Breve storia (e filosofia) della giustizia riparativa
Dall’esperimento di Kitchener agli esempi della “giustizia di transizioneâ€, dalle prime prassi riparative dell’area nordamericana alle normative italiane ed europee: un percorso denso di suggestioni – letterarie, ideali, giuridiche – e, allo stesso tempo, realistico ci conduce sui sentieri della giustizia riparativa. Per rispondere a domande capitali: è possibile una risposta al reato che non sia legalizzazione della vendetta e che sostituisca allo sguardo sul fatto passato la visione delle persone future?
Se vogliamo parlare di giustizia riparativa è difficile non cominciare segnalando un articolo di Gustavo Zagrebelsky pubblicato da La Repubblica[1] qualche tempo fa. Si tratta, come spesso accade, dell’anticipazione di una sua lezione magistrale.
Dice Zagrebelsky: «diciamo anche che il crimine determina una frattura nelle relazioni sociali. In una società che prenda le distanze dall’idea del capro espiatorio, non dovrebbe il diritto mirare a riparare quella frattura? Da qualche tempo si discute di giustizia riparativa, restaurativa, riconciliativa.
Studi sono in corso, promossi anche da raccomandazioni internazionali. Si tratta di una prospettiva nuova e antichissima al tempo stesso che potrebbe modificare profondamente le coordinate con le quali concepiamo il crimine e il criminale: da fatto solitario a fatto sociale; da individuo rigettato dalla società a individuo che ne fa pur sempre parte, pur rappresentandone il lato d’un rapporto patologico. Qualcosa si muove, nella giustizia minorile, nei reati punibili a querela. Ma molto resterebbe da fare».
L’ex presidente della Corte costituzionale ci avverte che la giustizia riparativa ha una radice antichissima ed ha perfettamente ragione. A ben vedere tutta la storia della penalità è in realtà la storia di un tentativo di riparazione della offese[2].
Fin dall’antichità gli uomini hanno escogitato due forme fondamentali di riparazione di quelli che consideravano crimini: il sacrificio, qualeforma di riparazione della divinità per quei fatti che scuotevano così profondamente la vita della comunità da temere che potessero mettere in discussione la protezione della divinità, e la vendetta, qualeforma di riparazione ordinaria per quei fatti che mettevano in discussione i rapporti tra famiglie e clan in un tempo in cui l’individuo contava solo come parte di un gruppo
Vendetta e sacrificio sono state le due forme base di riparazione delle offese che vivono, in realtà, ancora oggi - sotto spoglie diverse - nella funzione punitiva dei comportamenti illeciti.
Oggi nella giustizia penale convivono almeno quattro modalità espressive della finalità riparativa della pena. La pena è chiamata a riparare la leggee l’autorità che la pone. É una modalità espressiva indefettibile. La pena è anche chiamata a riparare la collettività perché l’offesa è degna di pena quando si suppone che essa susciti allarme nella società. Questa modalità riparativa della pena si esprime, oggi, attraverso il ricorso sempre più diffuso a condotte socialmente utili, volontarie o coatte. Nell’ultimo secolo e mezzo la pena è stata soprattutto intesa – attraverso la detenzione e tutte le sue alternative – come riparazione della persona colpevole. Negli ultimi trent’anni è stata riscoperta in chiave moderna la modalità riparativa della pena a vantaggio della persona offesa, depurata – ovviamente – dell’antica radice vendicativa.
La giustizia penale riparativa – come la intendiamo oggi – è strettamente legata a quest’ultima modalità, ovvero all’esigenza di sanare l’offesa attraverso azioni utili alla vittima, sia essa una persona fisica, una collettività più o meno estesa di persone o la comunità in senso lato.
1. La genesi
In letteratura si indica nel cd esperimento di Kitchener[3] la nascita della giustizia riparativa moderna. Kitchener è una cittadina dell’Ontario ai confini tra il Canada e gli Stati Uniti dove all’inizio degli anni ‘70 due educatori,Mark Yantzi e Dean E. Peachey, proposero al giudice che aveva condannato due ragazzini, responsabili di aver danneggiato diverse abitazioni lungo la via centrale del paese, un programma di probation diverso dal solito. Ai due operatori venne in mente di sostituire il consueto modulo a base di studio, attività ricreative e qualche colloquio a sfondo psicologico con un serio programma di incontri tra i due giovani e le famiglie colpite dai danneggiamenti e un chiaro impegno risarcitorio da garantire attraverso il lavoro.
Questo metodo, identificato inizialmente con la mediazione (proprio grazie a questo esperimento nell’area anglosassone si diffuse rapidamente la sigla VOM per indicare la mediation tra victim e offender), si è propagato negli anni ‘70 in Nordamerica, in Australia e in Nuova Zelanda e, solo negli anni ‘80 in Europa, segnatamente in Francia e in Gran Bretagna.
Jacques Faget[4] ha osservato come lo sviluppo e la diffusione delle pratiche di mediazione autore-vittima si devono alla convergenza di molteplici interessi: la sensibilità degli operatori sociali alla ricerca di soluzioni alternative al tradizionale percorso giudiziario nel trattamento delle condotte irregolari; la disponibilità di alcune comunità religiose; la necessità di cambiamento e di rinnovamento delle istituzioni deputate al controllo repressivo. Non è una coincidenza che il “caso 0” veda la luce a Kitchener, una città a prevalenza confessionale mennonita, e che le prime riflessioni sistematiche sulla giustizia riparativa siano frutto dell’entusiasmo di alcuni movimenti protestanti americani (Mennoniti e Quaccheri su tutti) rapidamente trasmesso a militanti socialmente impegnati in aree svantaggiate, a magistrati e professori universitari “di sinistra” alla ricerca di risposte penali più umane. Così non è un caso che sia di origini mennonite quello che è considerato l’ideologo della giustizia riparativa, Howard J. Zehr[5].
D’altra parte queste aspettative di cambiamento nella giustizia penale – soprattutto quella minorile – non avrebbero avuto molta presa se le istituzioni penali non fossero entrate in uno stato di profonda crisi dovuta alla crescita esponenziale del contenzioso. Per quanto i sostenitori della mediazione e della giustizia riparativa abbiano sempre sostenuto che le loro proposte non avevano alcun intento deflattivo, le istituzioni le hanno prese in considerazione quasi esclusivamente per quel motivo.
Per tutta una prima fase – soprattutto nel mondo anglosassone – la giustizia riparativa si è espressa attraverso pratiche, esperimenti e iniziative locali senza il supporto di basi normative e senza investimenti istituzionali in piena adesione all’approccio empirico delle cultura, anche giuridica, dei paesi di oltreoceano.
2. Le prassi riparative
L’unica opera di sistematizzazione ha rispecchiato il metodo pratico adottato nell’analisi del fenomeno mondiale della giustizia riparativa. Si tratta di una catalogazione delle strategie dell’azione riparativa che conserva una sua attualità tanto che viene ancora utilizzata dall’ISPAC (International scientific and professional advisory council), un istituto di ricerca delle Nazioni Unite che ha sede a Milano. Grazie al lavoro fatto da questo istituto è possibile tracciare un elenco dei programmi di giustizia riparativa[6] raggruppati secondo le caratteristiche offerte dalle diverse esperienze e dalla sperimentazione rilevata. Accanto alle forme-base della mediazione diretta autore-vittima (ancorché agevolata da un terzo) e della riparazione materiale (nei suoi diversi aspetti del risarcimento e delle restituzioni) possiamo individuare una molteplicità di programmi suddivisi per categorie a seconda che privilegino lo scambio comunicativo tra le parti, il coinvolgimento della comunità o, infine, la soddisfazione materiale della persona offesa.
Tra i programmi che privilegiano lo scambio comunicativopossiamo indicare:
- apology;
- victim-offender mediation;
- victim/community impact (scambi comunicativi di piccoli gruppi di vittime e di autori);
- victim empathy groups or classes;
Programmi che coinvolgono la comunità (dai gruppi famigliari alle istituzioni locali):
- community/family group conferencing;
- community/neighbourhood/victim impact statements (una modalità che viene utilizzata soprattutto nei reati senza vittima individuata per sottolineare le conseguenze sociali del crimine);
- community restorative board (dove gruppi di cittadini incontrano l’autore del fatto per predisporre un percorso riparativo);
- community sentencing/peacemaking circles (la comunità viene coinvolta nel predisporre un programma sanzionatorio corrispondente agli interessi di tutti i soggetti coinvolti);
- community services.
Programmi finalizzati alla riparazione materiale:
- compensation program;
- financial restitution to victims.
3. Verso l’istituzionalizzazione
Alla fine degli anni’80 e all’inizio degli anni ‘90 del 900 in Europa si è però manifestata la necessità di riconoscere le esperienze di giustizia riparativa e, soprattutto, di mediazione autore-vittima attraverso testi di legge destinati principalmente alla giustizia penale minorile.
In Germania il Täter-opfer-ausgleich (Mediazione-autore-vittima) è stato introdotto nella giustizia minorile sia come “misura” sia come condizione per una diversion del procedimento penale fin dal 1990.
Nel 1991 la Norvegia aveva già una legge generale sulla mediazione che introduceva dei servizi di mediazione e riconciliazione come istituzioni permanenti nel procedimento penale.
La Spagna ha adottato le sue prime disposizioni con la legge 1992 n. 4 riservata alle competenze e al procedimento davanti all’autorità giudiziaria minorile.
Questo processo di “normazione” – di cui ho riportato solo alcuni esempi nazionali – viene consacrato con l’approvazione della Raccomandazione del Consiglio d’Europa n. R(99) 19 del Comitato dei ministri degli Stati membri concernente la mediazione in materia penale[7].
L’istituzionalizzazione delle misure di mediazione e, più in generale, riparative ha segnato un cambiamento importante: da percorso alternativo alla giurisdizione esse si sono proposte come mezzi di diversificazione dell’intervento giudiziario penale. All’inizio le idee della mediazione – non solo in campo penale – intendevano soprattutto denunciare la burocratizzazione di una istituzione ripiegata su sé stessa, più preoccupata del suo autogoverno che delle relazioni umane chiamata a regolare, rivolta a trattare i sintomi della miseria sociale, attenta al passato, pronta a stigmatizzare il colpevole e a negare le istanze delle vittime. L’ingresso degli attrezzi della giustizia riparativa nelle istituzioni penali ha consentito l’introduzione di riforme tendenti ad umanizzare e individualizzare la risposta penale con tecniche più rapide e meno costose.
La giustizia riparativa – soprattutto negli ordinamenti governati dal principio dell’esercizio discrezionale dell’azione penale – non ha, conseguentemente, avuto un effetto deflattivo per i sistemi penali: al contrario ha permesso di prendere in considerazione situazioni che, in precedenza, venivano fatte oggetto di archiviazioni da parte del pubblico ministero.
Il processo di istituzionalizzazione della giustizia riparativa si spiega anche con la necessità da parte degli “esploratori” della mediazione penale di ottenere un riconoscimento per i loro esperimenti, nati frequentemente all’esterno delle istituzioni giudiziarie. Anzi: si può dire che le difficoltà incontrate dalle iniziative sperimentali a sopravvivere hanno spinto i promotori a ricercare coperture, soprattutto economiche, da parte – di volta in volta – delle amministrazioni locali, delle istituzioni giudiziarie, delle fondazioni private. Ancora oggi permane una forte ambivalenza tra spirito di autonomia dei progetti di mediazione-riparazione e ricerca di protezione istituzionale. Non è un caso che, molto spesso, il successo dei programmi riparativi dipende dalla sensibilità dei leader istituzionali che li approvano.
4. La stabilizzazione: un panorama europeo
Già all’inizio degli anni ‘90 si delinea, nelle parole dei criminologi (non certo dei giuristi), un vero e proprio modello alternativo di giustizia penale chiamato a tener testa ai modelli concorrenti della retribuzione e della rieducazione. Il termine “giustizia riparativa” o, meglio, nell’originale inglese “restorative justice” dovrebbe essere stato coniato in occasione di un articolo scritto nel 1977 dal criminologo Albert Eglash[8]. Ma già all’inizio degli anni ‘90 circolavano degli schemi illustrativi delle differenze tra i modelli retributivo, rieducativo e riparativo che, a quanto mi risulta, vennero diffusi in Europa dal criminologo belga, Lode Walgrave e, in Italia, da Uberto Gatti[9].
La varietà e fluidità delle pratiche riparative, l’intima connessione tra norme dell’operare e fattori emotivi e sociali che propongono spiegano l’attrazione che la giustizia riparativa ha ottenuto presso i criminologi. Spiegano anche, invece, le diffidenze suscitate tra i giuristi, fatte ovviamente le debite eccezioni[10].
L’istituzionalizzazione ha avuto un deciso passo in avanti negli anni 2000 in tutta Europa mentre in Italia le esperienze piuttosto consistenti nella giustizia minorile sono state disciplinate solo da protocolli locali sullo sfondo di un ambiguo dato normativo contenuto nell’art. 28 del processo penale minorile dedicato alla cd. messa alla prova. La funzione mediativa attribuita ai giudici di pace con le loro competenze penali (Dlvo 2000 n. 274) ha avuto esiti fallimentari dovuti ad un investimento culturale pari a zero da parte delle amministrazioni competenti e dai criteri di remunerazione fondati sul sistema del cd cottimo che non sono stati certo stimolanti per orientare il loro lavoro giudiziario verso l’opera paziente di comprensione e di mediazione delle relazioni umane conflittuali.
Manca ovviamente lo spazio per un’analisi anche sintetica del panorama europeo. Mi permetto, tuttavia, di prendere in considerazione due Paesi, molto diversi tra loro per storia e cultura anche giuridica, per i notevoli investimenti fatti dai rispettivi governi proprio sul rapporto tra giustizia riparativa e carcere. Non ho mai pensato che la giustizia riparativa potesse generare di per sé delle alternative significative alla tradizionale risposta carceraria. Tuttavia la giustizia riparativa istruisce un paradigma, se vogliamo, “rovesciato” rispetto a quello della penalità classica (perché articolato nella prospettiva della vittima e non dell’autore): in questo senso l’azione combinata sui tempi (lunghezza) della detenzione, sulla prevenzione sociale con attenzione verso la vittima può portare a conseguenze estremamente positive sia sul piano della recidiva effettiva sia sul piano del contenimento della paura sociale verso il crimine.
Il Belgio
In Belgio la giustizia riparativa si è sviluppata sia attraverso pratiche diffuse di mediazione sia, in particolare, all’interno del sistema penitenziario, tanto che si parla di una vera e propria “detenzione riparativa”.
La mediazione riparativa viene applicata per i reati minori già allo stadio dell’intervento di polizia e come forma di diversion. Il pubblico ministero può archiviare il procedimento quando la mediazione ha avuto successo se per il reato non sono previste pene superiori ai due anni di reclusione.
La prima legge che ha disciplinato la mediazione penale tra gli adulti come strumento di diversion risale al 10 febbraio 1994, Loi organisant une procédure de médiation pénale.
Con la legge del 22 giugno 2005, Loi introduisant des dispositions relatives à la médiation dans le Titre préliminaire du Code de procédure pénale et dans le Code d’instruction criminelle, si indica esplicitamente la necessità che la mediazione possa essere fruibile in ogni fase del processo perché si tratta di un procedimento «parallelo e indipendente». La riforma del 2005 ha ridisegnato, se così si può dire, i rapporti tra mediazione e processo: mentre prima la mediazione era essenzialmente una misura complementare al processo, oggi – come si è detto – si presenta come un segmento autonomo.
Se sussistono i requisiti, viene incaricato un pubblico ufficiale o un assistente giudiziario che valuta innanzitutto le possibilità di riuscita dell’intervento. In caso di successo l’accordo viene preso alla presenza del magistrato incaricato del procedimento.
Gli osservatori hanno sottolineato che nel sistema belga la mediazione funziona soprattutto per i reati minori e più che avere una funzione agevolatrice della comunicazione tra le parti permette di soddisfare esigenze compensatorie o risarcitrorie che, diversamente, rimarrebbero inappagate. Ciò significa che la mediazione penale si fa apprezzare per la sua natura “educativa” in senso lato: alla fine rafforza l’immagine dell’istituzione più che rivitalizzare il dialogo tra gli interessati.
Ancora più interessante è però la cdmediazione detentiva.
Nel 1992 un gruppo di ricerca del dipartimento di diritto penale e criminologia dell’Università cattolica di Lovanio lanciò un progetto pilota per verificare l’opportunità di applicare la mediazione a delitti di notevole gravità.
Il progetto, inizialmente condiviso dall’Università, dalla locale Procura e da un Servizio assistenziale forense, venne sostenuto anche dalla città di Lovanio, dalla polizia e dal Consiglio dell’ordine degli avvocati. Grazie a questa rete di partners venne istituito il Servizio di mediazione di Lovanio.
Il successo di questa iniziativa portò il ministero della Giustizia nel 1997 a stanziare dei fondi per diffondere in tutto lo stato attività di mediazione penale anche al fine di garantire un modello uniforme per le diverse esperienze
Il programma sperimentale sviluppato tra il 1998 e il 2000 si fondava su due “assi”: un livello individuale per promuovere il senso di responsabilità verso le vittime da parte dei detenuti e un loro ruolo nella comunità; un livello strutturale per integrare la giustizia riparativa nelle dinamiche interne e nei principi di funzionamento della prigione.
Dal 2000 il Dipartimento federale della giustizia ha esteso questo programma in tutte le prigioni del Belgio e in ognuna di esse (32) è stato istituito un responsabile della giustizia riparativa. Il suo compito era quello di intercettare specifici bisogni all’interno della prigione che possono essere soddisfatti da un approccio riparativo e di introdurre una cultura del rispetto nelle dinamiche della prigione. In questo senso svolgeva una funzione utile per una migliore comprensione tra i diversi servizi e i diversi staff di operatori in modo che ciascuno di essi avesse una migliore conoscenza della mission dell’altro.
Questi responsabili della giustizia riparativa avevano inoltre il compito di osservare e provare a ripensare l’ambiente penitenziario che non è di per sé favorevole ai “principi” della giustizia riparativa: ad esempio, progettando possibili procedure per creare dietro le sbarre un contesto “sicuro e rispettoso” come se la vittima dovesse fare la sua comparsa in carcere.
Dal 2008 questi responsabili della giustizia riparativa sono stati integrati all’interno dell’organico degli istituti di pena e ad essi sono stati affidati anche compiti di gestione diversi da quelli originari. Non si tratta di una marcia indietro ma di una scommessa sulla possibilità di diffondere i principi della giustizia riparativa all’interno di tutta la struttura carceraria. Il tempo dirà se la scommessa è stata vinta anche se i più recenti commenti segnalano il rischio di una evoluzione manageriale nell’amministrazione penitenziaria belga[11].
I dati sono estremamente confortanti: nell’area fiamminga si contano all’incirca 1.000 casi per anno di mediazione in costanza di processo e da 100 a 150 casi di mediazione durante la detenzione; nell’area francese si contano oltre 1.000 casi di mediazione riparativa e circa 500 casi l’anno di mediazione durante la detenzione.[12]
La Finlandia
Dopo la seconda guerra mondiale la Finlandia aveva un tasso di 300 detenuti su 100.000 abitanti. Da allora è stata perseguita una politica penale fondata sulla riduzione delle pene (per i furti, detenzione e spaccio di stupefacenti, reati relativi alla circolazione strdale ecc…), sulla riduzione dei tempi di detenzione, sulla istituzione dei lavori di pubblica utilità, sull’aumento della liberazione condizionale e sulla sorveglianza elettronica. Si tratta ovviamente di misure banali: a differenza di quanto è avvenuto in altri paesi e nel nostro, però, queste misure sono state adottate sistematicamente e sulla base di un programma di lungo termine che permette, oggi, di raggiungere il tasso di 65 detenuti su 100.000[13] abitanti. Le riforme sono state concepite e seguite da un gruppo piuttosto ristretto di specialisti con i quali i ministri della giustizia che si sono succeduti al governo hanno mantenuto costanti contatti. Per 20 anni l’amministrazione penitenziaria è stata affidata a un criminologo e la volontà di ridurre i tassi d’incarcerazione è stata condivisa da funzionari, magistrati e autorità penitenziarie nonché, ovviamente, dai politici. É stato fatto un lavoro strategico d’informazione verso i mezzi di comunicazione per spiegare la politica riduzionistica e sono state favorite vendite in abbonamento di giornali poco inclini al sensazionalismo per fatti delinquenziali in modo da smorzare la ricerca di facile consenso da parte dei politici attraverso appelli securitari.
In questo contesto si spiega il successo che ha avuto la giustizia riparativa in Finlandia. In occasione della Conferenza internazionale tenutasi a Greifswald (Germania) il 4 e 5 maggio 2012[14], Tapio Lappi-Seppälä (per il National research institute of legal policy di Helsinky) ha offerto dei dati davvero impressionanti.
In Finlandia – dati del 2010 – ci sarebbero circa 8.000 mediazioni l’anno di cui l’82% concluse con esito positivo e, nella metà dei casi, attraverso il risarcimento del danno. La mediazione penale viene essenzialmente impiegata come strumento di diversion ed è attivata dal pubblico ministero fin dalla fase delle indagini preliminari o dalla stessa polizia che informano gli interessati della possibilità di far ricorso ad un mediatore. Sono esclusi i delitti a base violenta. In buona sostanza l’esito positivo della mediazione permette alla polizia di non procedere alla comunicazione della notizia di reato se vi è stata remissione di querela o al pubblico ministero di archiviare il procedimento per la stessa ragione. Per i reati procedibili d’ufficio al pubblico ministero si presenta l’alternativa di un’archiviazione o di una richiesta di giudizio con condanna a pena attenuata.
Europa centrale e orientale[15]
L’Europa centrale e orientale non sono state, ovviamente, interessate dall’espansione della giustizia riparativa prima degli anni ‘90, ovvero prima della caduta del muro di Berlino.
Un impulso importante alla diffusione della giustizia riparativa e, in particolare, della mediazione penale anche nei paesi dell’Est europeo è stato dato dalla Decisione quadro del Consiglio 2001/220/GAI del 15 marzo 2001 relativa alla posizione della vittima nel procedimento penale (oggi ormai sostituita dalla Direttiva europea 2012/29/UE) che prevedeva, tra i diritti riconosciuti alla vittima, anche quello di poter far ricorso alla mediazione penale. La Decisione quadro aveva fissato il termine del 31 marzo 2006 a tutti gli stati membri per adeguarsi alle indicazioni contenute in quell’atto normativo così che i paesi dell’Est europeo che sono progressivamente entrati nell’Unione hanno dovuto adottare i necessari provvedimenti per non compromettere le relazioni con gli organismi sovranazionali.
Questa Decisione quadro è stata presa a modello dagli stati dell’Europa centrale e orientale e, in particolare, di quelli che sono entrati a far parte dell’Unione europea nel 2004 e, successivamente, nel 2007 (Bulgaria e Romania). Ma anche gli stati già facenti parte dell’Unione Sovietica (come l’Ucraina o la Moldavia) che hanno dichiarato la loro integrazione politica con l’Europa si sono dimostrati sensibili ad attuarla.
Al di là della normativa europea occorre anche considerare l’importanza delle influenze dei singoli stati dell’Europa occidentale sui singoli stati dell’Europa centrale e orientale nel favorire l’introduzione di esperienze concrete di giustizia ripartiva. Ed è ovvio che queste influenze sono dipese essenzialmente dalla qualità dei legami politici e commerciali che uniscono tra di loro i diversi paesi europei. Ad esempio la Germania ha collaborato molto con la Polonia mentre Norvegia e Danimarca hanno offerto aiuto all’Albania; l’Austria ha stretto contatti soprattutto con la Slovenia con cui confina mentre l’Inghilterra ha avuto rapporti soprattutto con la Repubblica Ceca, la Romania e la Federazione russa. Infine non va trascurato lo sforzo compiuto dall’Unione europea dedicato ai progetti Grotius grazie ai quali si sono create delle vere e proprie reti (partnership) tra paesi dell’est e dell’ovest Europa.
In generale, dunque, c’è stato un tentativo generalizzato di adeguare quantomeno la legislazione agli standard contenuti nei provvedimenti dell’Unione europea. In concreto i risultati pratici sono stati estremamente diversificati, da misure puramente simboliche come in Romania o Moldavia, a misure con statistiche interessanti, come in Ungheria.
5. Le (in)compatibilita’ tra giustizia riparativa e sistemi penali
Una delle maggiori difficoltà che la giustizia riparativa incontra nella sua opera di penetrazione nei sistemi di giustizia penale riguarda proprio la classificazione delle misure riparative in base alle categorie sostanziali e procedurali del diritto penale[16].
1) Come si è visto fin dal cd Esperimento di Kitchener la mediazione e le connesse misure riparative hanno trovato la loro naturale culla nella fase esecutiva, una volta accertata la responsabilità penale dell’imputato, come modalità di probation. É uno sbocco naturale per i sistemi anglosassoni che permettono di giungere rapidamente ad una decisione esecutiva.
2) Nei sistemi di giustizia minorile (in particolare quello austriaco) le misure riparative e di mediazione facilitano una fuoriuscita precoce dal processo: la cd diversion. Possiamo dire che – in generale – sia negli ordinamenti ad azione penale obbligatoria che ad azione penale discrezionale la sede più naturale per adottare misure di tipo riparativo è proprio quella delle indagini con la prospettiva di una archiviazione per rimessione della querela o per scarso o nullo interesse pubblico all’esercizio del potere punitivo dello stato, quando l’autore abbia dimostrato fattivamente di riparare all’offesa causata attraverso il reato. Questa è stata la strada seguita, fin dall’inizio, anche in Italia nel processo penale minorile per garantire a) una immediata risposta al fatto; b) una rapida definizione del procedimento penale; c) una responsabilizzazione del minore attraverso utilità in favore della vittima. Proprio nella giustizia minorile l’esito positivo della mediazione ha permesso di definire il procedimento penale speditamente anche per i reati procedibili d’ufficio, laddove l’autore era stato in grado di eliminare o ridurre significativamente le conseguenze del reato, attraverso l’applicazione dell’istituto della irrilevanza del fatto(art. 27 processo penale minorile). E non è certo da escludere per gli adulti al medesimo scopo l’impiego dell’istituto della particolare tenuità del fatto introdotto con il Dlvo 16 marzo 2015, n. 28.
3) Non vi è dubbio che in Italia la mediazione penale e le altre misure riparative sono state utilizzate nel contesto processuale della sospensione del processo con messa alla prova dell’imputato. É chiaro che questa soluzione offre maggiori garanzie dal punto di vista difensivo rispetto alla cd diversion perché la messa alla prova presuppone sempre un controllo da parte del giudice terzo affinché non si permettano impegni riparativi quando difettano le condizioni per procedere o quando risulti l’infondatezza del fatto o l’estraneità dell’imputato. Assimilabile all’istituto della messa alla prova (almeno per quanto riguarda l’esito vantaggioso per l’imputato) è quello dell’estinzione del reato per condotte riparative previsto dalla legge sulle competenze penali del giudice di pace (art. 35 Dlvo 2000 n. 274): si tratta in realtà di un istituto lasciato a sé stesso senza alcuna promozione delle finalità riparative che si vogliono premiare con la cancellazione del reato. Con la legge 28 aprile 2014, n. 67 si sono aperte le porte alla messa alla prova dell’imputato adulto senza alcuna reale preparazione alla logica e alla filosofia della giustizia riparativa e, soprattutto, senza alcuna attenzione verso le esigenze di tutela e coinvolgimento della vittima. Ciò nondimeno si tratta di un istituto che permetterà di dare significativa applicazione ad una tipica misura comunitaria quale quella dei lavori di pubblica utilità, fino ad allora confinati nell’alveo delle sanzioni sostitutive per i reati previsti dagli artt. 186 e 187 del Codice della Strada e di qualche, piuttosto rara, applicazione in materia di stupefacenti (art. 73 comma 5° bis Dpr 1990 n. 309) e di sospensione condizionale della pena assortita da obblighi risarcitori (art. 165 cp).
4) Resta il fatto che nella misura in cui il lavoro di pubblica utilità assumerà connotati più tipicamente riparatori potremo parlare di giustizia riparativa realizzata anche attraverso le sanzioni sostitutive sopra indicate: per esprimere i caratteri tipici delle misure riparative dovrà, però, essere valorizzata la partecipazione dell’interessato alla definizione dell’attività e un opera di comprensione delle finalità compensative a favore della comunità, di una collettività più o meno ampia di persone (si pensi alle attività socialmente utili svolte presso associazioni di volontariato) o delle vittime in concreto offese dal reato.
5) In prospettiva, a mio avviso, bisognerebbe valorizzare l’istituto della sospensione condizionale della pena assortita da obblighi riparatori o risarcitori. Qui occorre però un chiarimento: finché la sospensione condizionale verrà “regalata”, finché il giudice della cognizione non farà opera di convincimento verso l’imputato per ottenerne il consenso a dare esecuzione volontaria a tali obblighi e finché i giudici di legittimità manterranno fermo l’orientamento secondo cui (si veda ancora Cass. Sez. 3, Sentenza n. 42154 del 09/07/2013 cc (dep. 14/10/2013 ) Rv. 256901) l’esecuzione immediata di quegli obblighi costituisce violazione del diritto di impugnazione, la risposta riparativa come condizione della sospensione della pena costituirà un’arma totalmente spuntata.
6) Da ultimo non va dimenticata la possibilità che la misura riparativa possa essere apprezzata come circostanza diminuente l’entità della penaai sensi dell’art. 62 n. 6 cp.
6. Un possibile consuntivo provvisorio
1 - Innanzitutto - è persino inutile dirlo – è un dato acquisito nella legge e nella pratica l’inserimento della figura del terzo mediatore nel trattamento delle offese. Ovviamente questo tentativo è stato attuato con modalità e investimenti estremamente diversificati da stato a stato. Ma, complessivamente, si può dire che la scommessa è stata accettata da tutti. É vero che in Italia il mediatore nel processo penale per adulti è ancora una rarità; è vero, però, che ormai opera da tempo nel diritto di famiglia e nel diritto penale minorile e che, recentemente, la legislazione civile e commerciale (anche in questo caso in conseguenze di stimoli normativi europei) ha dato sfogo ad una vera e propria proliferazione della professionalità del mediatore: è dunque prevedibile che nei prossimi anni questo mestiere si presenti con più frequenza a regolare i conflitti anche nel proscenio penalistico dei maggiorenni.
2 - Il coinvolgimento, a vario titolo, della comunità nella realizzazione dei programmi di giustizia riparativa e nella concreta realizzazione delle misure riparative sembra essere una caratteristica tipica nel mondo anglosassone ma che sta suscitando interesse anche nei paesi latini. A livello mondiale è davvero diffuso il ricorso al coinvolgimento comunitario (dalle famiglie degli interessati ai rappresentanti locali della società civile e delle istituzioni) ed è vasta la letteratura sull’argomento; in Europa le esperienze di questa natura sono favorite soprattutto in Gran Bretagna, molto meno nel resto del continente europeo. Almeno fino ad oggi non sono assimilabili alla riparazione “comunitaria” le misure sanzionatorie (o alternative alla sanzione) nella forma dei lavori di pubblica utilità e dei travaux d’interet général di stampo francese e svizzero: in queste misure rinveniamo una manifestazione riparativa a favore della collettività ma non un effettivo coinvolgimento attivo della comunità.
3 - L’affermarsi della giustizia riparativa è strettamente connesso all’esistenza di una strategia politica di respiro nazionale (o quanto meno di macrosistema) capace di sostenere le iniziative spontanee a livello locale. É quanto accaduto anche nei paesi dell’Est Europa negli anni più recenti: l’esempio della Polonia è significativo. Per quanto possa essere utile il puro riferimento normativo è, invece, fondamentale l’impegno culturale e finanziario delle amministrazioni centrali nel garantire la continuità e il coordinamento dei progetti locali. É, infatti, nella natura della giustizia riparativa un certo “situazionismo” che rischia di essere letale se lasciato al suo destino.
In questa prospettiva l’istituto della messa alla prova non sembra essere sostenuto da un serio impegno del governo centrale nell’amministrazione delle risorse a realizzare programmi riparativi a livello locale. La mancata previsione di un aumento degli organici presso gli Uffici di esecuzione penale esterna corrispondente all’aumento dei compiti di progettazione e controllo assegnati agli operatori dei Provveditorati per l’Amministrazione penitenziaria (al 31 dicembre 2014 erano state presentate 6784 richieste di indagine per la messa alla prova) è destinato a ripercuotersi negativamente, innanzitutto, sul piano della mortificazione professionale degli “addetti ai lavori”. Ma ne soffrirà anche la costruzione e realizzazione dei programmi di messa alla prova inevitabilmente lasciati allo spirito d’iniziativa dell’imputato e del suo difensore soprattutto nel reperimento delle disponibilità di enti e associazioni per lo svolgimento di attività di volontariato e dei lavori di pubblica utilità (modalità, natura e contenuti dei quali dovrebbero essere il cuore della messa alla prova stessa).
4 - Nella giustizia riparativa è centrale il sostegno alle vittime. Fin dagli anni ‘80 sono nati dei servizi di aiuto alle vittime dei reati in nazioni culturalmente molto diverse - come la Francia e l’Inghilterra - a dimostrazione della raggiunta maturità della prospettiva riparativa. L’INAVEM in Francia e il Victim national support in Inghilterra hanno rappresentato la necessità, sconosciuta prima, di una cura pubblica della vittima del reato. Ora esiste addirittura una rete europea sotto il nome di Victim Europe support che coordina le diverse organizzazioni che operano negli stati membri. Certamente il sostegno e l’assistenza pubblica alle vittime del reato implicano uno sforzo economico da parte dello Stato la cui realizzazione dipende anche dalla salute del suo bilancio. Basterebbe, peraltro, raffrontare i costi crescenti dell’industria del carcere con quelli necessari per la soluzioni riparative per comprendere che, in realtà, a frenare i programmi di giustizia riparativa non sono tanto le limitate disponibilità economiche quanto piuttosto una miope ricerca del consenso “elettorale” attraverso tattiche repressive e securitarie.
In Italia non esiste una politica di cura pubblica delle vittime di reato ma solo alcuni provvedimenti normativi a tutela di alcune categorie specifiche di vittime (terrorismo, usura, violenza di genere). Lo stato italiano è stato inoltre recentemente condannato per non aver previsto una disciplina per la tutela delle vittime di reati violenti.
La direttiva europea sulla vittime 2012/29/UE ci impone un salto di qualità non solo nella creazione di servizi pubblici di aiuto alle vittime ma anche per garantire le vittime dai rischi di vittimizzazione secondaria in occasione dei procedimenti penali.
5 - É vero che, in generale e anche in Italia, la riparazione penale ha meglio attecchito nella giustizia minorile piuttosto che nel sistema penale degli adulti. Questo diverso sviluppo è stato spiegato con la maggior flessibilità dello strumento penale minorile e con una maggior disponibilità culturale e psicologica (da parte di tutti: vittime, istituzioni, opinione pubblica) ad offrire al minorenne una chance riparatoria prima di infliggere una pena secca. Il panorama europeo non conferma però, in assoluto, questo dato. In questo senso l’esempio austriaco è davvero notevole: tra il 1985 e il 1991 la giustizia riparativa si è rapidamente affermata tra i minori autori di reato mentre il numero dei casi tra gli adulti era sempre pari a zero. Per contro dal 1997 al 2008 le statistiche dimostrano un’inversione completa di tendenza: nella giustizia minorile si registra un lieve calo mentre tra gli adulti la mediazione penale si è stabilizzata tra i 6 e i 7.000 casi l’anno nell’ultimo decennio. Perché? Probabilmente perché la giustizia riparativa offre una flessibilità nella risposta penale che, alla lunga, può invece rivelarsi vantaggiosa sia in termini economici sia per i benefici che può apportare nelle relazioni informali interessate dal crimine.
6 - Giustizia riparativa e detenzione. Forse questo è l’aspetto più interessante delle aperture generate dai programmi riparativi. Contro le mie diffidenze d’un tempo (dovute essenzialmente alla constatazione che il detenuto è vittima a sua volta e che il dialogo tra contrastanti sentimenti vittimistici non è agevole) devo ammettere che ci sono ottime esperienze in tutta l’Europa di mediazione penale tra vittime e detenuti nonché di attività di detenuti a favore della comunità nella prospettiva del loro reinserimento sociale. Anche in Italia ci sono stati progetti di estremo interesse realizzati grazie all’impegno di singole persone. Mi piace citare tra queste persone, Ornella Favero, coordinatrice di Ristretti Orizzonti, un’associazione che opera all’interno della Casa circondariale di Padova e a cui dobbiamo una delle esperienze più straordinarie tra i programmi di contatto e relazione tra condannati, vittime e i loro parenti.
Come si vede da questa panoramica, la giustizia riparativa – anche dopo buone promesse iniziali – stenta a decollare e a caratterizzare il sistema penale all’interno del quale viene introdotta.
Quali sono gli elementi di frizione e di contrasto che limitano la diffusione della giustizia riparativa?
Soprattutto nei Paesi di civil law le resistenze dipendono dal fatto che la mediazione è una forma di giustizia empirica dove le soluzioni dipendono da un trattamento “caso per caso” e da un elevato esercizio della discrezionalità, soprattutto nell’apprezzamento dei risultati dell’attività riparativa. Questo approccio non è facilmente digeribile per chi è abituato a una cultura giuridica opposta, fondata su principi di legislazione generale e sull’analisi minuziosa della fattispecie.
In secondo luogo la mediazione “sacrifica” il testo di legge – non la legge in sé – e lo sostituisce con la centralità delle parti e delle loro relazioni. Il ruolo della legge come ideale normativo astratto è, quindi, sospinto ai margini dalla giustizia riparativa per essere ritrovato e vissuto più profondamente nella ricostruzione delle relazioni.
La mediazione si rivolge innanzitutto alle norme e ai valori condivisi nella comunità, oltre il diritto positivo, offre poco spazio alla simbologia dell’autorità e favorisce interventi molto informali che non sono graditi alla tradizione giuridica europea.
Nella cultura giuridica di Paesi come la Francia, la Spagna o l’Italia il reato tende a creare un legame diretto tra l’autore e gli interessi dello Stato rappresentato dalle autorità pubbliche preposte alla repressione del crimine. Sono queste ultime a incarnare gli interessi delle vittime e a proporsi lo scopo di risolvere il conflitto. All’opposto la giustizia riparativa organizza un paradigma orizzontale di giustizia dove i conflitti sono riportati sotto il controllo diretto delle parti.
Una ricerca pubblicata qualche anno fa[17] ha osservato – in una indagine comparata tra Germania e Francia – come i partecipanti alla mediazione fossero molto poco consapevoli del senso della mediazione. In molti casi la mediazione, lungi dallo svelare le ricchezze di una ritrovata comunicazione tra le parti, si è rivelata un contesto ideale per opere di manipolazione in vista degli interessi di una parte sola. Anche con mediatori di ottima preparazione e formazione la mediazione si è trasformata facilmente in una pura negoziazione di interessi, quando non si è limitata a scimmiottare il processo penale ordinario.
Devo dire che, di questa ricerca, mi hanno colpito soprattutto le osservazioni sulla percezione e sulle valutazioni espresse dalle vittime sul grado di soddisfazione registrato nel percorso mediativo: è emerso come, in realtà, le vittime considerano la mediazione come una sorta di sottoprocedimento per trattare vicende di minore o secondaria importanza rispetto a quelle meritevoli di attenzione da parte della struttura giudiziaria ordinaria. Si ha così l’impressione di un sentimento non del tutto positivo quasi che il passaggio alla mediazione costituisse una certificazione del minor rilievo dell’offesa lamentata dalla vittima.
In senso esattamente opposto si colloca l’indiscutibile successo che hanno avuto le Commissioni per la verità e riconciliazione istituite in numerosi paesi per affrontare le tragedie epocali delle dittature e la delicata transizione da governi autoritari e democrazie parlamentari. Dal Sudafrica all’Argentina, dall’Uruguay al Marocco la questione dei crimini commessi – in alcuni casi persino legalmente – da funzionari e rappresentanti dello Stato quando non da apposite strutture preposte alla repressione è stata affrontata nel tentativo di privilegiare uno sguardo rivolto al futuro anziché al passato, con indagini e processi sottratti all’autorità giudiziaria a favore di organismi politici. Si parla apertamente, a questo proposito, di giustizia di transizione.[18]
La storia e i risultati della Commissione per la verità e riconciliazione in Sudafrica costituiscono una consapevole applicazione dei principi e dei criteri valutativi della giustizia riparativa[19].
7. Fare riparazione a qualcuno: dalla mancanza al riconoscimento
Il Quest’ultima esperienza ci fa comprendere come una risposta al crimine che si preoccupi innanzitutto di riparare le vittime fa leva in senso attivo su tre fondamentali dimensioni della vita umana: la dignità, la memoria e il tempo.
La dignità: riparare la vittima significa, innanzitutto, ritenerla meritevole di, degna di essere riconosciuta in quanto tale, disseppellirla dall’anonimato. Mentre la giustizia penale classica (sia nel suo modello retributivo che in quello rieducativo) non mira direttamente a restituire dignità e riconoscimento alla persona offesa (è del tutto eventuale quell’obiettivo o è tutt’al più ricondotto su un piano economico attraverso la costituzione di parte civile), per la giustizia riparativa si tratta invece di un obiettivo primario.
E poiché spetta innanzitutto al responsabile dell’offesa ripristinare la dignità della vittima è inutile dire che in quell’azione sarà lo stesso responsabile a ritrovare un riconoscimento, una dignità, una meritevolezza diversa da quella che connota la stigmatizzazione del criminale per la sua colpevolezza.
La memoria: il punto è che l’offesa penetra nella memoria.
Il rinnovarsi del dolore attraverso il ricordo dell’offesa provoca quel meccanismo spesso pericoloso del ri-sentimento al quale la riparazione cerca di porre rimedio. Il saggio più alto sul risentimento è stato scritto da Jean Amery[20]. Il problema è: come – dopo un’offesa - acquetare la memoria dolorosa senza incistare il risentimento o peggio la rimozione? La riparazione può giocare un suo ruolo attraverso la ricerca di quello che Paul Ricoeur[21] ha chiamato l’oblio attivo ovvero la capacità di lasciare alle spalle il proprio passato senza ri-sentirne le conseguenze dannose.
Il tempo: memoria e tempo sono strettamente connessi.
Possiamo riparare insieme alla memoria anche il tempo?
Hanna Arendt diceva che l’azione umana soffre di due grandi limiti: l’irrimediabilità del passato e l’imprevedibilità del futuro. Per affrontare questi limiti l’uomo ha a disposizione solo due correttivi:
- contro l’irrimediabilità delle offese di un tempo l’unico antidoto è il perdono;
- contro l’imprevedibilità del futuro l’unico antidoto è rappresentato dalla promessa.
La riparazione, a differenza della pena classica, propone un percorso impegnativo che ha potenzialmente le doti per unire la possibilità del perdono con una promessa seria di un futuro diverso.
La giustizia riparativa ci permette – a differenza degli istituti tradizionali di diritto penale e penitenziario che insistono sulla sofferenza - di gettare uno sguardo verso l’offesa proiettato nel futuro. La riparazione attraverso l’altro – in particolare con lo strumento della mediazione – non può essere ridotta negli schemi della vita materiale: riparazione di oggetti, di guasti, di danni. Riparazione non è uguale a risarcimento economico.
La riparazione propone una dimensione più profonda delle relazioni umane che, non a caso, può essere meglio colta attraverso l’approccio psicoanalitico perché, a ben vedere quando si tratta di riparare un’offesa non si tratta tanto di “riparare qualche cosa” ma di “fare riparazione a qualcuno”.
In un suo articolo Melanie Klein, una delle più grandi psicanaliste infantili, aveva elaborato alcuni elementi della sua teoria sulla “riparazione” a partire da due racconti tratti dalla letteratura: il primo è in realtà una composizione di Ravel che reinterpreta in musica un libretto di Colette, una scrittrice francese della prima metà del novecento. È la storia di un bambino che si trova nella situazione di dover fare i compiti per la scuola ma non ha voglia di farli. Vorrebbe fare altro. Klein parla di manifestazioni aggressive, sadiche, che passano a partire da un desiderio sadico nei confronti degli animali, dopo che, ad un certo punto, compare, nel suo discorso, la figura della madre. A questo punto si concretizza la madre vera e propria. Compare sulla scena la madre. Qualcosa dell’ordine simbolico che chiede «hai fatto i compiti?» e, dato che non li ha fatti, viene punito. La madre era già emersa prima sotto forma di oggetto fantastico verso il quale essere aggressivi. A fronte della punizione, il bambino si scatena: distrugge tutto quello che sta intorno a lui, se la prende con degli animaletti. Di fronte a questo scatenamento aggressivo, questi oggetti diventano aggressivi contro di lui. Questa aggressività gli si ritorce contro. C’è una sorta di battaglia. La guerra si conclude. Accade che uno di questi piccoli animali, uno scoiattolino, si ferisce. Il bambino si mette a curare questo animale ferito sussurrando la parola “mamma”. Al ché, alla parola “mamma”, tutta questa guerra immaginaria si placa e si ristabilisce una sorta di ordine segnato da una sorta di posizione altruista del bambino nei confronti dell’animaletto che si era ferito. La parola “mamma”, che prima era la parola che puniva, adesso sembra diventare una specie di parola che regolamenta, accoglie, da’ una forma a quel godimento mortifero. Abbiamo due versioni della parola mamma: una distruttiva-punitiva e l’altra curativa-riparativa. È una scena che si conclude in una spinta altruistica.
Questo racconto ci propone una domanda piuttosto scontata. Ma possiamo pensare di fare riparazione a qualcuno che abbiamo offeso senza riconoscere la nostra propria “mancanza”, cioè il fatto che non solo abbiamo “mancato” verso qualcuno ma che “manca” qualcosa in noi stessi? Fare riparazione a qualcuno non significa riempire, purchessia, un vuoto altrui o, al contrario, annullare quanto è stato fatto. Solo il riconoscimento della mancanza può permettere la messa in discussione personale che fonda il lavoro riparatorio, la possibilità di creare, per noi stessi e per gli altri, delle nuove opportunità anziché farsi sopraffare dalla coazione a ripetere. Possiamo chiedere alla pena, oggi, di rispondere a questa esigenza di “fare riparazione a qualcuno”?
O riteniamo, invece, che la pena, sotto le spoglie della sua propensione rieducativa, debba soddisfare solo il compito di legalizzare la vendetta sociale, la vendetta sacra come la definirebbe Paul Ricoeur?
Noi siamo abituati a pensare alla mancanza dalla parte dell’autore. C’è stata offesa perché qualcuno ha mancato. Si può trattare di una mancanza di rispetto verso una persona oppure verso il suo patrimonio, verso la collettività, le sue regole o addirittura verso lo Stato. La mancanza – questa è la reazione ordinaria – è considerata semplicemente come rivelazione di uno scarto tra il comportamento atteso e quello tenuto in concreto da una persona responsabile dei suoi atti. Il principio di responsabilità esige un rimprovero per la mancanza ed una pena che orienti la volontà futura del trasgressore ad adottare una condotta socialmente desiderata. Spesso la ricerca di questa “mancanza” è fatta molto frettolosamente. In ogni caso questa ricerca tende a ridurre il reato ad evento più che altro sintomatico di una mancanza spesso e volentieri analizzata dagli osservatori ma del tutto inconsapevole per l’interessato.
Il rischio – in questo tipo di approccio - è quello di togliere senso di responsabilità all’autore (è colpa della mancanza) e di privare l’offeso di una risposta effettiva, nel suo interesse.
Per queste ambivalenze può essere utile il tentativo di guardare alla mancanza non già dal punto di vista dell’offensore ma da quello di chi l’offesa l’ha subita: insomma più dal punto di vista dello scoiattolo che non del bambino.
Nella prospettiva della vittima – sia essa una persona, un gruppo, un ente o, semplicemente, una regola – la mancanza provocata dall’offesa acquista un significato completamente diverso: qui la mancanza rinvia a una perdita, a un vuoto e, spesso, a una sofferenza. Soffrirevuol dire sotto-portare, portare sotto, rendere non evidente la mancanza che, invece, esiste.
Nella prospettiva della vittima affrontare la mancanza significa innanzitutto portarla sopra, renderla evidente, riconoscerla. In questo senso il processo di definizione di responsabilità nei confronti di chi ha provocato la mancanza è fondamentale per riconoscere l’offesa, affermarla e, attraverso essa, riconoscersi come soggetto mancante.
L’attenzione che oggi cominciamo a riservare con maggiore cura all’offeso ha, tra le tante, una precisa spiegazione che riguarda proprio la difficoltà crescente – se non il rifiuto – di affrontare la sofferenza. Il tema dominante in tutte le società occidentali è diventato quello dell’insicurezza. Il suo impiego strumentale da parte dei mezzi di comunicazione e della politica dimostrano quanto la nostra società abbia paura di qualsiasi evento che, poco o tanto, possa addolorarla. Su questa paura cresce il mercato economico degli oggetti rassicuranti, dalle armi a tutti i tipi di scacciapensieri, e quello non meno appetitoso del consenso politico.
La ricerca di rassicurazione non è stata rivolta, però, ad affrancare gli offesi dai loro sentimenti di perdita. Non si è neppure cercato di costruire delle penalità capaci di orientare la sanzione verso finalità riparatorie. Si è semplicemente cercato di giustificare diversamente le pene, a tacitazione delle richieste di giustizia da parte delle vittime.
Eppure il concetto di mancanza dal punto di vista della vittima meriterebbe un approfondimento perché denso di significati soprattutto in chiave psicologica.
Anche qui noi conosciamo molto bene il sentimento di colpa per le offese che commettiamo. Certo: a volte, forse troppo spesso, cerchiamo di nascondere questo sentimento perché la vergogna, la rimozione, i nostri limiti emotivi e culturali ci impediscono di vedere la colpa.
Ma bisognerebbe imparare a riconoscere anche un altro sentimento altrettanto profondo di colpa: quello che proviamo per le offese che abbiamo subito. Questa affermazione può sembrare contraddittoria: se siamo offesi perché mai dovremmo sentirci in colpa? In realtà i nostri meccanismi psichici non sono così banali. L’offesa produce nella vittima dei sentimenti maligni – pensiamo alla vendetta per l’ingiustizia subita oppure alla semplice rabbia, al rancore e ad ogni sorta di recriminazioni verso gli altri e verso noi stessi – che trasformano il senso originario dell’ingiustizia patita.
Più trascuriamo questo rischio di confondere il senso dell’ingiustizia con le parti torbide di noi stessi, cui ci esponiamo in quanto vittime, più siamo destinati a liberare le nostre emozioni negative offendendo a nostra volta, cercando dei capri espiatori per il nostro dramma personale. A volte questo sentimento di colpa irrisolto è così forte da ritorcersi contro noi stessi. Forse non c’è gesto più imperdonabile del suicidio quando diventa un modo per uccidere l’altro in noi stessi, un modo di non amare noi stessi come “il prossimo”. É un gesto che è imperdonabile semplicemente perché le sue conseguenze non sono in alcun modo riparabili da parte di chi lo ha eseguito.
Marie Balmary, una psicanalista francese, nel suo libro Un sacrifice interdit; Freud et la Bible definisce questo lavoro dei sentimenti maligni «colpa nevrotica». Olivier Abel, in una bellissima raccolta di saggi, Le pardon, briser la dette et l’oubli, parla di «trasformazione maligna della colpa». Succede nei piccoli torti quotidiani. Succede nei grandi tornanti della storia quando popoli perseguitati si trasformano in stati persecutori. Nietzsche, nel saggio Sull’utilità e il danno della storia per la vita, parlando della forza plastica che ci permette di trasformare positivamente cose passate, di sanare ferite, di sostituire parti perdute dice che «ci sono uomini che posseggono così poco questa forza che, per un’unica esperienza, per un unico dolore, spesso soprattutto per un unico lieve torto, si dissanguano inguaribilmente».
Ecco il punto con cui voglio concludere e dal quale dovremmo partire. Come è possibile che la mancanza provocata dall’offesa possa essere riconosciuta e riparata senza rimuoverla o senza replicare l’offesa (come avviene nella vendetta), e senza neppure fingere di non provare alcuna perdita. Solo il riconoscimento, infatti, permette all’offeso di conservare il rapporto con la realtà – ancorché dolorosa – di mantenere la propria identità, sia pure a prezzo di una menomazione.
Il riconoscimento non è possibile – come ci insegna Paul Ricoeur – senza riferimento all’altro. Riconoscere è un movimento che implica la considerazione dell’altro.
Per questo penso che la giustizia riparativa, soprattutto attraverso lo strumento della mediazione, del contatto con l’altro, si presenta come un percorso di ricostruzione identitaria mediante la relazione con l’altro. In una parola la giustizia riparativa si offre come percorso pedagogico nel quale si perseguono finalità ancora più avanzate rispetto ai principi costituzionali fissati nell’art. 27. L’idea rieducativa alla base del nostro testo costituzionale presuppone, in fondo, che all’origine del fatto vi sia stata una caduta, una perdita nell’educazione del responsabile. La giustizia riparativa – come vorrebbe anche il diritto penale classico – non tende a stigmatizzare la persona quanto piuttosto il fatto: ma a differenza del diritto penale classico scommette sulle persone e sulle loro capacità positive. Senza volerlo la giustizia riparativa è, in fondo, propriamente una giustizia formativa ed educativa.
[1] Gustavo Zagrebelsky, Che cosa si può fare per abolire il carcere, La Repubblica, 23 gennaio 2015.
[2] Antoine Garapon, Frédéric Gros, Thierry Pech, Et ce sera justice, punir en démocratie, Edition Odile Jacob, Paris 2001.
[3] L’esperimento è descritto nei particolari in Dean Peachey, The Kitchner experiment, in M.Wright – B.Galaway, (a cura di), Mediation and Criminal Justice. Victims, offenders and community, Sage, London 1989.
[4] Jacques Faget, La médiation. Essai de politique pénale, Toulouse, Erès, 1997.
[5] Sono davvero innumerevoli i suoi saggi a partire dal suo Fundamental Concepts of Restorative Justice. Akron, Pennsylvania: Mennonite Central Committee. 1997.
[6] Una schematizzazione molto articolata e ai limiti della perfezione geometrica è stata fatta da P. McCold, Types and degrees of Restorative Practice, in RJF, 1999. Lo schema e un rapido commento è contenuto in Grazia Mannozzi, La giustizia senza spada, Giuffré, Milano 2003.
[7] Adottata il 15 settembre 1999.
[8] Da attente ricerche pare che Albert Eglash si sia ispirato ad un testo di Heinz Horst Schrey , The Biblical Doctrine of Justice and the Law, pubblicato in Germania e poi tradotto in inglese e pubblicato dalla Division of Studies, World Council of Churches by SCM Press nel 1955.
[9] Uberto Gatti, La vittima e la giustizia riparativa, in Marginalità e società, n. 27/1944, pp. 12-32.
[10] Quanto all’Italia penso in modo particolare a Giovanni Fiandaca, Massimo Donini, Grazia Mannozzi, Francesca Ruggeri, Claudia Mazzuccato.
[11] Karolien Mariën, Restorative justice in Belgian prisons, in European Best Practices of Restorative Justice in the Criminal Procedure, pubblicazione a cura del Ministero della giustizia e della Legge della Repubblica di Ungheria, 2010, 225.
[12] Si tratta di dati del 2008. Quanto alla mediazione riparativa durante il processo le statistiche più recenti offrono un quadro di dati in aumento. Sull’esperienza riparativa in carcere si segnala Christophe Dubois, La justice réparatrice en milieu carcéral, de l’idée aux pratiques, Presses universitaires de Louvain ARS, 2012.
[13] Contro I 215 della Repubblica Ceca, i 173 dell’Ungheria, i 181 della Turchia e i 111 dell’Italia.
[14] Si veda il report che è stato fatto da Roberto Flor e Elena Mattevi in Diritto penale contemporaneo http://www.penalecontemporaneo.it/upload/1341154601giustizia%20riparativa.pdf.
[15] Le informazioni su questa parte sono state ricavate dal lavoro “Restorative Justice in Eastern Europe” di Toran Hansen Research Associate, January 2006, per il Center for Restorative Justice & Peacemaking nonché dalla tesi di laurea presentata da Vira Zemlyanska alla University of Sussex Sussex Law School Graduate Centre for Legal Studies con il titolo “The Development of Restorative Justice in Central and Eastern Europe”, 2005.
[16] Di queste problematiche si è fatta carico, da epoca risalente, Grazia Mannozzi, Collocazione sistematica e potenzialità deflattive della mediazione penale, in De Francesco-Venafro, Meritevolezza di pena e logiche deflattive, Giappichelli, Torino 2002, pp. 117-140.
[17] Stefanie Tränkle, In the shadow of penal law: Victim offender mediation in Germany and France, Punishment & Society, 2007, 9, 395-415.
[18] Gabriele Fornasari, Giustizia di transizione e diritto penale, Giappichelli, Torino 2013.
[19] Marcello Flores, Verità senza vendetta, L’esperienza della Commissione Sudafricana per la Verità e la Riconciliazione, Manifestolibri, Roma 1999, ha pubblicato uno dei primi “commenti” all’esperienza straordinaria dei lavori della Commissione presieduta da Desmond Tutu. É comunque consigliabile la lettura diretta del Rapporto Finale della Commissione. Per una versione più accessibile all’esperienza si legga di Desmond Tutu, Non c’è futuro senza perdono, Feltrinelli, Milano 2001.
[20] Jean Amery, Intellettuale a Auschwitz, Bollati Boringhieri, Torino 2008.
[21] Paul Ricoeur, Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato, Il Mulino, Bologna 2004.