a bando per i trasferimenti.
Ad esempio, è accaduto che nella tornata concorsuale corrispondente al dm 2016 siano stati destinati molteplici posti per i m.o.t. nel Tribunale e nella Procura di Reggio Calabria, nonostante solo tre neo-magistrati nominati con quel dm fossero provenienti dal territorio reggino. Nella successiva tornata concorsuale, corrispondente al dm 2017, gli “autoctoni” erano in sei (un numero ragguardevole) ma nessuno ha avuto la possibilità di scegliere come sede di destinazione la città di provenienza, non selezionata perché da poco coperta dalla folla dei precedenti m.o.t. La costante copertura attraverso destinazione dei m.o.t. comporta che le sedi in questione non siano mai messe a bando per i tramutamenti ordinari di sede. Così, dei sei magistrati reggini, a oggi, solo due sono riusciti a rientrare a Reggio Calabria (chi scrive è tra i fortunati) per trasferimento; gli altri attendono ancora di potersi ricavare uno spiraglio nel circolo vizioso degli ingressi in sequenza di nutriti gruppi di m.o.t. sempre nuovi.
Non è un esempio isolato ma, recentemente, un continuo impasse nella gestione della mobilità, che favorisce, in alcune sedi, il continuo avvicendarsi di magistrati desiderosi di trasferirsi altrove e rende difficile l’insediamento di coloro che provengono da quel territorio.
Non si tratta di rivendicazioni puramente sindacali, della mera pretesa dei giovani magistrati di avvicinarsi alla propria città.
Il giudice naturale, nel sistema costituzionale, è il giudice vicino al territorio su cui esercita la giurisdizione e la miglior realizzazione del principio non si rinviene nella figura di giudice che con la massima impazienza attende lo scattare dei tre anni per allontanarsi.
La migliore amministrazione della giustizia è quella che tende al cambiamento di lungo periodo, al riassetto del ruolo con l’aspirazione della stabilità.
Bisogna allora sfruttare le concrete possibilità di approssimarsi, anche solo di qualche passo, a tale modello ideale proponendo lo sfruttamento ragionevole, e non freddamente razionale, del materiale umano a disposizione.
In questa prospettiva, è chiaro che sarebbe assai arduo, forse inesigibile per il Consiglio Superiore lo sforzo di coordinare costantemente le tornate di trasferimenti con l’individuazione delle sedi per i m.o.t.
Una ragionevole proposta invece potrebbe essere quella di prevedere, dopo l’individuazione della sede per la scelta dei m.o.t., l’automatica chiamata (il ripescaggio automatico) di coloro che, nella sede individuata, siano rimasti esclusi dall’ultima tornata di trasferimenti.
Il meccanismo va reso compatibile con le esigenze e i tempi della procedura di assegnazione delle prime sedi. Così, i “ripescati” dovrebbero avere un termine molto breve per manifestare la persistenza del loro interesse.
5. Prospettive sulla democratizzazione degli uffici
«Nel giugno 1968, anche grazie all’impegno di Salvatore Giallombardo, ma con il contributo fattivo dei rappresentanti di Md, il Csm approvò una risoluzione con la quale, prendendo spunto da fatti avvenuti presso la pretura di Roma, si affermava la piena liceità delle “assemblee di ufficio”, intese come momenti di collaborazione organizzativa con il dirigente e come fattore di responsabilizzazione di ogni magistrato. […] vi fu un grande entusiasmo soprattutto fra i più giovani magistrati, molti neppure di Md, che spesso si trovavano a lavorare in uffici i cui capi, fortemente interessati alle questioni di carriera, apparivano non solo autoritari, talvolta in modo grottesco, e del tutto inadeguati rispetto alle esigenze di gestione del loro ufficio, ma non di rado anche poco sensibili al problema dell’indipendenza»[8].
La lotta contro l’assetto gerarchico e verticistico sia della magistratura in generale che degli uffici ha da sempre fatto parte del nucleo duro dei valori di Magistratura Democratica. Ed è stato anche l’argomento che ha determinato l’avvicinamento dei giovani, che provenivano da generazioni via via sempre più distanti dal Ventennio fascista e che esigevano la realizzazione effettiva del principio secondo cui i magistrati si distinguono solo per funzioni.
Il principio della responsabilizzazione e della «gestione collegiale delle funzioni direttive»[9] fa parte dell’attuale assetto normativo (norme di legge e circolari del CSM) in materia di formazione delle tabelle, di elaborazione dei programmi di gestione.
Assemblee e riunioni, per fortuna, non sono più una novità che fa scalpore.
Ma la sfida verso la democratizzazione degli uffici non è ancora del tutto vinta e il discorso su questo tema, anche oggi, parla soprattutto alla giovane magistratura.
Per diffondere la cultura della responsabilizzazione è necessario tornare, preliminarmente, al tema della formazione in materia ordinamentale, già trattato.
Ma è anche necessario incoraggiare i giovani magistrati a esternare le loro idee sulla migliore e più utile organizzazione degli uffici, a pretendere ascolto e a non considerare la propria voce come inopportuna, invadente o troppo disubbidiente.
Qualche eco delle vecchie gerarchie serpeggia ancora negli uffici e la perplessità dei nuovi magistrati di fronte a queste dinamiche chiama in causa MD.
Molti colleghi, anche di provenienza territoriale diversa, mi hanno riferito ad esempio di non aver mai svolto una riunione per la formazione delle tabelle o per la loro variazione, anche se riguardante la delicata materia delle attribuzioni degli affari ai singoli giudici. Le riunioni, in altre parole, pur previste, spesso non si svolgono. Talora pur svolgendosi non prevedono un reale confronto, bensì la semplice enunciazione della decisione già presa dai presidenti.
Lo strumento delle osservazioni è scarsamente utilizzato, soprattutto da parte di coloro che non vogliono apertamente porsi in contrasto con le determinazioni dei direttivi.
Un’alternativa alle osservazioni, che ho sentito proporre esplicitamente come possibile prassi, è purtroppo peggio del male: il tentativo di far filtrare i motivi di osservazione al singolo consigliere giudiziario per altre vie, ossia la sostanziale delazione del direttivo, impropriamente privato del diritto di contraddire, peraltro su motivi non controllabili.
Alcuni consigli giudiziari hanno messo in atto strategie collaborative, in particolare «il regolamento del Consiglio giudiziario di Napoli prevede un “programma di verifica dell’andamento degli uffici giudiziari”, nonché un’articolazione interna al Consiglio giudiziario (Commissione per la vigilanza ), stabilmente deputata all’attuazione di tale programma e dotata di poteri istruttori strumentali (inclusa la possibilità di riunirsi presso il tribunale interessato da eventuali disfunzioni)»[10]. Ma comunque il soccorso istruttorio della commissione presuppone la segnalazione di una disfunzione.
Ulteriori soluzioni di compromesso sono ancora pensabili.
I consigli giudiziari potrebbero sollecitare ufficialmente i magistrati degli uffici a svolgere con regolarità riunioni per la formulazione delle osservazioni (contro-riunioni obbligate – o, se quella propedeutica non è mai avvenuta, recupero obbligato delle riunioni), verbalizzate, con nomina di un relatore di volta in volta individuato tra i magistrati dell’ufficio, senza partecipazione dei dirigenti e con redazione finale di una breve lista delle criticità rilevate.
Sarebbe una modalità per “costringere” tutti i magistrati – risparmiando così agli interessati eventuali sgradite frizioni con i direttivi – a riflettere sulla legittimità e sulla bontà dell’organizzazione dei loro uffici.
6. Postilla per un’agnizione
Nel 2007, anno in cui furono pronunciate le sentenze n. 348 e 349 della Corte Costituzionale, noi giovani (ma non troppo) magistrati di oggi stavamo intraprendendo il percorso universitario.
«La legge, alla quale il giudice è soggetto» non ci si è mai presentata «come un dato testuale immobile e fisso posto da un’unica autorità» bensì all’esito della lunga evoluzione ordinamentale che l’ha resa sia «combinazione di legge ordinaria e norma costituzionale», «di leggi regionali e leggi statali», che soprattutto «di leggi e trattati internazionali» e della «normativa comunitaria direttamente applicabile»[11].
I nostri studi giuridici sono nati sotto il segno non solo dell’interpretazione costituzionalmente conforme (con piena attribuzione di «normatività forte»[12] alla Carta), ma anche di quella convenzionalmente conforme e conforme al diritto euro-unitario. Alle basi della nostra formazione giuridica vi è l’idea secondo cui il testo della legge debba essere interpretato (ed eventualmente disapplicato o invalidato) alla luce di Trattati, che sono scritti ma anche vigenti “così come interpretati” dalle Corti, la cui giurisprudenza è fonte integrativa del diritto.
L’applicazione delle norme rivolta verso i valori, la necessità di colmare le clausole generali, il contributo del giudice (o, talvolta, di più giudici, sovranazionale e nazionale) nella formazione della regola applicabile, l’idea insomma che esistono molti possibili usi alternativi del diritto: temi che sono ormai nel nostro patrimonio genetico di giuristi.
Ricordo oggi con un sorriso l’anziano magistrato che, nel corso di una lezione universitaria, ci confessò che era fortemente intimorito da cosa avrebbero potuto fare dell’ordinamento italiano questi futuri spericolati colleghi, formatisi sui nostri banchi, “cresciuti a pane e Cedu”.
Perciò ritengo che sia proprio a questa generazione di magistrati che MD deve una particolare fiducia e il riconoscimento di una qualche comunanza: come quella tra chi ha tracciato una strada e chi – anche senza conoscerne la storia – la percorre.
[1] Espressione ormai comunemente adoperata per indicare la deriva carrieristica delle correnti. G. Melis, Le correnti nella magistratura. Origini, ragioni ideali, degenerazioni, in questa Rivista online, 10 gennaio 2020, www.questionegiustizia.it/articolo/le-correnti-nella-magistratura-origini-ragioni-ideali-degenerazioni_10-01-2020.php; M. Volpi, Le correnti della magistratura: origini, ragioni ideali, degenerazioni, in Rivista AIC, 2/20.
[2] Così ancora G. Melis, Storia della magistratura e storia dell’associazionismo giudiziario: una complementarità necessaria, in questa Rivista online, 26 ottobre 2022, www.questionegiustizia.it/articolo/storia-magistratura
[3] Qualche esempio facilmente reperibile online: «I giudici ragazzini condannano la mafia del Roero», in La Stampa, 23 ottobre 2022; «Un collegio di giudici ragazzini firma la prima condanna contro la ‘ndrangheta a Bra», in La Stampa, 24 ottobre 2022; «Tribunale, il dopo Fruganti: tourbillon di toghe, tocca ai giudici ragazzini», in La Nazione, 28 agosto 2021; «Il maxiprocesso alla ‘ndrangheta e la dignità dei giudici ragazzini», in Il Vibonese, 20 gennaio 2021.
[4] R. Lucisano, Giudici in Calabria, in questa Rivista online, 27 aprile 2021, www.questionegiustizia.it/articolo/giudici-in-calabria
[5] C. Guarnieri e P. Pederzoli, La democrazia giudiziaria, Bologna, Il Mulino, 1997, p. 54; gli A. indicano tale circostanza tra quelle che caratterizzano le magistrature burocratiche, idealmente differenziate da quelle professionali.
[6] M. Ramat, Politica delle riforme e uscita dall’emergenza, in Poteri e giurisdizione, Atti del sesto congresso nazionale di Magistratura democratica, Napoli, Jovene, 1985, pp. 162-163.
[7] Un passo in tal senso sembra essere stato fatto dalla recente riforma, che reintroduce il concorso di primo grado e contestualmente crea una scuola per l’ingresso in magistratura dedicata ai più meritevoli, idealmente destinata a divenire l’obiettivo che dà un senso (finalmente concreto) agli sforzi del percorso universitario. Si tratta però di rendere l’istituto di formazione di matrice pubblicistica realmente competitivo nel variegato panorama dei costosissimi corsi di preparazione privati.
[8] G. Palombarini, Giudici a sinistra – I 36 anni della storia di Magistratura Democratica: una proposta per una nuova politica della giustizia, Napoli, ESI, 2000, pp. 57-58.
[9] Così sia F. Vigorito, Le tabelle degli uffici giudiziari giudicanti e i programmi di gestione nel “progetto Cartabia”. L’occasione di un cambiamento, in questa Rivista trimestrale, n. 2-3/2022 che G. Gilardi, La figura del magistrato dirigente di un ufficio giudiziario, in questa Rivista trimestrale, n. 2-3/2013.
[10] Relazione circa l’analisi comparativa della raccolta dei regolamenti dei Consigli giudiziari, in www.csm.it/web/csm-internet/csm/sistema-del-governo-autonomo/consigli-giudiziari, p. 43.
[11] S. Senese, La riforma dell’ordinamento giudiziario, in D. Dal Canto e R, Romboli (a cura di), Contributo al dibattito sull’ordinamento giudiziario, Torino, Giappichelli, 2004, p. 34.
[12] L. Ferrajoli, Associazionismo dei magistrati e democratizzazione dell’ordine giudiziario, in questa Rivista trimestrale, 4/2015.