Questa è la storia di una comunità territoriale, la provincia di Monza e della Brianza, che ha scommesso sull’articolo 27 della Costituzione anche per migliorare la sicurezza collettiva e perciò ha deciso di investire nel reinserimento sociale dei detenuti – adulti e minorenni –, degli ex detenuti e di chi sconta la pena all’esterno del carcere.
A dispetto di una politica miope, prigioniera di pregiudizi e luoghi comuni, che rincorre consensi cavalcando e amplificando le paure collettive; e di una parte della magistratura incline ad assecondare quelle paure, deresponsabilizzando la funzione giurisdizionale, il 14 maggio, al Tribunale di Monza, verrà firmato un Protocollo d’intesa tra avvocati, commercialisti, consulenti del lavoro, associazioni di imprese, Comune, Provincia, Prefettura, Garante dei detenuti, Carcere e Provveditorato dell’Amministrazione penitenziaria della Lombardia, Ufficio esecuzione penale esterna, Centro per la giustizia minorile della Lombardia, nonché Procura della Repubblica, Procura presso il Tribunale dei minori, Tribunale e Tribunale di sorveglianza. L’obiettivo è creare una Rete reale di soggetti impegnati a formare e ad avviare al lavoro detenuti in funzione del loro reinserimento sociale. Sul presupposto che investire nella risocializzazione di queste persone abbia un ritorno in termini di sicurezza collettiva, come peraltro dimostrano ormai numerosi studi scientifici.
Promotori di questa “scommessa” sono stati, in particolare, il Tribunale e la Procura, la Direzione del carcere e gli avvocati del Foro di Monza. Il progetto riguarda un territorio che conta un milione e 200mila abitanti (tale è il bacino di utenza del Tribunale di Monza) e certamente è tra i più ricettivi della Penisola. Tanto che alcuni progetti sono già in fase di realizzazione, anche grazie all’impegno di imprese e banche.
È interessante, in questo particolare passaggio storico-politico, leggere la motivazione che ha portato ad aggregare, contro ogni facile demagogia, professionalità e sensibilità diverse su un terreno tradizionalmente impopolare e poco frequentato qual è il carcere e la “rieducazione” dei detenuti.
Nella premessa del «Protocollo d’intesa» si legge, anzitutto, che «formazione e lavoro rappresentano alcuni degli strumenti principali per favorire il processo di inclusione sociale e l’adozione di modelli di vita che facilitano il reinserimento sociale», ritenuto «di primaria importanza per la riduzione dei tassi di recidiva». Inoltre, favorire le iniziative dirette alla formazione dei detenuti e alla creazione di opportunità lavorative «permette di dare concreta attuazione ai principi contenuti nell’articolo 27 della Costituzione».
L’esigenza di sicurezza, insomma, si salda con la condivisione dei valori costituzionali. Il che conferma – se ce ne fosse bisogno – il carattere (e il contenuto) “politico” dei precetti costituzionali. Non solo. Emerge anche, da parte dei promotori, la consapevolezza e la condivisione di quei precetti nonché di quelli normativi che ne derivano. Per esempio, che il processo minorile punta a salvaguardare la crescita del minore «evitandogli, per quanto possibile, lo sradicamento dalle relazioni affettive primarie e dal contesto naturale di socializzazione, salvaguardandone le esigenze educative e di sviluppo».
In questo contesto, viene riconosciuto “l’interesse” degli Enti e dei soggetti del territorio di Monza e della Brianza a realizzare una collaborazione istituzionale sinergica con il mondo delle imprese e delle Cooperative nonché con gli Ordini professionali, «al fine di sviluppare progetti e azioni rivolti alle persone adulte e ai minori» detenuti.
I promotori sintetizzano efficacemente l’obiettivo “politico” con due parole: «riconoscimento sociale». Dal riconoscimento sociale devono infatti passare i percorsi di risocializzazione, da quelli avviati durante la detenzione fino a quelli attivati attraverso misure penali non detentive e verso soluzioni che consentano di “tagliare i ponti” con il proprio passato mediante il reinserimento in un contesto sociale diverso da quello precedente.
Perché tutto ciò sia effettivo ed efficace, è necessario un «riconoscimento sociale», appunto, declinato anzitutto con la nascita di una Rete che renda strutturale sia l’interlocuzione istituzionale per elaborare e sperimentare progetti sia soluzioni operative e culturali su temi «di assoluta rilevanza sociale, quali sicurezza e reinserimento di soggetti autori di reati».
Parliamo di progetti di riabilitazione che, in qualche caso, sono già stati sperimentati in altre realtà territoriali. Per esempio, con la multinazionale Cisco Networking Academy, che propone corsi di informatica di diverso tipo, creando così occasioni di crescita personale e opportunità di lavoro. Il carcere di Milano Bollate è stato il primo a livello mondiale ad ospitare la Cisco, i cui corsi sono stati frequentati da centinaia di detenuti, molti dei quali, al termine, hanno conseguito la Cisco Certified Network Associate. L’80% ha poi trovato un impiego dentro o fuori il carcere.
Da Bollate, il progetto Cisco si è esteso, approdando a Castrovillari, Cagliari, Procida, La Spezia, Secondigliano, e al carcere di Opera, sempre a Milano. Ora ci prova anche Monza: il progetto è della durata di due anni, 1+1, e costa 12mila euro per il primo anno ma la Rete ha già avuto la disponibilità a finanziarlo da parte della Fondazione comunità Monza e Brianza.
Ma anche altri progetti sono già “in cottura”, con banche e imprese. Per esempio, è in fase di studio la creazione di un forno nel carcere di Monza da parte di una società di Pesaro per la produzione di prodotti alimentari da vendere in tutta la Lombardia.
Questi ed altri progetti verranno presentati alla firma del Protocollo. Che impegna tutte le parti ad attivarsi su vari fronti: informazione, comunicazione, formazione, assunzioni al lavoro, finanziamenti, creazione di cooperative, supporto ai progetti di rieducazione e ai programmi di recupero sociale, apertura alle misure alternative al processo e alla detenzione, diffusione della cultura dei valori costituzionali in tema di recupero sociale dei detenuti, promozione di iniziative culturali per aumentare la consapevolezza dei cittadini che «più carcere non vuol dire maggiore sicurezza» se manca un percorso di reinserimento sociale. Assolombarda, ad esempio, diffonderà tra i suoi iscritti informazioni soprattutto sui vantaggi contributivi e fiscali per le imprese che assumono detenuti, ex detenuti e persone in esecuzione penale esterna. Così come i dottori commercialisti hanno inviato un vademecum ad iscritti e clienti sempre per informarli dei vantaggi derivanti dall’assunzione di queste persone.
In generale, la Rete tenterà di sviluppare progetti finanziabili con i fondi sociali europei.
Ovviamente, il Protocollo è aperto all’adesione di nuovi partner, anche solo per finanziare specifici progetti in carcere.
Una storia importante, dunque, anche per il suo significato “politico”, poiché smonta una serie di luoghi comuni, a cominciare da quello per cui le misure alternative alla detenzione avrebbero soltanto una funzione “svuota-carceri”, non garantirebbero la certezza della pena e metterebbero a rischio la sicurezza collettiva. Il progetto dimostra invece il contrario, e cioè che una comunità territoriale e istituzionale informata ha tutto l’interesse ad un’esecuzione penale operosa e “aperta” all’esterno, oltre che, ovviamente, rispettosa della dignità delle persone e dei loro diritti fondamentali. E tanto dovrebbe bastare a recuperare la riforma del carcere, rimasta invece impantanata nella palude del più becero populismo politico.
Donatella Stasio