1. La Corte e la cittadinanza attiva
La Corte costituzionale ha aperto la porta a un dialogo con espressioni dirette della società civile, utile per acquisire conoscenze e dare valutazioni in ordine a casi sottoposti al suo giudizio. Non si tratta quindi solo di scambi culturali. L’intervento di tali soggetti è istituito come possibilità all’interno del procedimento giurisdizionale. Soggetti, che non sono immediatamente parte in processi ordinari in cui è sollevata questione di costituzionalità, avranno tuttavia possibilità di esprimere opinioni inerenti ai casi da giudicare e quindi di intervenire per orientamenti in futuro su casi dello stesso tipo. Si riconosce quindi che culture e opinioni di merito su singole questioni, nate da partecipazione attiva di persone comuni in quel campo di esperienze e portatrici di competenze formatesi in esse, sono da integrare nell’esercizio della giustizia costituzionale e devono così entrare stabilmente nel cammino di realizzazione della Costituzione stessa. In un certo senso si potrà dire che cittadini attivi anche attraverso la influenza/partecipazione a funzioni giurisdizionali confermano d’essere attore sempre più rilevante per una trasformazione della democrazia, passando da modalità astratte e separate di intenderla alla concretezza di un processo storico realizzativo del sistema di valori e principi condivisi.
L’apertura della Corte è più che un segno di novità: è una rivoluzione, cui certo non è estraneo il fatto che per la prima volta la presidenza della Corte è assunta da una donna[1]. Tale novità concreta uno sviluppo del ruolo della Corte e quindi della Costituzione in sé. Oltreché del ruolo politico-generale della cittadinanza attiva.
Qualche anno fa Gustavo Zagrebelsky, ragionando sul paradosso delle garanzie costituzionali, che non appartengono alla politica ma hanno una funzione politica, ha tratto dalla propria esperienza di giudice e presidente della Corte una serie di stimolanti interrogativi[2]. Posto che il ruolo della Corte “è di natura prima che tecnico-giuridica, storico-culturale”, come è percepito dai cittadini? Ha dato la Corte un contributo alla formazione di una coscienza costituzionale nazionale? Quante sue pronunce “sono entrate a far parte del patrimonio spirituale vivente del nostro Paese, quante sono entrate nella circolazione del flusso di energia vitale della nostra Repubblica?”
Possiamo ora dire che questo senso di responsabilità della più alta magistratura verso la storia e la “formazione di coscienza costituzionale” del paese porta a ulteriori interrogativi, con la “svolta” promossa da Cartabia. È come se la Corte si fosse interrogata sulla bilateralità del “flusso di energia vitale della Repubblica”. Quanto del civismo e delle esperienze concrete della cittadinanza attiva entra o può entrare nelle pronunce dei giudici? E come? Istituire un dovere di ascolto, e aprire la possibilità che cittadini comuni abbiano voce nel farsi di convincimenti giuridici è una politica della giustizia tesa a dare risposte a tali domande. E in questo modo si dà corso pratico a un obbligo costituzionale. È la Costituzione che si fa vita. Sottolineo questo aspetto, per respingere da subito il consueto argomento con cui ai magistrati si vuole inibire l’esercizio della loro “responsabilità politica generale”, che sta appunto nel pronunciare giustizia secondo una costituzione. La politica nuova della Corte, che istituisce forme nuove di dialogo, non ha nulla di arbitrario e non risponde a interessi o ideologie di parte: essa è chiaramente inscritta nei compiti istituzionali che la Costituzione definisce.
Perché la questione in fondo posta dalla revisione costituzionale del 2001, all’art. 118, 4° comma, che ha riconosciuto il ruolo della cittadinanza attiva, questo indica: un obbligo dello Stato, in ogni sua articolazione territoriale e funzionale di potere, di “favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”. Non c’è dubbio che un’attività diretta a integrare e migliorare l’esercizio di garanzie costituzionali sia “di interesse generale”: la apertura a comuni cittadini, che autonomamente con brevi memorie cercano di arricchire le conoscenze e le valutazioni di merito per un giudizio di casi concreti, esplicita una interpretazione che arricchisce i significati comunemente attribuiti al principio di sussidiarietà. Comunemente infatti si ritiene che l’art.118 sia riferito a attività di terzo settore, cioè a pratiche di mutuo-aiuto, o di tutela di beni comuni, o in generale di civismo dei cittadini. È evidente invece che, appena assunta l’idea di una attività di intervento per la formazione di sentenze, essa appare ancora più significativa della connessione con la generalità degli interessi, che quel tipo di attività può attingere. Essa concorre a formare e tutelare beni comuni, volge l’autonomia sociale a sensi di civismo, contribuisce alla coesione e alla equità sociale, rimuove ostacoli alla realizzazione di eguaglianze sostanziali tra cittadini: si tratta della effettività di altrettante norme costituzionali, a cominciare dall’art.3 secondo comma, “stella polare” della Costituzione, come diceva Marco Ramat.
Con questa svolta della Corte un pezzo importante di autonomia sociale può essere volto a dare vita concreta alla sussidiarietà, ben al di là dei significati che la cultura partitocratica ha inteso assegnarle da quando essa, nel 2001 appunto, fu inserita in Costituzione. La norma inserita quell’anno nel quarto comma dell’art.118, infatti, benché ripetesse la formula proposta da soggetti associativi civici e di terzo settore, nella lettura dei partiti che governavano nel territorio ha avuto il senso di legittimare una riduzione delle politiche sociali pubbliche e dare spazio di fatto a organizzazioni – talvolta clientelari e subalterne – per la produzione di servizi a minor costo rispetto agli apparati pubblici. Ho più volte scritto che le forze parlamentari allora non avevano neppure capito quanto avessero approvato[3].
Ma proprio una riflessione su quel passaggio della “transizione istituzionale” italiana degli anni Novanta aiuta a capire quanto sia essenziale intendere il ruolo riconosciuto alla cittadinanza attiva come chiave di una trasformazione del sistema politico in senso ampio.
2. La crisi politico-istituzionale dal Novecento al Duemila
Si era da qualche anno nella cosiddetta Seconda Repubblica. A cavallo del Duemila l’alternanza al governo, vigente un sistema elettorale ormai maggioritario, fu sotto il segno di forze del tutto estranee alla storia e allo spirito del patto costitutivo. Scomparsi nel ’91-92 tutti i partiti costituenti, la maggior parte di quelli nuovi mostrava l’intento di cambiare la seconda parte della Costituzione, tutta o in parte. Ci provò nel ’97-98 una Commissione bicamerale, presieduta da D’Alema, senza riuscirvi. Invece Forza Italia, Lega Nord e Alleanza Nazionale, vinte le elezioni nel 2001, effettivamente questo fecero con un colpo di maggioranza governativa, senza neppur cercare in Parlamento intese più larghe.
Del resto erano state precedute in una simile operazione dal governo di centrosinistra uscente. Nei primi mesi di quell’anno infatti gli eredi delle formazioni politiche nate con le scelte costituenti, giunti allora a configurarsi come DS sotto la guida di Veltroni, in previsione della sconfitta avevano provato a sottrarre il tema del federalismo alle spinte secessioniste della Lega di Bossi, mettendo in campo una riforma del sistema delle autonomie regionali e l’allargamento delle basi democratiche, con una nuova attenzione alle espressioni di cittadinanza attiva. La revisione costituzionale del Titolo V fu l’ultimo atto di quella maggioranza uscente e aveva questo intento: era la prima volta di un cambiamento costituzionale deciso a colpi di maggioranza ristretta, diversamente da quanto prescrive l’art.138 (due terzi del parlamento).
La riforma concepita dal centrosinistra per il sistema territoriale di governo risultò però un pasticcio. E quanto al consenso popolare, la scarsa partecipazione al referendum approvativo (35%) depotenziò il pronunciamento – che comunque era risultato favorevole a quella revisione. Il centrodestra vittorioso non mancò appunto di annunciare che non ne avrebbe tenuto alcun conto e avrebbe imposto una propria revisione. Cosa che puntualmente fece e che, nel 2006, fu sonoramente battuta da altro referendum, per il quale invece la partecipazione fu largamente sopra la maggioranza degli aventi diritto (52,46%). Detto per inciso: dieci anni dopo vi sarebbe stato lo stesso esito per un analogo tentativo del governo Renzi, con partecipazione al voto ancora più massiccia (65,5%). Lo sbarramento a cambiamenti nell’interesse di una sola parte a colpi di maggioranza limitata sembrò così definitivo. Ma questo è un altro discorso.
Il fatto è che nei Duemila lo scarto tra orientamento delle forze politiche e orientamenti popolari circa la prospettiva di cambiamenti costituzionali si è fatto sempre più grande. Quel che con il passaggio a sistemi elettorali maggioritari era divenuto manifesto – una concezione del potere esplicitamente legata a vedute di parte (ci ritorno più avanti) – ora si proiettava nella materia stessa del disegno costituzionale. Ancora pochi anni e si sarebbe sentito un politico parlare di “pieni poteri”, dopo aver fatto strame della Costituzione.
3. Dove porta il principio di sussidiarietà
Torniamo a riflettere sullo spazio aperto all’autonoma iniziativa e allo spirito sussidiario di cittadini nel 2001: ripeto, fu una proposta della cittadinanza attiva e del mondo associativo di terzo settore, e aveva tutt’altra valenza da quella che le forze parlamentari del centrosinistra seppero riconoscere. Per quei partiti l’innovazione non era sostenuta da una visione larga e progressiva delle mutazioni necessarie alla democrazia. Concretava piuttosto un tradizionale espediente delle forze partitiche di “allentare i cordoni”, del potere e della borsa, quando c’è crisi di consenso e di rappresentatività. Dare qualche spazio partecipativo, dare qualche sostegno finanziario a formazioni intermedie: alcuni esponenti di primo piano lo dissero anche esplicitamente. Mancava assolutamente la consapevolezza di quello che si stava mettendo in movimento. La politica organizzata e delegata si sarebbe rattrappita sempre più in forme di partito personale, e nel sentire politico diffuso si sarebbe radicalizzata una ondata antipolitica che avrebbe messo a rischio la democrazia stessa. Ma proprio per questo, civismo e sussidiarietà avrebbero dovuto essere intesi come spiraglio aperto su un futuro ben diverso.
Non fu così, i partiti piegavano il principio di sussidiarietà a fornire una sorta di autorizzazione ai poteri locali a “esternalizzare” i servizi pubblici e sociali, per un taglio delle spese. E non videro che soggetti del terzo settore, e soprattutto quelli che si ponevano come cittadinanza attiva ai sensi della Costituzione (realizzare autonomamente interessi generali), stavano dando corso a una ripresa del costituzionalismo con l’apporto di cittadini comuni. A essere franchi, neppure gli studiosi del diritto costituzionale, schierati a difesa della Carta in tempi così tumultuosi, hanno inteso l’importanza di questo fatto nuovo.
Questo invece è quanto ora la Corte mostra di intendere perfettamente. La situazione nuova è posta infatti dal fatto che, in base a quel quarto comma dell’articolo 118, c’è il riconoscimento costituzionale che i cittadini hanno autonoma capacità di realizzare interessi generali, ponendosi accanto e oltre i poteri dello Stato. Il fatto che tale formula sia passata con relativa facilità al vaglio di deputati normalmente gelosi delle proprie prerogative indica, io credo, che un enorme cambiamento era ormai intervenuto nella percezione di tutti, partiti e comuni cittadini. E tuttavia mancava una adeguata intelligenza delle questioni implicate dal mutamento: la “sovranità pratica” di ciascun cittadino, a certe condizioni, può avere effetto di trascinamento rispetto alla sovranità esercitata in forme della rappresentanza!
La “passivizzazione” sociale non è più il modo in cui gli ordinamenti istituzionali possono assicurare capacità di governo nelle società democratizzate. Il rapporto governanti/governati è mutato, la attivizzazione pacifica e per fini costituzionali della gente comune viene allacciata alla necessità di dare indirizzi di governo in qualche modo vincolati a espressioni dirette di bisogni popolari. Si scrive infatti nell’art. 118 che le istituzioni devono favorire quelle espressioni immediate. E questo vuol dire: facilitare, sostenere, accompagnare, non contraddire ma se mai prolungarne le politiche e quindi in certo senso lasciarsi “indirizzare” dalle autonome manifestazione del civismo, allorché esso realizza fini che sempre meno la amministrazione pubblica riesce ad assicurare.
Che i parlamentari del 2001 non avessero inteso quello, che noi ora connettiamo all’introduzione di quella norma, non inficia il giudizio che proprio quella loro sottovalutazione fosse il segno forte di un mutamento ormai intervenuto nella sfera pubblica. Si riconosceva come cosa di senso comune che la determinazione di quel che si deve intendere per interesse generale non sia più affidata in esclusiva alle rappresentanze politiche, ma sia attingibile anche direttamente da attività singole o associate di cittadini. Anzi, questa via della determinazione di interessi generali appariva tanto più ragionevole in quanto, di fatto, la via della determinazione attraverso poteri rappresentativi era palesemente sempre più ostruita per ragioni strutturali delle pratiche parlamentari.
4. La deriva delle istituzioni rappresentative
La crisi e la insufficienza dei sistemi rappresentativi a assicurare un buon governo nelle società più sviluppate si erano manifestate, come problema mondiale, già negli anni Sessanta. Con epicentro nel ’68. Senza sostanziali cambiamenti nelle strutture della politica. Dunque per gli anni a cavallo del secolo nuovo, la “deriva” dei sistemi istituzionali procedeva ormai da oltre trent’anni.
Le culture istituzionali erano sempre più coscienti di un limite strutturale connesso al sistema rappresentativo: il suo funzionamento basato sul potere delegato a maggioranze assediate e sempre più chiuse in se stesse inibisce gradualmente la possibilità che nelle leggi da esse disposte si possa riconoscere un “interesse generale”. L’intenzione originaria di questa invenzione della modernità, produrre sistemi di rappresentanza generale, veniva falsificata nella pratica istituzionale. Non era questione di corruzione e incompetenza dei governanti (questo naturalmente c’era e c’è, e appare sempre più intollerabile). Il cuore della questione stava nel fatto che le democrazie sviluppate mettevano in campo conflitti politici per la redistribuzione della ricchezza, e questo gli interessi capitalistici dominanti non tolleravano (la Commissione Trilaterale nel 1975 diagnosticò appunto una “crisi di governabilità” delle democrazie: ma non fu detto che il problema era quel conflitto, si disse che il problema era un difetto di sistema, i governi andavano rafforzati, le pretese popolari moderate ecc.).
I sistemi politici del resto nella storia avevano mostrato diverse possibilità di manipolazioni delle forme rappresentative, e cioè dei modi di “filtrare” richieste sociali: le manipolazioni più smaccatamente riduttive del pluralismo sociale sono quelle realizzate nei sistemi cosiddetti presidenziali, e quelle connesse a sistemi elettorali maggioritari. Nei primi anni Novanta in Italia enormi furono le spinte in entrambe queste direzioni e per affermare la seconda vi si piegò in modo impensabile addirittura lo strumento referendario, che avrebbe dovuto essere soltanto abrogativo. Non diversamente da quanto sostanzialmente avveniva e tuttora avviene nel sistema presidenziale americano o nel sistema semipresidenziale francese, la posta era quella di assegnare a un blocco sociale di maggioranza relativa nel paese – e cioè non corrispondente a una maggioranza assoluta tra gli elettori – poteri così forti di governo da poter prescindere dalle richieste delle opposizioni e rifiutarsi alla mediazione politica.
Così il lavoro del parlamento, di cui nei libri si continua a parlare come del solo modo di approssimazione possibile al definire un “interesse generale”, giungeva a mostrare invece senza maschere che si trattava del dichiarato prevalere di interessi di parte. Si è parlato per anni di degenerazione e corruzione delle persone deputate al potere, ma la ragione strutturale, aldilà delle persone, è nella riduzione degli strumenti democratici a mezzo di sistematica prevaricazione della ricerca di interessi generali da parte di chi, col denaro e con i media, può dominare gli orientamenti di voto.
Sempre più infatti nelle prassi parlamentari si sono visti governi deboli, che ricorrevano a prassi abnormi di decretazione d’urgenza e di ricorso al voto di fiducia per non consentire emendamenti alle disposizioni governative neppure a deputati della propria maggioranza. Non solo in Italia, ma in Italia con particolare pervicacia governi di ogni colore dagli anni ottanta hanno fatto ricorso a questi espedienti.
Sui giornali, nell’opinione pubblica e nell’autocoscienza degli stessi protagonisti del ceto politico questa “deriva” dal modello costituzionale di governo parlamentare era ben presente. Senza adeguamenti politico-istituzionali ci si consegnava tutti a volontà sempre più dichiaratamente “di parte” e sempre più arroganti.
Chi poteva credere dinanzi all’imperversare decennale di questi metodi di governo che le procedure parlamentari fossero modellate dall’esigenza di determinare “l’interesse generale”? Il solo documento legislativo in cui era “tesaurizzato” un largo sforzo di convergenza tra le élites per la definizione di interessi generali era la Costituzione del ’48. Solo allora, dopo la tragedia nazionale portata dal fascismo e dalla guerra, nuove élites avevano depositato un progetto di futuro diretto a affermare eguali diritti e garanzie per tutti. E ancora ora è sempre alla Costituzione che si deve guardare se si vuol capire quali siano gli interessi generali del paese. L’esistenza di un presidio così forte per interessi generali consente poi, in piena applicazione di regole giuridiche, di valutare quali comportamenti concreti oggi possano essere detti realizzazione di interessi generali.
È questa la scoperta della cittadinanza attiva. Aver capito che c’è una possibilità, col sostegno del diritto e delle istituzioni pubbliche, di agire immediatamente come protagonisti della traduzione in vita della Costituzione. Volontariato e forme varie di cittadinanza attiva solo gradualmente hanno acquisito questa consapevolezza ma dagli anni Settanta, quando si sono posti decisamente come soggetto politico nuovo, hanno iscritto il loro agire nel campo in cui si lotta per i diritti e i bisogni diffusi, non esclusivi, ma per tutti. Il campo cioè della realizzazione costituzionale. Che le persone coinvolte ne siano più o meno consapevoli non sminuisce il fatto che di un processo realizzativo di costituzione si tratti. E questo i soggetti preposti alla definizione dell’indirizzo politico, alla pubblica amministrazione e alla giurisdizione dovrebbero essere in grado di verificarlo. Ma solo con grande lentezza stanno cambiando i paradigmi applicati all’esercizio di poteri istituzionali. Questo però avviene – e la decisione recente della Corte ne è conferma. Indubbiamente il cambiamento è frutto di pressioni sociali e della maturazione di un’altra cultura.
Che siano enormemente cresciuti quelli che trovano in tali esperienze un senso all’essere cittadini di una democrazia è documentato da ricerche sociologiche e dai rilevamenti statistici ISTAT (nel censimento del 2011: oltre 6 milioni quelli che danno vita al terzo settore, e il 34% di questi specificamente dedito a tutelare diritti, sostenere soggetti deboli, curare beni comuni). Che si tratti di un pezzo di Costituzione che trova gambe nella società è quel che ora comprendiamo meglio. Così il dispositivo dell’art. 118, co.4, che impone alle istituzioni, da quelle statali a quelle comunali, di “seguirne la traccia” (favorirle, accompagnarle ecc.), può essere ora spiegato meglio.
5. Alcune questioni sul modo di pensare
Non è questa la sede per approfondire le questioni teoriche connesse a questo cambiamento. Ma alcune cose vanno dette, per mostrare anche quanto sia precisa e pertinente la decisione della Corte di assumere la cittadinanza attiva come interlocutore legittimo per il farsi della giurisdizione.
Dobbiamo anzitutto sgomberare il campo da modi di intendere tradizionali, sia quelli che poggiano su certo moralismo ideologico, sia quelli del formalismo politico che vorrebbe ripararsi sempre dietro schemi di rappresentanza.
Volontariato e cittadinanza attiva non hanno il potere sussidiario, che gli si riconosce nell’art.118, per il fatto che si tratta di “persone buone”, di cui il paese ha bisogno. Molte narrazioni, soprattutto nei media, battono il tasto dell’etica personale, degli intenti soggettivi, tracciano figure di “santi ed eroi”: all’opposto, chi è insofferente verso questa retorica taccia di “buonismo” coloro che ne fanno uso. Anche la definizione in termini di non profit, se intesa come prova di un particolare intento altruistico, porta fuori strada. Perché non è delle intenzioni che si deve avere prova, ma dei risultati.
La Costituzione infatti indica l’esigenza di valutare la ricaduta oggettiva delle attività intraprese con autonoma iniziativa, per assumerle come dato di riferimento per le politiche pubbliche. Si tratta di risultati inclusivi, e dunque rilevanti per la generalità delle persone? O di vantaggi per l’appropriazione privata e la esclusione di altri?
Nella pubblica amministrazione e anche nell’intervento politico-legislativo c’è poca propensione a questo cambio di paradigma, si preferisce stare al controllo burocratico della conformità statutaria a requisiti che la legge sovente, in modo improprio, fissa ben oltre quello che deve essere lasciato alla autonomia sociale.
L’altro ostacolo, cui accennavamo prima, discende infatti dal ricorrere anche inconsapevole allo schema concettuale della rappresentanza, quando si vuole dare spiegazione del ruolo assunto da singoli cittadini o piccoli gruppi. Questo si vede ad es. nel modo in cui successive leggi destinate al terzo settore hanno voluto dettare condizioni e modelli statutari per la “libera” organizzazione di tali realtà, proiettando in esse modelli di rappresentatività a loro estranei. Ad es. la richiesta che le organizzazioni abbiano una certa diffusione territoriale, come condizione del sostegno, sembra tradire un interesse all’apprezzamento “quantitativo” degli attivi – che evidentemente importa alla politica quando va a caccia ai voti – ma non può essere deciso in base a tale criterio. Per capirci, in ipotesi anche la cura di malattie rare, che per fortuna non colpiscono numeri rilevanti di persone, corrisponde a un “interesse generale” se si vuole avere a cuore una qualità alta del sistema sanitario.
La dipendenza mentale dallo schema delega-rappresentanza e dal criterio quantitativo per il riconoscimento del diritto alla tutela si insinua anche, in modo più sottile, nelle argomentazioni di senso comune, quando si dice che la legittimazione a tali attività di minoranze attive discende dal loro essere rappresentative di bisogni diffusi.
Non è necessaria questa argomentazione, se appena ci si accosta a un modo più diretto e chiaro di intendere la questione. Il fatto che un gruppo anche ristretto di persone – e al limite anche il singolo, come indica l’art.138 – si impegni a realizzare una attività che risulti di vantaggio non solo per chi prende l’iniziativa di fare, ma di altri soggetti nelle medesime condizioni, è un dato di realtà, cioè un indicatore obiettivo di bisogni, cui il mercato e la pubblica amministrazione evidentemente non offrono beni o servizi adeguati. Queste persone ci mettono del proprio, tempo competenze intelligenza e talvolta denaro, senza puntare ad acquisire con questo guadagni corrispondenti a un “profitto di impresa” (cioè quello che gli economisti chiamano plusvalore). Se mai chiedono sostegno, a sponsor privati o a una politica pubblica, per la sopportazione dei costi necessari a realizzare l’impresa. Questo fare autonomo e volontario ha il significativo oggettivo di mettere in mostra una mancanza e allo stesso il modo di rispondervi attraverso la combinazione di agire privato e azione della pubblica amministrazione: e tale indicazione viene da comportamenti concreti perché le rappresentanze non corrispondono alla necessità di segnalare e magari di marcare come primari quei bisogni. È la disfunzione del sistema rappresentativo che ha spinto a questo sviluppo del sistema politico: assumere che cittadini comuni, senza vincolo o potere di rappresentanza, nel momento in cui portano al benessere collettivo un vantaggio pratico e consentono a tutti di accedervi, sono assunti come indicatore di quel che le istituzioni si devono apprestare a realizzare. Alle istituzioni infatti è ora per Costituzione imposto di accogliere e “dare seguito” (favorire) siffatti interventi.
Se si vuol chiarire sul piano del pensiero costituzionalistico a che cosa si colleghi la funzione del potere sussidiario dei cittadini, così inteso, si deve richiamare la funzione di indirizzo politico nazionale, alla cui determinazione per l’art.49 Cost. tutti i cittadini hanno diritto di concorrere. Ma cui non basta più da sola la associazione in partiti, che l’articolo richiama, per le ragioni strutturali e di sistema che abbiamo sopra richiamato.
Tutto il ragionamento che sopra si è sviluppato porta anche a capire che cosa propriamente le istituzioni debbano fare allorché intercettano casi di cittadinanza attiva di questo tipo. Serve solo che esse verifichino che nel concreto agire ci sia quel vantaggio per la generalità, che autorizza a parlare di interesse generale, e che pertanto l’accesso ai benefici di queste presenze e dei loro interventi non sia orientato in senso esclusivo, ma inclusivo (aperto alla generalità appunto), in conformità della scelta universalistica che la Costituzione propaga in tutto il suo disegno.
6. Qualche considerazione conclusiva
Se si giungesse a utilizzare anche per la legislazione ordinaria in Italia questo più semplice modo di “trattare” il problema, potremmo finalmente superare i limiti in base ai quali il terzo settore, concettualizzato nei termini della cultura dominante del non profit, finisce col consentire ambigue coperture anche di attività che nulla hanno a che fare con quello che merita tutela, e lascia poi scoperte non poche attività rilevanti, soprattutto tra quelle di advocacy. Giovanni Moro ha ampiamente mostrato questi limiti[4]. Il fatto è che tutta la elaborazione, che Moro critica, deriva da un approccio delle ricerche sociologiche statunitensi (così preminenti da aver imposto un metodo di classificazione che ormai è internazionalmente adottato). In esse si manifesta certo individualismo puritano combinato con una sottomissione spinta alle ragioni del liberismo economico.
Il fatto è che la novità, che queste presenze portano tanto nell’ordinamento sociale quanto nella preminenza della economia, reca disturbo al neoliberismo dominante. Le novità quindi sono da neutralizzare: consentirle solo in spazi estranei a quelli in cui domina il profitto, e sotto un pressante “processo alle intenzioni”, per assicurarsi che non intendono varcare quel limite. In questo senso dico modi puritani, che purtroppo sono ripresi in tutti i paesi in cui si istituisce un sistema di controlli per Albi, che dovrebbero assicurare la “purezza” dell’intento volontario. Invece in queste forme procede anche una sostanziale modificazione dell’economia, cui appunto gli attori di terzo settore sottraggono terreni di intervento. Cosicché la definizione in termini di “terzo settore” sembra voler ribadire una separazione, un limite invalicabile. Si nega così, fin dal nome, quello che il cosiddetto terzo settore fa: che è di cambiare tanto il primo settore (lo stato) che il secondo (il mercato appunto). Ciò che è indicato come terzo in realtà è un processo di mutamento non solo della distinzione stato/mercato ma anche dei rapporti storicamente determinati tra le due sfere.
Quelle presenze invece parlano di società che gradatamente si sottraggono a una logica capitalistica nel welfare, nei consumi e nel potere pubblico. Sono vettori di trasformazioni legate alla crescente preminenza di interessi collettivi e generali. Un altro tipo di società. Che evidentemente i saperi organici al sistema del capitale cercano di esorcizzare, e di trattenere in spazi residuali.
I poteri istituzionali, cui tocca di entrare in rapporto con queste realtà trasformatrici, sono investiti ora invece di una responsabilità fondamentale: essi non devono impedirne l’azione per il cambiamento, ma assecondarla nel rispetto delle regole democratiche e dei fini costituzionali. La Costituzione così non è solo il testo normativo che dà ruolo e legittimazione allo sviluppo autonomo di cittadinanza attiva, ma è la fonte dei criteri con cui misurare che i cittadini stiano realizzando interessi generali di cambiamento. Lo sviluppo storico in Italia di una legislazione di favore per le cooperative sociali, ad esempio, mostra come dall’essere esse negate in base al modello societario del Codice civile, si sia dovuto aprire una diversa strada (l. n. 381/1991 fino a d. lgs n.112/2017) conforme all’indirizzo costituzionale.
L’impatto sulla legislazione si traduce in regole all’intervento di tutte le istituzioni, quelle politiche, quelle amministrative, quelle giudiziali. A politica e amministrazione tocca il primo, necessario, riconoscimento della valenza dell’agire sociale autonomo – e cioè che si stiano realizzando interessi generali: in base a tale valutazione di fatto governi territoriali e amministrazione devono “tarare” il proprio agire, fino a risultare “di favore”. Ci sono dunque due passaggi che richiedono una valutazione di merito: quello in cui si realizza una iniziativa autonoma dei cittadini, quello in cui le istituzioni mettono in campo una politica di favore. Entrambi sono sottoponibili a accertamento giudiziario, in caso di contrasto tra cittadini e amministrazioni. E in ogni caso sarà la valutazione dei dati oggettivi, non delle intenzioni, che deciderà.
Questo progressivo trascinamento di politici e apparati sul terreno della valutazione obiettiva dei risultati del civismo e del proprio obbedire a tali indicazioni sarà il portato dunque dell’opera congiunta della magistratura e dell’attivismo dei cittadini. Una riforma della politica anzitutto come fatto culturale sarà allora dispiegata.
La decisione della Corte di assumere esplicitamente un ruolo di responsabilità in questo processo di maturazione di una democrazia allargata e partecipata è il segno che si sta ora in una fase nuova. Una fase in cui più che in passato la Costituzione è chiamata a guidare i processi collettivi. Fase nella quale il principio di sussidiarietà non è solo una formula vaga e retorica di una aspirazione negata, ma un motore del cambiamento.
[1] A. Mandorino, Società civile & Corte costituzionale: la rivoluzione di Marta Cartabia, 15 gennaio 2020, www.vita.it/it/article/2020/01/15/societa-civile--corte-costituzionale-la-rivoluzione-di-marta-cartabia/153791/.
[2] G. Zagrebelsky, Principî e voti. La Corte costituzionale e la politica, Einaudi, 2005, p. 131.
[3] Rinvio da ultimo al mio Romanzo popolare. Costituzione e cittadini nell’Italia repubblicana, Castelvecchi, 2019, p. 206 ss.
[4] G. Moro, Contro il non profit. Ovvero come una teoria riduttiva produce informazioni confuse, inganna l’opinione pubblica e favorisce comportamenti discutibili a danno di quelli da premiare, Laterza, 2014.