Il carcere reale. Ripreso dall'interno
Il carcere in presa diretta, raccontato da chi ci vive dentro, da un “fine pena mai†che continua ad attraversare corridoi, sezioni, celle. Scorrono, dunque, le immagini di una staedycam che non si limita a registrare l’ambiente, ma ne racconta gli effetti sul vissuto di anima e corpo. Tra ansie, frustrazioni, processi di vittimizzazione e una promessa mai completamente attuata: quella costituzionale, secondo la quale nessun uomo è perso.
1. Un “aggettivo” tra le sbarre
Dirvi il nome? Al suo posto preferisco quello che orami può considerarsi un “aggettivo”: sono un detenuto; uno di quelli, come si dice, di lunga pena. Lo dico per specificare il contesto della dissertazione.
Dei miei 48 anni – appena poco più che ventenne venni arrestato per la prima volta (febbraio 1988) – ne ho passati in prigione oltre 26, rimanendo in libertà per soli diciotto mesi. Adesso, mi trovo ininterrottamente detenuto da circa 23 anni.
Della legge penitenziaria, dunque, posso raccontarvi tanto, perché vissuta personalmente in restrizione, a partire dagli anni in cui la Legge Gozzini (varata nel 1986) dava un nuovo senso alla pena e nuova vita alle promesse della riforma del ‘75, sino ad arrivare alle “leggi d’emergenza” varate tra il 1991 e il 1992, introdotte a seguito dell’escalation del fenomeno mafioso e,più in generale, della criminalità organizzata.
In quegli anni vennero varate le norme sul divieto di fruire dei benefici penitenziari (4-bis e 58-ter o.p.) per coloro che venivano condannati per reati riconducibili alla criminalità organizzata. Venne inserito, nell’art. 41-bis o.p., il comma 2°, ossia il famigerato “carcere duro”. Furono gli anni della riapertura di due storici penitenziari insulari, ossia Pianosa e Asinara. E, sempre in quegli anni e poi in quelli successivi, il Dap, in applicazione dell’art. 14 della legge del 1975, e delle norme regolamentari, si orientò per la differenziazione dei circuiti carcerari, istituendo con delle circolari due livelli carcerari, il primo cd di Media sicurezza (Ms) e il secondo cd. di Alta sicurezza (As), regolati e riformati successivamente negli anni.
Ho vissuto sulla mia pelle questi cambiamenti normativi che hanno inciso in modo grave sulla mia vita.
Oggi si fa un gran parlare di carceri, di sovraffollamento, delle conseguenze che ne derivano e che sono legate ad esso: la questione igienico-sanitaria, la coabitazione angusta oltre che coatta; poi, ancora, la lentezza della giustizia nel porre rimedio, le espressioni di malessere e disagio nelle varie forme.
Ma la popolazione, specie quella sedicente esperta, almeno nella stragrande maggioranza, non sa realmente nulla di “questo mondo”. Un conto è conoscere i dati – freddi, descrittivi, distaccati – e un altro è vivere le implicazioni, calde, umane, sofferte. Quelle che io vivo ogni giorno. Ma, infondo, direste, «cosa vuoi…, te la sei andata a cercare….!». Ed ecco pronta una delle solite insipide risposte che spesso vengono date in modo sbrigativo e superficiale.
L’intento di questo mio scritto è di offrire, a quanti non conoscono il metalivello di questa cultura reale e diversa da quella del “mondo di fuori”, alcuni spunti di riflessione, delle chiavi di lettura per comprendere con più cognizione, sentore emotivo e verosimiglianza, il contesto detentivo e così riuscire a capire, o quantomeno tentare di farlo, gli scenari che si realizzano e si manifestano al nostro mondo interno.
E voglio far capire i devastanti effetti psicofisici che procura la pena dopo qualche decennio di carcere. Non potete nemmeno immaginare lo smarrimento e la paura che ho provato durante alcuni permessi speciali che ho fruito da uomo libero, dopo aver espiato vent’anni di carcere. Oggi, infatti, non sconto più la mia pena ma la subisco e basta, con delle gravose conseguenze psicofisiche.
2. Esistere in carcere
Ecco, iniziamo da qui. Desidero concentrarmi infatti sul mal di esistere in carcere, sulle forme di quel disagio, che io sento e manifesto troppo spesso. Desidero farvi comprendere cosa c’è dietro e oltre le sbarre, il più delle volte generato da fattori che nella società libera passerebbero in secondo piano o verrebbero tralasciati, giudicati come futili.
Già in letteratura viene rilevato che il primo fattore di rischio è l’incarcerazione. Come a dire che il solo fatto di averci messo piede, in galera, già implica il rischio potenziale che la persona detenuta manifesti disagio adattivo e psicofisico. E, aggiungo io, per sempre.
Che dire poi degli altri fattori di rischio oggettivi, ovvero quelli che in qualche modo possono rinvenirsi sulla carta (il nostro fascicolo); dati anagrafici, giovane età, tipologia di imputazione, visibilità sociale personale o mediatica della vicenda, condizioni di salute accertate (stato di tossicodipendenza, disturbo mentale, ritardo mentale, malattia cronica che richiede assistenza costante, disturbo/malattia che richiede riabilitazione fisica, invalidità civile...), prima carcerazione ma anche precedenti ingressi con franchi episodi disadattivi (continui cambi cella, episodi reattivi sia in senso auto lesivo che etero aggressivo, quindi nutrito curriculum di rapporti disciplinari), mancanza di riferimenti e risorse esterne (povertà sociale, lunga disoccupazione/inoccupazione), mancanza di valido supporto dalla rete affettiva familiare e sociale (separazioni, espulsioni dal contesto abitativo in virtù del disagio personale e della perdurante condotta di violazione delle regole della convivenza intra familiare e della collettività), eventuali lesioni riportate in occasione dell’arresto, solo per citarne alcuni. Ma potrei continuare… .
E ancora vanno aggiunti gli aspetti soggettivi, ovvero le manifestazioni afferenti al linguaggio, al pensiero, all’umore, alla postura, al tipo di interazione e collaborazione che il detenuto manifesta ed esprime durante il colloquio coi diversi operatori con cui entra in contatto. Ma sono fattori soggettivi anche tutte le manifestazioni espresse durante la carcerazione, come risposta personale e individuale, alle sollecitazioni che arrivano dal contesto carcere e da quello che ruota attorno: tribunali e famiglia in primo luogo. Questo significa, e non bisogna certo scomodare la letteratura, che a fronte di fattori analoghi le reazioni delle persone possono essere completamente diverse e all’apparenza ingiustificabili. Già, all’apparenza!
Il carcere infatti è come il Paese delle meraviglie, dove i legami, i rapporti, le parole, i sentimenti, il tempo, lo spazio, il giudizio, la terapia... hanno espressioni e significati che valgono solo qui, che restano sconosciuti, inimmaginabili al mondo esterno. Dico il mondo esterno, perché il carcere è un pianeta a sé, è un altro mondo, dentro e fuori dal mondo reale, un accozzaglia di incoerenze e incongruità.
3. Un campo minato
Molto spesso ho la sensazione di muovermi all’interno di un contesto assolutamente imprevedibile, vario, multiforme, multilingue, sfaccettato per modalità di rapporto tra noi e il personale. Ecco, ho come l’impressione di muovermi in un campo minato: a volte so dove sono nascoste le mine e riesco a disinnescarle; altre volte restano abilmente celate o dissimulate, oppure si disattivano da sé per effetto dei processi di evoluzione personologica comunque in corso, compresa l’assunzione costruttiva della responsabilità, il riavvicinamento affettivo; altre volte ancora, pur riuscendo ad individuarle, i mezzi per ridurle all’impotenza, per disattivarle non sono in mio possesso… ed ecco l’imprevedibile… atti autolesionisti, se non il peggio... il suicidio.
Insomma è un cortocircuito che quando scatta fa perdere vite umane che potrebbero essere salvate e recuperate alla speranza, alla collettività civile, mentre i contendenti (attori del sistema carcere, giustizia, società civile) “perdono tempo”, citandosi addosso.
Un cortocircuito che si avvita nelle giornate uguali a se stesse. Il giorno sopravvivo e patisco il caos carcere. Di notte soffro invece i silenzi. Il silenzio in carcere è un silenzio assordante che ti colpisce dritto al cuore. Non è un silenzio normale, ma diverso, animato, nel senso che prende vita. Il silenzio mi fa sentire le angosce, i sospiri, le vocimute di coloro i quali sono già stati in queste mura, che magari ho conosciuto, ma che oggi non sono più vivi.
Il contesto carcere è tanto più vario, movimentato, caotico e disordinato (anche sotto il profilo dell’attenzione alle relazioni interpersonali) quanto più è affollato. Qui infatti il tempo è rapido e lento, e non sembri una contraddizione. Le procedure si susseguono incalzanti, ma il progetto futuro è in sospeso, da riscrivere, perché il soggetto detenuto non conosce ancora quanto tempo non sarà in grado di gestire in piena autonomia e autodeterminazione.
Nel tempo sospeso, non progettato, incerto, ogni comunicazione, parola, giudizio può pesare come un macigno, assumere contorni inaspettati, ingiustificati altrove, ma perfettamente prevedibili qui. Così, un familiare che comunica al congiunto detenuto che si assenterà per ferie scatena vissuti di abbandono talmente forti da desiderare la morte per cessare di soffrire; un colloquio saltato per uno qualsiasi dei validissimi motivi possibili è interpretato come disinteresse o prova di un pericolo occorso al congiunto; un operatore che scredita e offende le radici culturali può mortificare nel profondo e far crescere una rabbia generalizzata, un pregiudizio figlio del pregiudizio ricevuto; un giudice che rifiuta di acquisire delle prove può convincere che la giustizia non è equa e rinforzare il vissuto vittimistico, che sfocia nella scelta di immolarsi in quanto vittima sacrificale del sistema; un avvocato che “caldeggia vivamente” il patteggiamento prima ancora di ascoltare la versione dei fatti del suo assistito persuade che la verità non esiste e non interessa a chi deve ricercarla e ricostruirla con la maggiore imparzialità possibile; un cancellino[1] che sottrae poveri effetti personali (prima fra tutte le sigarette, la biancheria intima, le foto dei familiari) scatena una rabbia cieca, o una remissività ancora più pericolosa qui. Una minaccia strumentale, sottovalutata e ridicolizzata, può trasformarsi in una tragica realtà.
Potremmo continuare con esempi di vita quotidiana che fuori avrebbero un altro respiro, un’altra opportunità di essere gestiti, perfino quella di soprassedere saggiamente. Qui dentro no, tutto è amplificato perché rimbalza all’interno di strette mura, tra stretti legami, tra rapporti che non si controllano, tempi che sfuggono, futuro sospeso, protagonismo passivo; qui le energie non si rinnovano, le persone non si ricaricano, non trovano occasioni, se non sporadiche, di rimotivarsi alla speranza, di riscattarsi.
In un tale contesto, lo ripeto, le parole, i fatti, i rapporti interpersonali assumono un significato che è difficile da definire esattamente, da interpretare verosimilmente anche da noi detenuti. Anche quando ci riusciamo – perché i segnali premonitori ci sono, sono stati numerosi e registrati –, avanzando anche proposte per meglio gestirli per scongiurare il peggio, ci scontriamo con un fuori che non ci ascolta, che decide di soprassedere.
Manca la collaborazione franca, la mutua conoscenza, essenziale per costruire la fiducia reciproca, per realizzare la sinergia tra le risorse, per condividere in modo equo la responsabilità delle vite assegnate dal sistema a parti di se stesso (carcere e giustizia). Manca la convinzione, realistica e prettamente umana, che è impossibile scongiurare il rischio anche suicidario e non accettare (almeno qualcuno) che di fronte al libero arbitrio l’illusione di onnipotenza e controllo si possa infrangere.
A volte il “sistema” si mostra sordo e cieco e poco importa se il disordine mentale del soggetto detenuto – unito alla rabbia crescente per l’insoddisfazione delle “necessità primarie” (telefonata, colloqui, lavoro, sigarette, terapie), per la frustrazione dei bisogni del momento (uscire dalla cella e dal proprio isolamento per allontanarsi da un contesto di ulteriori limitazioni che si aggiungono alle privazioni del carcere) e per una convivenza forzata con altri sfortunati – lo esaspererà fino a fargli perdere il controllo.
La galera è un universo di ripetizione, di riproduzione. Un posto dell’attesa e della pazienza simulata, del fare, disfare e rifare; del tempo sospeso. La galera è un teatro, e come nel teatro si invecchia persino in un modo truccato. Le difficoltà quotidiane della sopravvivenza dietro le sbarre, dentro “questo ballo fermo del tempo”, sono inimmaginabili. Il tempo qui non ha un senso, è un tempo insensato le cui regole disciplinano la staticità delle persone. Infatti, le giornate in carcere sono tutte uguali, ritmiche, gestuali (alzarsi la mattina dal letto, fare ginnastica, pulire, scrivere, mettersi a letto la sera e... il giorno seguente... torni a fare le stesse cose... identico al primo... per giorni, mesi, anni, decenni), vissute solo per difenderci dal senso del nulla, dal senso del vuoto, dalle ansie, dalle paure, dall’assenza di risposte. Corpi e menti che si ammalano velocemente, quando invece hanno bisogno di essere curati, ascoltati, considerati, valorizzati.
Cerchiamo di tenerci in vita e di non perdere l’identità di persone umane, in un luogo che di umano ha ben poco e sopravviviamo pensando agli affetti, ai nostri cari. Ci manteniamo dentro questa strada, l’unica che tiene in vita, perché fuori da essa c’è solo “l’anormalità” della pena, quella anormalità che tende a togliere e mai a dare.
Il carcere, inteso come solo luogo di restrizione, non «corregge» il reo ma lo abbruttisce, lo peggiora, lo annienta e tali amputazioni di vite non sono dovute solo a questioni strutturali, come qualcuno cerca di giustificare. La problematica è molto più complessa.
Il nostro sistema penitenziario migliorerà solo quando le istituzioni – una volta e per sempre – considereranno il detenuto una persona umana e non un mero fascicolo che va archiviato, ovvero un reato che cammina; migliorerà, insomma, solo quando il sistema capirà che, nonostante la privazione della libertà, i detenuti conservano, comunque, intangibili e inalienabili diritti civili.
Quando una pena non la si sconta più ma la si subisce soltanto, tutto il tempo che eccede è una lesione del diritto alla dignità e alla salute.
Per tanto tempo, troppo tempo, sono stato sottoposto ad un regime i cui “motivi di sicurezza” – è bene dirlo ai più e ricordarlo ai sedicenti addetti ai lavori – mi hanno privato anche delle cose più semplici. Non potevo tenere oggetti come l’accendino, che dovevo chiedere al poliziotto carcerario ogni volta che dovevo accendere il fornellino e, dopo l’uso, dovevo subito riconsegnarlo insieme allo stesso fornellino; non potevo tenere i prodotti per l’igiene personale, ma dovevo chiederli al momento dell’uso e subito restituirli, non potevo tenere qualunque oggetto, dalle matite colorate alla radiolina, dalle cinture alle stringhe, che potevano essere utilizzate come armi improprie, non potevo preparare tè o caffè perché non si potevano tenere pentolini, caffettiere e bombolette. E potrei continuare.
4. Numeri assurdi. La questione dell’ergastolo ostativo
Ora vorrei parlarvi del “Fine Pena MAI”. Così è riportato su alcuni dei miei atti giudiziari. In altri, invece, trovo curioso come “qualcuno”, forse per pietosa concessione, ha voluto porre un termine al mio “fine pena” scrivendo al fianco della mia condanna una precisa data: “Fine della pena” al 31/12/9999. Numeri che oltrepassano l’assurdità sino a rasentare la beffa. Di recente, invece, a quei numeri ho dato un senso quando ho ascoltato le parole di Papa Francesco. Nel suo lungimirante discorso ha definito l’ergastolo una pena di morte nascosta. Ecco, vi parlo di ergastolo. Di quello ostativo, intendo. Una pena di morte nascosta, della quale pochi comprendono il senso. Una legge, a mio avviso fuori dalla Costituzione, perché ricattatoria e di cinquecentesca memoria, che rimette la libertà di una persona alla condizione che... ne metta un’altra al suo posto. Nel senso che per ottenere i benefici di legge (misure alternative o premiali) o il detenuto collabora con la giustizia – e poco importa se uno abbia già espiato 20 o 30 anni di carcere e, nel frattempo, sia divenuto una persona emendata – oppure deve trovarsi nella impossibilità o inesigibilità di dare un utile apporto collaborativo, sempreché tutti i fatti e le responsabilità siano stati accertati giudizialmente. Se non sono stati accertati... pazienza! Moriranno in prigione. Come morirà quell’innocente – e gli errori giudiziari in Italia non mancano – perché non può nemmeno collaborare pur volendolo. Ma intanto può scrivere il suo necrologio.
Ecco, una legge, la nostra, quella per noi ostativi diversa da quelle vigenti per gli ergastolani normali, una legge fatta per noi che di normale, invece, non abbiamo nulla, siamo gli “ostativi”, i peggiori, quelli da nascondere, da ignorare per sempre, eternamente colpevoli. Eccoci qui, in queste sezioni, né vivi, né morti, relegati ad un limbo senza tempo e senza dignità e da cui spesso è impossibile uscire.
Ma c’è il non previsto, elemento nascosto in qualsiasi macchina sociale, anche la più perfetta – e c’è da sottolineare che la nostra perfetta non è – che emerge e si fa strada nel momento in cui, pur sospeso tra vita e morte, il detenuto decide di ritrovare la sua connotazione umana. Come ho fatto io, come hanno fatto altri come me. Ecco, io ho deciso di vivere comunque, con lo sguardo alzato, rendendomi degno di far capolino da questa falla della struttura giudiziaria che è “l’ergastolo ostativo” e dimostrare a me stesso e agli altri che sono un uomo adeguato alla mia natura umana, trasformato, migliorato, non più l’uomo del reato, bensì un portatore di cambiamento, di esempio, capace di adattarmi e di credere come persona migliorata anche nelle peggiori condizioni.
Oggi, dopo tanti anni trascorsi in queste mura, se mi guardate negli occhi vedrete sicuramente che quella pena si sta abbattendo su di un altro uomo, contro un Marcello che è cambiato, s’è sviluppato, ha coscienza del male fatto, tanto da non dimenticare nemmeno per un istante il dolore che ha potuto arrecare ai familiari delle vittime delle sue sconsiderate azioni di un tempo. Oggi, di certo, rimane solo il fatto che non c’entro più nulla con il crimine che commisi. E il perdono che ho ricevuto da tante persone mi fa molto più male della condanna inflitta, perché non mi ha ancora permesso di trovare una giustificazione al male compiuto. Con la società esterna, oggi, sono pronto a ricucire quel patto che un tempo ho violato e vorrei che «queste mie esplicite scuse» rivolte a tutto il consorzio sociale venissero intese come reale segno della mia sincera contrizione.
Oggi, di certo, sconto la mia pena con sofferenza e dignità, non subisco il fallimento, non mi faccio spersonalizzare, annientare, annullare dalla restrizione del carcere e dalle catene mentali che lo animano, riuscendo a vincere ogni asservimento che impone il crimine sulla persona detenuta con le sue sub-regole carcerarie facenti parte di uno squallido codice non scritto, arcaico e vassallatico. Sono ritenuto un ergastolano, è vero, ma – aggiungo io – facente parte però della migliore riuscita dell’Amministrazione penitenziaria. Perciò oggi cerco riscatto ed emenda, sperando di riparare al male commesso.
Il paradosso del nostro diritto penale, dal quale derivano i mille mali e le mille afflizioni del sistema carcerario, è che l’ergastolo, in specie quello ostativo, non soddisfa nessuna sete di giustizia, ma solo quella della vendetta, tesa ad oscurare, a nascondere, ad annientare. E qui comincia l’orrore. Perché l’incarcerazione perpetua amputa vite, sfascia le menti, degrada gli animi. Purtroppo, non viviamo in un Paese che prova a risolvere i problemi delle sue prigioni. Persino solo presumerlo è utopistico. L’orrore implicito può essere che tutti ormai viviamo dentro i tessuti gonfi di un corpo politico permeato di cattiva coscienza, così cattiva che la risata di una iena riecheggia da ogni televisore, con il rischio di diventare il nostro vero inno nazionale. Per questo nel nostro Paese tutti parlano di migliorare le prigioni ma nessuno concretizza davvero questo cambiamento.
Dopo tutti questi anni, conosco la prigione come il traghettatore conosce il passaggio per l’Ade. Ma il mondo, lo conosco solo attraverso i libri, dato che in quel libero mondo ci ho vissuto solo per poco tempo. Intervenire sull’ergastolo ostativo, quindi, non significa cancellare la responsabilità di una colpa accertata, ma semplicemente permettere alla speranza di poter continuare a fiorire anche su un binario morto della nostra umanità. Oscurare per sempre la parola speranza dal mio cuore è un po’ come costringere un bambino a imparare un mestiere e, poi, lasciarlo chiuso dentro l’angustia della sua camera. Vivrà, crescerà fino a sentirsi quasi bene, ma un giorno sospetterà di essere... un morto che cammina.
5. Entrare in carcere. Per cambiarlo
Piaccia o non piaccia, dunque, se si vuole conoscere più a fondo e dal di dentro il carcere e i suoi problemi, nel carcere bisogna entrare. Non intendo farsi arrestare, cosa avevate capito, intendo visitare le strutture carcerarie e capire la vita “chiusa” dall’interno.
Il carcere non è più una fortezza, né all’opposto una più o meno confortevole e temporanea dimora, ma qualcosa di più, specialmente per coloro che vi sono ristretti e per il personale, civile e poliziotti penitenziari, che ci lavorano con non poche criticità.
Nel nostro e negli altri Paesi europei, il passaggio del sistema sanzionatorio dalle pene corporali alla pena del carcere si è realizzato nella seconda metà del ‘700, sulla spinta dell’Illuminismo. Da allora la condizione carceraria italiana è decisamente cambiata, dapprima con l’entrata in vigore della Costituzione il 1° gennaio del 1948 e poi del nuovo Ordinamento penitenziario approvato con la Legge del 26 luglio 1975 n. 354, proprio alla legge fondamentale essa ispirato.
Quest’anno, la Legge penitenziaria compirà i suoi primi quarant’anni. Un’età matura che il nostro ordinamento carcerario però non dimostra, perché le sue norme furono scritte da persone lungimiranti che riuscirono a vedere molto lontano. Per questo la nostra legge carceraria è ancora oggi giovanile, al passo coi tempi.
Il 30 giugno del 2000 è stato varato il «nuovo regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà». Esso, approvato a 24 anni dal precedente (1976), ha inteso disciplinare nel dettaglio la quotidianità detentiva con l’intento di elevare le condizioni di vita dei detenuti e rendere effettivi diritti altrimenti enunciati solo sulla carta. Tuttavia, continuano le difficoltà e le criticità.
Per ottenere un’inversione di tendenza bisognerebbe ricorrere ad un maggiore utilizzo delle pene alternative. E per farvi fronte bisognerà ampliare la giustizia riparativa, potenziare la magistratura di sorveglianza, incrementare i rapporti con gli Enti locali e le Regioni. Bisognerà, insomma, applicare fino in fondo quella legge del 1975.
I problemi sono presenti e devono essere affrontati in un settore dove la legislazione primaria è tuttora incompleta, dove l’Amministrazione penitenziaria è lasciata in genere sola nel suo isolamento tradizionale, dove il carcere e le istituzioni carcerarie si devono arrangiare da sole, badando di disturbare il meno possibile i sonni di chi sta fuori, di chi gode della libertà e non ha né tempo né voglia di pensare anche per gli altri, che tale libertà non hanno, poiché – evidentemente – non la meritano.
Insomma si deve restaurare la dignità dello stare in carcere e la necessità di leggere la detenzione alla luce dei principi e dei diritti costituzionali; ripartendo dalle condizioni materiali di chi vive all’interno del carcere, per provvedere ad un vero cambiamento.
Su una cosa vorrei soffermarmi, in quest’ottica di cambiamento. Bisogna introdurre nel nostro ordinamento un “diritto all’affettività”, concesso in diverse carceri europee. Non è un’eresia ma una questione di dignità. Un modo per recuperare alla società delle persone integre, anche negli affetti. È un tema che le nostre istituzioni dovrebbero affrontare con più attenzione per prevenire in molti casi il disfacimento di tante coppie e di tante famiglie. Provate ad immedesimarvi nel congiunto di una persona detenuta e privarvi per 5, 10, 20, 30 anni, di quell’affettività che è un pilastro portante che sorregge l’amore. A poco a poco la fiamma dell’amore diventerà un lumicino che, al primo piccolo problema che soffierà, si spegnerà, con le tragiche conseguenze che ne derivano. Sono soprattutto i figli a subire forti traumi a livello psicologico. Poi il genitore detenuto, il quale avendo le mani legate non può risanare la situazione. Con il passare dei giorni si perde anche quel poco di tranquillità che è rimasta, si diventa irascibili, per sfogo si arriva all’autolesionismo, all’aggressività verso tutti, spesso al suicidio.
Ecco perché è importante, anche, poter espiare la pena in un carcere vicino ai propri affetti. Uno stato civile non può assolutamente accettare il mantenere in vita questa problematica. Sono molti i detenuti ai quali è capitato di trovarsi impacchettati o, per meglio dire per chi non conosce il termine, trasferiti lontano dal luogo di residenza 1000 o addirittura 1500 km. Chilometri che, tradotti in viaggio di andata e ritorno, diventano il doppio, ma questo soltanto per chi ha possibilità economiche e riesce a raggiungere il carcere per fare colloquio. Ci sono, invece, i “poveracci e le poveracce”, detenuti che non vedono i propri cari da anni. Ciò provoca inevitabilmente stati d’animo ansiosi e stressanti. Appare assai difficile riuscire a capire perché si voglia far pagare anche ai familiari una pena, la quale non può che apparire ingiusta e priva di qualsiasi rispetto del senso di umanità.
Non resta, quindi, che augurarci una concreta svolta, un cambiamento reale teso al miglioramento dei valori della persona ristretta e corrispondente ai dettami costituzionali.
[*]Marcello Dell’Anna è nato il 4 luglio 1967 a Nardò (Lecce). Sconta una condanna all’ergastolo nel carcere di Badu e Carros, a Nuoro; è sposato ed ha un figlio di 27 anni. È un detenuto con il tarlo dello studio e della scrittura. Nel corso degli anni di detenzione, infatti, gli sono stati conferiti diversi encomi. Ha conseguito diplomi di scuola superiore e nel 2012 si è laureato in giurisprudenza col massimo dei voti.
[1] Termine con cui in carcere si definisce il compagno di cella.