Sua eccellenza Rocco: il procuratore non lo dimenticava mai.
Un brav’uomo, il procuratore: ma di brav’uomini
è la base di ogni piramide d’iniquità.
(Leonardo Sciascia, Porte aperte)
1. A distanza di quasi dieci anni dalla riforma che ha cambiato l’ordinamento delle Procure, l’assetto organizzativo degli uffici requirenti, i poteri e il ruolo del dirigente, le prerogative dei sostituti sono ancora al centro del dibattito sul pubblico ministero e di un confronto che, anche nelle sedi istituzionali, continua ad assumere contenuti e accenti fortemente divisivi.
Segno dell’illusoria prospettiva di una “normalizzazione” delle Procure, che ci si attendeva dall’introduzione della gerarchia come chiaro principio regolatore degli assetti interni agli uffici del pubblico ministero.
Le scelte ordinamentali attuate con la “reductio ad unum” di poteri e di responsabilità in favore del procuratore, esonerato dai controlli anche sui provvedimenti organizzativi, e con la “verticalizzazione” impressa ai rapporti fra gli uffici di Procura e quelli “superiori” dal rafforzamento dei poteri di vigilanza, hanno invece introdotto nel sistema permanenti elementi di tensione: il principio di gerarchia deve convivere con quello di autonomia ed indipendenza dei sostituti, e con il carattere di potere diffuso che l’obbligatorietà dell’azione penale conferisce alle funzioni requirenti.
Nel nuovo contesto ordinamentale, le risoluzioni consiliari del 2007 e del 2009 hanno realizzato importanti interventi di riequilibrio: senza attuare forzature rispetto alle scelte della normativa primaria, sono state delineate modalità di esercizio delle prerogative “gerarchiche” del procuratore che le rendono compatibili con lo status di indipendenza interna dei magistrati del pm, e con il ruolo di garante di tale status che spetta al Consiglio superiore; rispetto ai poteri organizzativi, il Consiglio ha riaffermato inoltre la sua competenza a verificare la coerenza delle scelte compiute dal dirigente con i principi di ragionevole durata del processo, e di imparzialità e di buon andamento della giurisdizione.
Tuttavia, come era prevedibile, i fattori di tensione introdotti nel sistema dalla riforma si sono inizialmente sviluppati e poi espressi soprattutto nei rapporti fra dirigente e sostituto, dominando il dibattito sulle Procure, anche al Consiglio superiore.
Ne troviamo un ampio resoconto nel contributo di Fabrizio Vanorio. Attraverso l’analisi della normativa primaria e secondaria e degli interventi attuati dal Consiglio nei casi di conclamata frizione fra poteri e prerogative del dirigente e attribuzioni del sostituto, l’autore delinea il quadro di riferimento nel quale trovano attuazione e tutela l’autonomia e la dignità professionale del singolo magistrato, con l’obiettivo di «sfatareil pregiudizio della ineludibile e marcata gerarchizzazione delle Procure».
Quello dei rapporti interni alla Procura è, tuttavia, un profilo destinato a rimanere problematico. Qui si sono intenzionalmente innestate le più significative innovazioni della riforma, con il dichiarato obiettivo di responsabilizzare il dirigente rispetto ai risultati e alle modalità di esercizio dell’azione penale. Per la diretta incidenza che gli uni e le altre hanno sull’efficacia, sull’imparzialità e sulla trasparenza dell’azione penale, si richiede d’altra parte che sia effettivo ed operi concretamente il principio di responsabilità del dirigente, enfatizzato dalla riforma. Nella ricerca del punto di equilibrio fra i due poli – responsabilità del dirigente /autonomia del sostituto – vengono dunque in rilievo, accanto ai profili di tutela del singolo magistrato, le esigenze di verifica della correttezza, dell’equità e dell’efficacia delle scelte operate dall’ufficio.
La difficoltà di operare un bilanciamento fra questi aspetti dà conto delle ragioni che hanno saggiamente indotto le risoluzioni del 2007 e del 2009 a spostare il confronto dal piano “inclinato” del rapporto fra “poteri del dirigente” e “prerogative del sostituto”, in direzione del versante, meno problematico ma niente affatto secondario, delle “forme” e “modalità” di esercizio dei poteri di direzione, di intervento e di organizzazione del procuratore. Da qui l’invito al procuratore ad impartire “direttive” e prevedere “linee di azione di carattere generale”; ad esercitare in maniera trasparente i poteri relativi all’assegnazione dei procedimenti e a perseguire “un’azione trasparente ed efficiente” attraverso progetti organizzativi “discussi e partecipati”.
Si tratta, a ben vedere, di indicazioni che vanno tutte nella direzione di rendere “effettivo” il principio di responsabilità del dirigente, imprimendo all’ufficio una direzione consapevole ed unitaria. In questo senso il principio di responsabilità può agire come un fattore antagonista al rischio di un esercizio arbitrario e verticistico del ruolo direttivo. Se ancorato alla concreta verifica dell’effettività, della correttezza ed uniformità dell’azione penale, il principio di responsabilità si contrappone ad una gestione burocratica degli affari mirata all’“apparenza” di efficienza dell’ufficio, magari ben tollerata ed accettata al suo interno perché funzionale alla perequazione dei carichi di lavoro, e difficilmente censurabile nelle occasioni di verifica, come quelle della conferma quadriennale, che non dispongono di strumenti di valutazione dell’efficacia e della qualità delle scelte operate rispetto agli interessi tutelati dall’azione penale.
Uno degli aspetti sui quali questo obiettivo intende riflettere ha a che fare con la responsabilità e i doveri del pubblico ministero, verificati rispetto al concreto esercizio delle funzioni, dirigenziali e non, e alle scelte compiute nell’azione requirente: su queste si misura la “credibilità” dell’azione del pubblico ministero, la coerenza del suo intervento rispetto ai suoi fini istituzionali, e al suo essere parte della giurisdizione. E, in definitiva, su questo terreno dobbiamo oggi valutare la tenuta dei principi costituzionali di indipendenza ed autonomia del pubblico ministero.
Ci è sembrato per questo necessario ritornare a discutere di “criteri di priorità”, con i contributi a confronto di Armando Spataro e Stefano Pesci. Un tema non nuovo, al quale sarà in seguito riservata una più approfondita riflessione, che deve la sua attualità all’“insostenibile” peso assunto dall’obbligatorietà dell’azione penale, in un contesto caratterizzato dalla carenza di risorse e da una crescente e complessa domanda di giustizia.
Regole di buon governo dell’ufficio, secondo Pesci, che chiamano in causa la responsabilità del dirigente rispetto alla gestione razionale dei tempi dell’azione penale «per contrastare gli effetti perversi della casualità» ai quali assistiamo tutti i giorni nelle aule dei nostri Tribunali, dove gli stessi giudici condannano per reati bagatellari e dichiarano la prescrizione di processi per lesioni da colpa medica. Scelte di “trasparenza” perché prevedere criteri generali che “governino il tempo dei processi” rappresenta una garanzia per l’eguale trattamento di situazioni eguali e la prevenzione di scelte “opache” .
Soluzioni, secondo Spataro, che possono invece aprire un varco pericoloso per l’introduzione surrettizia di regole di “opportunità” dell’azione penale, “concettualmente” incompatibile con l’obbligatorietà dell’azione penale, e il suo valore di garanzia del principio di eguaglianza. Soluzioni, peraltro, inutilmente dannose poiché anche più recenti interventi normativi confermano la scelta del legislatore di farsi carico delle necessità di deflazione, con la “predeterminazione del sistema di tipizzazione delle priorità”.
Il tema, a ben vedere, interpella, ancora una volta, la “responsabilità” rispetto all’organizzazione dell’ufficio e alle sue prassi interne, che spesso lasciano al singolo la scelta in ordine ai tempi e ai modi dell’intervento penale, e troppo spesso, evidenzia il contributo di Luigi Marini, si traducono in disattenzione per interi settori, come quello degli infortuni sul lavoro, di primaria importanza per la vita della collettività.
2. Ci richiama ad una riflessione sulla stretta connessione che si pone fra la responsabilità organizzativa del dirigente e l’”effettività della giurisdizione” il contributo di Giovanni Salvi. Il dibattito sulle Procure, a lungo concentrato sulle problematiche relative ai rapporti interni e al potenziale conflitto fra procuratore e sostituti, ha trascurato il rilievo delle scelte organizzative e di strutturazione dell’ufficio rispetto all’efficacia e alla trasparenza della sua azione. Occorre dunque andare oltre l’originaria impostazione voluta dalla riforma del 2006, attenta ad enfatizzare i profili di gerarchia interna, riconoscendo centralità al tema della responsabilità del dirigente, che deve fare da contrappeso alla accresciuta centralizzazione dei suoi poteri direttivi e di azione. Parziale e limitata è la prospettiva che relega il principio di responsabilità al circuito “sanzionatorio” interno rappresentato dall’attività di vigilanza, disciplinare, o paradisciplinare, e all’ambito della verifica quadriennale: l’uno e l’altro colgono il solo aspetto “autoreferenziale” della responsabilità, avallandone una concezione molto restrittiva. L’autore individua nel progetto organizzativo l’effettivo parametro di valutazione dell’azione della Procura e della sua dirigenza, che fornisce un “quadro certo di riferimento” per la verifica del principio di responsabilità: attraverso il progetto organizzativo si valuta la rispondenza delle scelte organizzative compiute ai principi di buona amministrazione, al rispetto delle attribuzioni dei procuratori aggiunti, e ai criteri di attribuzione degli affari, ma anche - sul versante esterno – all’efficacia dell’intervento dell’ufficio e alla corretta amministrazione delle risorse.
In questa diversa prospettiva, la responsabilità per le scelte di azione e di organizzazione diventa responsabilità rispetto alla qualità del “servizio” che si rende alla collettività.
E si fa strada la consapevolezza che nella capacità di “rendere conto” del proprio operato trova una fonte di “legittimazione” l’azione della Procura, come il sistema giudiziario nel suo complesso.
3. Al contributo di Sergio Sottani è affidata la riflessione sui profili di “responsabilità sociale” e sull’obbligo di “rendiconto” nell’amministrazione giudiziaria.
L’acquisizione di queste nuove categorie, mutuate anche nella terminologia dalle esperienze straniere (con la nozione di accountability) ed oggetto di sperimentazione nei bilanci sociali redatti già da molti uffici giudiziari, rischia di introdurre logiche di gestione manageriale attente al mero risultato quantitativo, e sistemi di valutazione affidati al riscontro della mera produttività; l’esternazione e l’”ostentazione” dei risultati possono incentivare – soprattutto nelle Procure - forme di gestione degli uffici e degli affari attente al solo dato quantitativo e ai “risultati” di facile lettura (che – come ricorda Marini – sono spesso serviti per la “costruzione” di carriere dei dirigenti e dei singoli magistrati).
Ma l’importante cambiamento di prospettiva che l’attività di rendicontazione introduce nella gestione degli uffici, imponendo consapevolezza della ricadute che le scelte organizzative hanno sulla qualità del servizio, deve indurci ad accettare la sfida rappresentata dall’introduzione di nuovi strumenti di valutazione dell’attività giudiziaria: «la responsabilità del magistrato di rendere conto della sua attività rafforza la sua indipendenza e ne accentua la sua natura strumentale, volta al conseguimento del fine primario, rappresentato dall’imparzialità dell’azione giudiziaria».
Queste considerazioni si prestano all’introduzione del tema oggetto del contributo di Donatella Stasiosulla comunicazione giudiziaria.
Più esattamente sul “dovere” della comunicazione giudiziaria, espressione che indica inequivocabilmente la necessità per la magistratura di arrivare ad un radicale cambiamento di prospettiva rispetto a questo tema.
Al di là delle note vicende nelle quali si è percepita disinvoltura o improvvisazione nei rapporti con gli organi di informazione, la comunicazione, come osserva Marini, è stata spesso asservita alle esigenze e alla ricerca di visibilità, alimentata dal diffondersi «di una cultura dell’immagineall’interno della magistratura».
A questo fattore di distorsione si unisce l’incapacità dimostrata dalla magistratura intera, anche in recenti casi di grande rilevanza pubblica richiamati dalla Stasio, di farsi carico della “comprensibilità” delle scelte e delle decisioni, rendendo possibile quel controllo sociale che fa da contrappeso all’indipendenza e all’autonomia del potere giudiziario.
Quel che si richiede è, dunque, consapevolezza del ruolo della comunicazione come momento fondamentale del dovere di “rendiconto” alla collettività del modo in cui si amministra la giustizia e dell’importanza, per la magistratura, di assolvere questo dovere, affidando alla comunicazione la funzione di rendere il proprio operato non solo trasparente ma “credibile”. Non si tratta di inseguire il consenso ma di tentare di ridurre la distanza che si frappone fra la giustizia amministrata nelle aule di giustizia e quella “percepita”, che spesso, anche a noi “pratici del diritto”, restituisce l’immagine di una giustizia “iniqua” o “sconfitta”. Una distanza che rischia di diventare il pericoloso baratro nel quale si smarrisce il “senso di appartenenza dei cittadini alle istituzioni” e viene infine meno la credibilità della giustizia.
4. Per il pubblico ministero il “dovere di comunicazione” è espressione del dovere di trasparenza della sua azione, componente «essenziale nella democrazia moderna».
È questo uno dei principi espressi nella Carta di Roma1, approvata nel dicembre dello scorso anno dal Consiglio consultivo dei procuratori europei, che alla comunicazione del pm aveva già dedicato un importante parere2.
L’analisi della Carta sui principi europei concernenti il pm, oggetto del contributo di Antonio Cluny, dà forza alla prospettiva che si coglie nelle riflessioni di molti contributi di questo obiettivo: il rafforzamento e la difesa dei principi di indipendenza statutaria del pm, “esterna” e “interna”, passano sempre di più attraverso la “credibilità” e l’efficacia della sua azione nella giurisdizione.
Nelle norme e nei principi “europei” sul pm, elaborati e condivisi dai rappresentanti dei 47 paesi europei che siedono nel Ccpe, si ritrova il riconoscimento del valore che l’indipendenza e l’autonomia del pm assumono come “corollario indispensabile” dell’indipendenza del potere giudiziario. Un riconoscimento che, come osserva Cluny, richiede una coerente attuazione nell’organizzazione e nell’assetto interno delle Procure, ma rappresenta comunque un passaggio importante verso la creazione di uno statuto comune di indipendenza dei pm e la definizione di standard ordinamentali comuni, essenziali per la realizzazione dello spazio comune di giustizia, sicurezza e libertà.
Per il sistema italiano, le enunciazioni della Carta confermano che l’assetto forte di indipendenza attribuito all’ufficio del pm nel nostro ordinamento non può ormai considerarsi un’anomalia neppure nel panorama europeo.
Nei principi sul pm che ritroviamo nella Carta di Roma e in altri documenti ancora di fondamentale importanza, come la Raccomandazione del Comitato dei ministri n. 19 del 2000 sul ruolo del pm nel sistema penale, lo statuto di indipendenza del pm è strettamente connesso allo Stato di diritto e all’effettività della giurisdizione: «In tutti gli ordinamenti giuridici, i membri del pubblico ministero contribuiscono ad assicurare che lo Stato di diritto sia garantito, in particolare da un’amministrazione della giustizia equa, imparziale ed efficiente, in tutti i casi e gradi dei procedimenti di loro competenza»3.
Il pm voluto dalla nostra Costituzione si riconosce appieno in questa definizione e la “dimensione europea” che va assumendo lo statuto di indipendenza della magistratura requirente rappresenta un importante presidio contro i tentativi di rimetterlo in discussione.
Ma la prospettiva europea ci apre la via ad una riflessione ben più ampia sul ruolo del pm che – passando attraverso la difesa dei principi di indipendenza ed autonomia- può arrivare a coglierne tutte le implicazioni sul piano dei “doveri” e della “responsabilità”.
Le enunciazioni della Carta di Roma ci restituiscono la visione di un pm che ha piena consapevolezza del suo ruolo e della sua funzione come servizio per la collettività. Da qui il richiamo all’obbligo fondamentale di «imparzialità, obiettività ed equità», e alla «trasparenza» nella sua azione; alla necessità di assicurare il «più alto livello di competenza professionale e di integrità» quale «pre-requisito per un’attività efficace del pubblico ministero e per la fiducia del pubblico in tale attività»; all’obbligo del pm di contribuire «al raggiungimento di decisioni giuste» e al «funzionamento efficiente, rapido ed efficace del sistema giudiziario».
Sarebbe poca cosa accontentarsi del riconoscimento della validità del nostro modello di pm “indipendente”. È invece necessario raccogliere tutti gli spunti di riflessione di queste enunciazioni che ci impongono di ripensare al modo in cui concretamente il pm contribuisce all’attuazione della giurisdizione.
5. Fra tutti i temi sui quali la Carta europea sollecita la nostra riflessione, quello della “imparzialità”, oggetto del contributo di Luca Poniz, più in profondità ci interroga sul “senso” della funzione e del ruolo del pm.
Quale significato ha l’imparzialità riferita al pm? Come si risolve l’evidente contraddizione fra l’imparzialità che deve connotare l’azione del pm con la funzione di “parte” che gli assegna il sistema? Occorre partire – come osserva l’autore - dalla previsione dell’obbligatorietà dell’azione penale, «costituzionalmente affermata come elemento che concorre a garantire, da un lato, l’indipendenza del pubblico ministero nell’esercizio della propria funzione e, dall’altro, l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge penale»4. Il riconoscimento al pm di un potere/dovere strettamente collegato al principio di eguaglianza dei cittadini davanti alla legge «postula una funzione che almeno in alcune sue estrinsecazioni deve essere connotata da imparzialità». Un richiamo al dovere di imparzialità si ritrova poi nelle norme processuali, come quelle che impongono l’obbligo di indagare a discarico, smentendo la rappresentazione del pubblico ministero come antagonista e protagonista in «un’arena nella quale si vince o si perde».
L’imparzialità del pm non pone dunque un problema di coerenza interna al sistema e, per rispondere alla domanda di Poniz, non è un “ossimoro” ma un “valore”.
E, come per tutti i “valori”, ciò che rileva è il suo effettivo inveramento nelle scelte e nelle azioni: l’essere e l’agire in modo imparziale richiedono l’effettiva condivisione della cultura della giurisdizione, che va poi verificata rispetto alle prassi interne agli uffici e al modo concreto in cui il pm esercita le sue funzioni «nelle sue oscillazioni tra l’essere promotore di giustizia e pubblico accusatore».
Queste considerazioni offrono lo spunto per alcune riflessioni conclusive sul tema dell’imparzialità del pm.
Ancora una volta è importante guardare all’elaborazione in ambito sovranazionale di principi e norme sul pm, che ci offre una visione “alta” del suo ruolo: non solo organo di legalità ma organo «promotore e garante dei diritti»5.
Il richiamo alla funzione di “promozione” e di “garanzia” dei diritti ci aiuta a cogliere, meglio di ogni altra definizione, l’essenza dell’imparzialità del pm, la complessità del ruolo che gli è affidato nella giurisdizione, e la rilevanza delle scelte che compie per l’effettività della giurisdizione.
«I procuratori – ci ricorda la Carta di Roma - contribuiscono al raggiungimento di decisioni giuste da parte delle Corti e dovrebbero contribuire al funzionamento efficiente, rapido e efficace del sistema giudiziario»6; «solol a complementarità dell’azione dei giudici e dei procuratori può garantire l’equità, l’imparzialità e l’efficacia della giustizia». 7
Il pm consapevole del suo dovere di imparzialità presta dunque attenzione alle libertà e ai diritti; in questi valori riconosce i “criteri di priorità” per il suo agire e li attua, non assecondando quella gestione routinaria e indifferenziata degli affari che troppo spesso trova un alibi nelle situazioni di disfunzione e di carichi di lavoro, e che rappresenta la negazione di ogni attenzione ai diritti.
Il dovere di imparzialità ci riporta allora al punto di partenza delle nostre riflessioni: al principio di “responsabilità”, e al dovere di “rendere conto” delle scelte di organizzazione dell’ufficio e di azione nelle quali deve attuarsi e rendere riconoscibile il ruolo del pm quale organo “promotore e garante dei diritti”.
Infine, quanto siacomplesso questo compito in contesti dove spesso sembra smarrito non solo il senso della giustizia ma anche quello dello Stato, emerge dal racconto di Francesco Ponzetta sulla sua esperienza di giovane magistrato in una Procura del Sud.
L’efficacia dell’intervento della Procura si misura in questi contesti anche con la capacità di andare a fondo delle dinamiche di omertà e della “cultura mafiosa”, che si nutre dei fallimenti dello Stato e della “sua” giustizia. E, ancora una volta, con la capacità di rappresentare «un volto affidabile e credibile dello Stato, al quale il cittadino possa affidarsi per chiedere giustizia di un torto subito o rivendicare un diritto».
6. Il complesso degli interventi che proponiamo in questo obiettivo sul pubblico ministero ci restituisce dunque un panorama variegato e consente qualche considerazione ulteriore.
Una caratteristica della storia della funzione requirente nell’Italia repubblicana è rappresentata senza dubbio dal fatto che essa è rimasta finora ancorata al principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale. È una caratteristica che ha segnato la storia della magistratura in Italia e che ha reso il nostro Paese così diverso da molti altri, anche di tradizione occidentale. Mai, che si ricordi, qualcuno ha posto in dubbio la validità del principio, mentre molti, specie in tempi recenti, hanno sottolineato le difficoltà della sua pratica attuazione. Sono nati così i tentativi di adottare criteri di priorità nella trattazione dei reati con l’obiettivo di portare razionalità e metodo nel lavoro delle Procure. Non sempre questi tentativi hanno potuto evitare che taluni reati, la cui trattazione era stata “rinviata”, fossero dichiarati estinti per prescrizione. Tuttavia l’improcedibilità dei reati è cosa ontologicamente diversa dalla prescrizione e non può essere scambiata con l’arbitraria decisione di rinunziare a perseguire determinati illeciti penali. Del resto è cosa nota che le prescrizioni fioccano anche negli uffici che non hanno adottato alcun criterio di priorità.
Si ha talvolta l’impressione che il rifiuto di ogni criterio di priorità nasconda la persuasione che l’abbattimento dell’arretrato che affligge le nostre Procure sia affidato soltanto a provvedimenti che non il capo dell’ufficio giudiziario, ma altri (il legislatore, il ministro) deve adottare. Ma questa posizione si traduce inevitabilmente nella rinuncia pura e semplice all’organizzazione del proprio ufficio.
E qui emerge un’altra carenza delle nostre Procure: la difficoltà di darsi un’organizzazione che le metta in grado di rispondere tempestivamente e adeguatamente alla domanda di giustizia che viene dai cittadini. Ancora non appare sufficientemente consolidata la padronanza degli strumenti essenziali per una buona organizzazione degli uffici giudiziari; nei progetti stilati dalle Procure spesso si rileva una carenza di indicazioni dirette a svolgere delle buone indagini, o a concluderle rapidamente o, infine, ad assicurare una soddisfacente trattazione dei procedimenti di maggior spessore che più allarmano l’opinione pubblica. Progetti organizzativi, per quanto ben confezionati e diligentemente compilati, restano tuttavia del tutto inidonei a cambiare la situazione degli uffici che non funzionano e accumulano arretrato se non partono dall’analisi dei dati reali dell’ufficio e dai numeri che caratterizzano il lavoro dei magistrati e se non forniscono l’indicazione dei modi con cui si eliminerà l’arretrato o si risponderà tempestivamente alla nuova domanda di giustizia. Il fatto è che per redigere un buon progetto capace di raggiungere concreti risultati ci vuole, appunto, una consolidata capacità progettuale che ancora non appartiene pienamente alla cultura di tutti i capi degli uffici (non solo dei procuratori della Repubblica, evidentemente). Occorre allestire mezzi e coinvolgere persone in grado di fronteggiare l’emergenza e di cambiare passo. Occorre infine padroneggiare le linee essenziali di una buona organizzazione e sapere usare le leve del cambiamento e dell’innovazione.
Tutto questo, se fosse attuato, renderebbe sterile (e forse inutile) il dibattito sull’adozione o meno dei criteri di priorità nella trattazione dei reati. È evidente che una buona organizzazione dovrebbe partire da un’attenta valutazione delle condizioni dell’ufficio, dal rigoroso accertamento della capacità di definire tempestivamente i procedimenti e dalla programmazione rigorosa degli interventi che è possibile effettuare, su quali reati e con quali strumenti. Un programma di lavoro così articolato risolverebbe ogni questione relativa ai criteri di priorità, dal momento che l’indicazione della tipologia dei reati da affrontare e i tempi rigorosamente assegnati alle indagini sono condizioni necessarie dell’efficienza dell’ufficio. E invece continuiamo a discutere se sia opportuno, oppure non, adottare criteri di priorità nel lavoro delle Procure. Qualunque enunciazione di criteri è però destinata a rimanere sulla carta se non si apprestano le condizioni che rendono possibile la sollecita trattazione dei processi preferiti. Si ha un bel dire che le bancarotte o i reati contro i soggetti deboli devono avere priorità, se a questi settori non vengono assegnati magistrati con una adeguata specifica professionalità o non si predispone il necessario supporto di personale amministrativo o di polizia giudiziaria.
Per questo, dunque, il progetto di organizzazione dell’ufficio di Procura, come ci ricorda il contributo di Giovanni Salvi, è il terreno su cui misurare il principio di responsabilità che, com’è naturale, riguarda innanzitutto l’opera del capo dell’ufficio. È inevitabile, com’è stato notato, che la previsione normativa dell’impianto gerarchico della Procura abbia come effetto un’accentuata responsabilizzazione del capo. Bisogna dire che nella realtà di quest’ultimo decennio non sono mancati i casi in cui abbiamo stentato a riconoscere nella gestione delle Procure i lineamenti di questa maggiore responsabilizzazione e, a fronte di iniziative di sostituti, pesantemente ridimensionate dal giudice, talvolta nel giudizio di appello o di cassazione, si è avuta la percezione di Procure prive di un reale governo sul corretto esercizio dell’azione penale, con grave danno all’immagine e alla credibilità dell’intera magistratura. Ogni giorno verifichiamo come vada scemando la fiducia nell’imparzialità e nell’equilibrio dei magistrati. Ogni giorno tocchiamo con mano come il sentimento comune non sia più disposto ad accordare ai magistrati l’assenza di pregiudizio o il rifiuto di schierarsi per questa o quella parte, che è l’essenza della nostra indipendenza.
Gran parte di questa perdita di prestigio dipende proprio dal mancato controllo sull’esercizio dell’azione penale e dal carente governo degli uffici di Procura. In generale non si ha la sensazione che operi seriamente il principio di responsabilità.
La credibilità dell’intervento delle Procure richiede dunque un corretto ed effettivo controllo sull’esercizio dell’azione penale e un governo dell’ufficio ispirato al principio di responsabilità del suo dirigente, che deve essere riconoscibile rispetto a tutte le iniziative che l’ufficio adotta.
Effettivo deve essere il principio di responsabilità anche rispetto alle scelte che il dirigente compie nel progetto organizzativo. Ma a quale verifica sono sottoposti i progetti organizzativi? Come è noto, dopo la riforma, per i progetti della Procura non è prevista l’approvazione da parte del Csm ma solo la ‘presa d’atto’, che si traduce nella sostanziale libertà del dirigente dell’ufficio di organizzare il lavoro come meglio crede.
Qualche controllo potrebbe venire dalla previsione inserita nell’articolo 6 del d.lgs n. 106/2006, che consente al procuratore generale di verificare la correttezza e l’omogeneità dell’azione penale. L’efficacia di tale controllo è strettamente legata al fatto che esso si eserciti prima del promovimento dell’azione penale; dopo, a cose fatte, il controllo si potrebbe dispiegare solo sul piano disciplinare o sarebbe collegato all’eventuale valutazione di professionalità o alla procedura dell’eventuale riconferma del dirigente. Ma i procuratori generali stentano ad effettuare una seria verifica della correttezza dell’azione penale, un po’ perché gli strumenti da utilizzare per un controllo efficace non sono disciplinati dalla legge e un po’ perché gli isolati tentativi di qualche procuratore generale non hanno trovato adeguati riscontri nell’organo di autogoverno.
Tutto ciò rischia di tradursi nei fatti in una discrezionalità senza limiti dei procuratori della Repubblica, che si dispiega senza trovare ostacoli o controlli di sorta. Si tratta di uno squilibrio che può essere corretto solo valorizzando il concetto di responsabilità del dirigente con particolare riguardo ai contenuti del progetto organizzativo.
Nell’ambito della responsabilità del capo dell’ufficio si iscrivono altri due doveri tra loro collegati: quello di rendere conto della propria azione e quello della trasparenza e della comunicazione all’opinione pubblica. Non insisteremo sui punti sui cui si è brillantemente soffermato nel suo articolo Sergio Sottani, ma è un fatto difficilmente contestabile che ancora non sono sufficientemente diffuse le iniziative relative alle attività di rendiconto: il bilancio sociale, le relazioni annuali, l’illustrazione dell’impiego delle risorse, ecc.. Evidentemente questi aspetti della responsabilizzazione non hanno ancora trovato la convinta adesione di tutti i capi degli uffici.
Un po’ più complessa è la situazione per quanto riguarda l’obbligo della comunicazione con i vari mezzi che informano l’opinione pubblica. Molti addirittura contestano che un tale obbligo esista nel nostro ordinamento e anzi sono sinceramente persuasi che sia loro dovere non comunicare e non rispondere alle sollecitazioni dei media. Fa bene Donatella Stasio a ricordarci nel suo intervento che esiste nel nostro ordinamento un vero e proprio obbligo giuridico di motivare e spiegare all’opinione pubblica ogni atto o provvedimento giudiziario. Del resto in una democrazia non esiste nessun potere per il quale non si debba rendere conto dei modi con cui viene esercitato. La verità è che – in singolare, ma significativo, contrasto con gli atteggiamenti di protagonismo di taluni- ancora trova notevoli adesioni tra i magistrati un modello di giudice o di pubblico ministero lontano dalla società, che rifiuta ogni spiegazione pubblica del suo lavoro, che non si fa avvicinare dai giornalisti, chiuso nel suo riserbo e nell’autoreferenzialità. Questi atteggiamenti sono infallibilmente destinati a far perdurare il mito del magistrato lontano ed inaccessibile per i cittadini, che non ha niente da dire o da spiegare, se non con gli atti formali della motivazione dei provvedimenti e delle sentenze.
Forse è bene dire con chiarezza (una chiarezza che non si riscontra nemmeno negli atti che il Csm ha dedicato a questa questione) che le regole della democrazia richiedono che ogni organo dotato di qualche potere dia conto in modo trasparente delle sue azioni ai consociati. Questa regola, che non soffre eccezioni, assume aspetti di grande delicatezza quando si tratti del potere giudiziario, e di particolare rilievo per l’opinione pubblica nei casi in cui si agisce incidendo sulla libertà personale. Si tratta evidentemente di quel “rendere conto” che caratterizza in democrazia qualunque organo pubblico. Ma non sembra che su questo la magistratura abbia riflettuto abbastanza e ancora oggi molti rifiutano di farsi carico dei rapporti con i mezzi di comunicazione, senza sospettare che il diritto di informare (e, specularmente, quello di essere informati) postula che qualcuno debba dare conto dei provvedimenti che assume.
C’è dell’involontaria ironia nella condotta di quanti, rendendo giustizia “in nome del popolo italiano”, rifiutano tuttavia di mettere al corrente “il popolo” del senso delle loro decisioni.
Ma non si tratta solo di rendere ragione delle proprie decisioni giudiziarie. Manca in realtà in molti magistrati quella cultura che impone a ciascuno di creare le condizioni perché tutti i cittadini siano in grado di sentire come propria l’istituzione giudiziaria. Non è ancora diffusa la convinzione che rendere pubblico il programma dell’ufficio, rendere nota la destinazione delle risorse nell’attività di ufficio, comunicare i numeri dell’attività che l’ufficio svolge costituiscono iniziative irrinunciabili se si vogliono mettere i cittadini nelle condizioni di controllare l’attività giudiziaria e nello stesso tempo di considerarla come appartenente alla propria comunità. Non è un caso che i dirigenti più attenti abbiano preso da qualche tempo l’abitudine di redigere il “bilancio di responsabilità sociale” e di renderlo pubblico. C’è solo da sperare che queste iniziative non rimangano isolate.
1 Parere n. 9 (2014) del Ccpe all’attenzione del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa su Norme e principi europei concernenti il pubblico ministero, approvato a Roma il 17 dicembre 2014.
2 Parere del Ccpe n. 8 (2013), sui rapporti fra pm e mezzi di informazione.
3 Punto I della Carta.
4 Corte Cost. n. 84/1979; Corte Cost. n. 88/1991.
5 «Ogni pubblico ministero si riconosce in quel ruolo di organo di giustizia e promotore dei diritti umani che deve essere svolto con indipendenza e responsabilità»: così si esprime il documento conclusivo della IV riunione plenaria della Rete dei procuratori generali, svoltasi a Roma il 28 maggio 2011; al punto II della Carta di Roma si legge: «I procuratori agiscono in nome della società e nell’interesse pubblico per rispettare e proteggere i diritti dell’uomo e le libertà, così come sono previsti, in particolare, nella Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo»; gli stessi principi enuncia la Raccomandazione del Comitato dei ministri n. 19 del 2000 «Il Pm deve agire in modo equo,imparziale ed obiettivo» e «rispettare e far proteggere i diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali».
6 Punto XV della Carta.
7 Così il punto 104 della nota esplicativa (la citazione è stata tradotta dai redattori).