Magistratura democratica

Riflessioni su una banale e strisciante controriforma

di Pietro Buffa

Il tradimento dello spirito della Riforma del ’75 e della sua promessa di inveramento dei principi costituzionali è sotto gli occhi di tutti, testimoniato da un carcere in grado di meritarsi una condanna per trattamento inumano e degradante. Lo iato tra lettera della legge e realtà è il portato, tra l’altro, di una terribile normalità: visione semplificante dei problemi, pendolarismo delle politiche criminali, scarsa lungimiranza, ritardi organizzativi, logiche burocratiche, separatezza delle amministrazioni. Se ne può uscire ridando fiato e orizzonte a quella promessa.

1. Un punto di partenza e un metodo per riflettere

Mi giro e mi rigiro tra le mani l’invito a dare un contributo riflessivo a quarant’anni dalla promulgazione della Riforma penitenziaria del ’75. Non è un compito semplice, tanti sono gli aspetti e le implicazioni che potrebbero essere sviluppati. Ed è complesso anche per la scelta del taglio da dare. Essere critici può essere un bene a patto che si trovi il giusto equilibrio ma il rischio è comunque quello di lasciarsi andare e puntare il dito su un gruppo, una categoria, i tempi che stiamo correndo, l’ideologia di turno o chissà che cosa d’altro.

Se si vuole essere critici allora occorre sobbarcarsi l’onere di farlo in un modo che offra spunti di utilità, piuttosto che di rivendicazione, rancore, nostalgia o di pessimismo.

È sulla base di queste considerazioni che, alla fine, ho deciso di trattare la questione.

Il punto di partenza della riflessione non possono che essere le sentenze di condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo per le condizioni inumane e degradanti con le quali ha gestito la carcerazione di migliaia di detenuti negli ultimi anni.

Non può che essere questo il punto di partenza in considerazione che all’articolo 1 dell’Ordinamento riformato è ribadito esattamente quanto previsto dalla Costituzione, ovvero che la pena e il trattamento che la sostanzia devono essere conformi ad umanità e assicurare la dignità della persona.

Di fronte a questa macroscopica discrasia tra il dire e il fare lo stordimento di un lettore sufficientemente attento è notevole.

Com’è stato possibile che la portata di una riforma di quel genere si sia via via affievolita sino ad essere svilita da questi risultati?

L’Ordinamento penitenziario è ancora lì e, seppur modificato in via emergenziale più volte, non ha derogato al suo spirito essenziale.

Si potrà obiettare che per una parte dei detenuti l’accesso delle misure alternative è ostacolato dalle ostatività previste dall’articolo 41bis ma, anche in questo caso, tutta la parte relativa al regime detentivo e al senso di umanità che lo deve ispirare non è intaccato neppure dalla più rigida riforma che è stata effettuata in questi anni.

Certo c’è la questione delle previsioni dell’articolo 41bis ma riguardano un numero ristretto di persone e, in ogni modo, le condanne della Cedu hanno riguardato la detenzione comune e non quei regimi.

Ma allora che cosa ci ha portato così lontano?

Devo dire che tra le tante suggestioni desunte dalle letture personali, la banalità del male evocata da Hanna Arendt[1] è una di quella che più mi aiutano nel lavoro quotidiano. Alla Arendt va il merito di aver colto che l’essenza della macchina dello sterminio non stava nella malignità di qualcuno ma nella normalità dei più, nel loro senso di accettazione acritico e a volte addirittura entusiastico delle cose.

Questa è la stessa sensazione che spesso mi sorprende di fronte alla evidente frattura tra quello che si dovrebbe fare e ciò che in realtà si fa concretamente. È esattamente su questo, ovvero la banalizzazione della realtà e della conduzione delle cose, che intendo svolgere il compito assegnatomi.

2. La politica e le sue scelte sulla pena

Eppure la gestione della pena, in particolare quella detentiva, non è un fatto banale. Riprova ne è che, come ha affermato Foucault, la storia dell’istituzione penitenziaria coincide con la storia della sua riforma tanto è un’istituzione che incarna una funzione difficile e contradditoria.

Alla Riforma del ’75 sono seguite una serie di parziali, inorganiche e striscianti riforme in ragione non tanto della volontà di generare un modo diverso di punire quanto per rispondere all’urgenza del momento o del prevalere di un moto ideologico rispetto ad un altro. A questo proposito c’è da osservare che troppo spesso le argomentazioni e i pensieri legati alla questione carceraria sono stati, e sono tuttora, sin troppo banalizzati, anche in ambiti che dovrebbero essere meno approssimativi e più rigorosi nelle analisi e nelle proposte. Non è un caso se Mauro Palma ha ritenuto di richiamare tutti al rispetto di una rigorosa igiene linguistica nell’affrontare gli aspetti che qui prendiamo in esame[2]. Purtroppo è da riconoscere che, nell’eterno pendolarismo della politica criminale italiana, spesso quelle visioni semplificanti delle cose e dei problemi costituiscono l’ossatura delle interpretazioni e delle soluzioni. In questo modo si ingenerano striscianti derive. Innanzitutto si sacrifica l’organicità di un ordinamento ma si conferiscono anche messaggi contraddittori, soluzioni irrazionali e iati organizzativi di non poco conto.

Credo non si rifletta molto sul fatto che il termine ordinamento ha in radice quello di ordine, e rimanda ad un assetto fondato da un criterio razionale o pratico, funzionale o estetico che prevede una successione di una serie di elementi secondo un determinato criterio[3].

Nel nostro caso il criterio coincide, o meglio dovrebbe coincidere, con il senso che vogliamo dare alla pena ovvero, sino a prova contraria, quello dato dalla Costituzione.

Ecco perché non ci si dovrebbe muovere per riforme inorganiche alla luce dell’emergenza di turno.

Fiumi d’inchiostro sono stati spesi per sottolineare gli effetti terribili che hanno avuto, in termini di sovraffollamento e promiscuità, alcune scelte di politica criminale relative all’immigrazione clandestina o alla criminalizzazione di alcuni aspetti della materia sugli stupefacenti o l’aggravamento punitivo della condizione di recidivanza del condannato.

Non si tratta di giudicare queste posizioni ragionevoli o meno, questo fa parte dell’orientamento politico della maggioranza parlamentare. Si tratta piuttosto di considerare che qualunque orientamento si voglia adottare è necessario prevederne gli effetti che determinerà giuridicamente e sulle strutture che dovranno reggere quelle stesse decisioni.

Badate bene questo non riguarda solo la tendenza alla carcerazione ma anche l’opposto. Considerate, per esempio, l’effetto di sovraccarico lavorativo che ha avuto sulle strutture penitenziarie e giudiziarie la previsione di un rimedio risarcitorio per compensare gli effetti di una carcerazione inumana e degradante, oppure l’impatto di un deflazionamento repentino del carcere senza previsioni strutturate di accompagnamento e accoglienza esterna degli scarcerati.

Più in generale, se gli effetti delle politiche criminali e penitenziarie non sono adeguatamente previsti possono portare irrimediabilmente all’erosione dei diritti e della dignità delle persone interessate. Questo è valso nel caso del progressivo sovraffollamento a risorse invariate o, peggio, addirittura ridotte ma anche per le incertezze interpretative delle norme in materia risarcitoria per una detenzione inumana e degradante.

La politica ha influenzato l’evoluzione concreta dell’ordinamento penitenziario non solo con le sue decisioni ma anche con i suoi silenzi. Non sono stati sufficienti Papi e Presidenti della Repubblica per convincere il Parlamento ad adottare decisioni dirimenti per far fronte ad un sovraffollamento gravissimo grazie al quale non solo la rieducazione o il trattamento sono stati calpestati ma addirittura la dignità di chi in carcere vive e lavora.

Solo la minaccia delle sanzioni europee ha infine smosso, non tanto per il morso delle coscienze quanto per il calcolo dei costi, una decisione. La distinzione non è di poco conto e testimonia molto bene l’aria che tira. A tal proposito cito spesso Elisabetta Grande che, molto efficacemente, ha distinto la genuinità degli interventi deflattivi evidenziando quelli spiccatamente umanitari, che fa rientrare nella sfera dell’humanitarianism, e quelli necessitati da logiche economiche che, sfruttando una felice assonanza linguistica anglofona, fa rientrare nella sfera dell’humonetarianism[4].

3. La politica e le sue scelte organizzative

Altre decisioni politiche, pur non riguardando direttamente l’Ordinamento penitenziario, hanno prodotto indirettamente degli effetti rispetto alla sua applicabilità intersecandolo da un punto di vista organizzativo.

Già perché la pena, evento giuridico, diventa ad un certo punto questione concreta ed organizzativa e anche su questo piano si gioca la tenuta dei principi ordinamentali e prima ancora costituzionali.

Il primo esempio che vale la pena riportare riguarda il gravissimo ritardo con il quale si è modificata la macchina organizzativa deputata a dare corpo alla Riforma. Ci sono voluti ben quindici anni per riformare l’Amministrazione penitenziaria in un senso più consono al nuovo corso. Per tutto quel tempo il sistema è rimasto quello del periodo precedente, fondato su una organizzazione militare, fortemente gerarchizzata, formata ad un compito di mera custodia e repressione rispetto ad una utenza considerata a priori pericolosa e da neutralizzare per il tempo necessario stabilito da una sentenza.

Anche quando, finalmente, si è messo mano alla necessaria modernizzazione dell’Amministrazione questa non è stata esclusivamente mirata a tradurre in strumenti organizzativi i bisogni del modello penitenziario del ’75. Nelle nuove forme si sono banalmente incistati altri bisogni al punto che il nuovo sistema organizzativo ha generato in se questioni, prassi e modalità, se non ostativi alla realizzazione del disegno riformatore, quantomeno poco orientati in tal senso. Non mi riferisco solo a quanto sapientemente evidenziato in De Vito relativamente al processo di burocratizzazione  che ne è conseguito[5], quanto a questioni più sottili ed insidiose.

Al momento di modificare quella struttura, infatti, non si è avuto sufficiente coraggio per imprimere una decisiva trasformazione anche se il dibattito teorico che lo aveva preceduto, a cavallo tra gli anni ’80 e ’90, aveva ben tratteggiato la necessità di considerare, ad esempio,  la smilitarizzazione del Corpo degli agenti di custodia come una semplice premessa metodologica che ancora non diceva nulla intorno i contenuti politici che si voleva imprimere con quella riforma rispetto al nuovo corso penitenziario[6]. A quella premessa non sono seguite scelte radicali preferendo piuttosto mediare la smilitarizzazione del Corpo degli agenti di custodia con la creazione di uno specifico corpo di polizia, non meditando troppo sugli effetti che questo avrebbe determinato. È sufficiente considerare la deriva “poliziesca” che questa scelta ha determinato nel tempo. Già pochi anni dopo la riforma del ’90 si capì che le speranze che questa aveva indotto lasciavano spazio al rafforzamento degli atteggiamenti corporativi del Corpo[7] .

Non solo le modalità e la cultura professionale, al di là delle singole posizioni, non possono non essere influenzate da questa matrice ma è tutta da considerare la più volte richiesta, per certi versi legittima proprio considerata la suddetta scelta iniziale, di creare una Direzione generale di polizia a sé all’interno del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria o, più decisamente, di confluire nel ministero degli Interni. Di questi tempi, caratterizzati da esigenze pressanti di revisione della spesa pubblica, proposte di accorpamento di questo genere potrebbero essere prese in considerazione.

D’altra parte all’orizzonte si profila una sempre più ricorrente questione che ha a che fare con una delle tante anomalie italiane, ovvero la coesistenza di ben cinque Corpi di polizia, ai quali devono aggiungersi tutte le polizie locali, municipali, provinciali, ecc. ecc., con compiti e funzioni che spesso si intersecano e si intralciano.

Il Governo è più volte tornato sull’argomento non nascondendo affatto l’intenzione di risolvere la questione con accorpamenti consistenti. In tal senso la Polizia penitenziaria potrebbe essere destinata a confluire nella polizia di Stato[8].

Che effetto avrebbe questo? Difficile dirlo perché poco o nulla si sa nel dettaglio ma credo che questo ci allontanerebbe dagli ideali del carcere riformato.

Nel contempo sono anni, per l’esattezza quasi diciotto, che non si bandiscono concorsi per assumere direttori d’istituto penitenziario. Certamente il blocco delle assunzioni nel pubblico impiego e la progressiva riduzione del personale, in particolare in questo ultimo periodo in ragione della necessità di limitare la spesa e il debito pubblico, non lascia scampo a questa tendenza. Cosa analoga, o quasi, può essere detta per tutte le altre categorie professionali che compongono l’Amministrazione penitenziaria. Gli effetti di tutto questo sono importanti. È da considerarsi che la cultura di una Amministrazione, esattamente come tutte le culture, è frutto di una evoluzione che non può sopportare una soluzione di continuità tra le varie generazioni e necessita di una trasmissione tra chi ha preceduto e che seguirà. Se così non è si creano veri e propri buchi di conoscenza e di pensiero che possono riverberarsi sull’evoluzione delle modalità di lavoro.

È sempre interessante leggere i testi di Autori che hanno affrontato e descritto i primi anni della riforma[9]. Si colgono le questioni e i rovelli che si dovettero affrontare ma si scoprono anche i presupposti di orientamenti e modalità che molti di noi si sono trovati ad applicare decenni dopo. Senza la conoscenza storica di quell’evoluzione è difficile applicare norme e prassi e il rischio è quello di procedere attraversi automatismi spesso acritici. L’onnipresente «si è fatto sempre così» sta lì a testimoniare dell’inconsapevolezza di certe prassi e, allo stesso tempo, della percezione di consuetudini immodificabili. Paradossalmente quelle letture ci consegnano una storia nell’ambito della quale gli operatori dell’epoca hanno affrontato difficoltà e contraddizioni ben maggiori e di varia natura. Eppure loro sono riusciti a modificare sostanzialmente quel carcere, consegnandoci il testimone di una riforma oggi largamente inapplicata.

Ora se vengono a mancare intere generazioni di figure professionali si corre il concreto rischio di incrementare questo iato di conoscenza e di prospettiva impoverendo il pensiero e la capacità di cercare e dare senso all’agire quotidiano rispetto al mandato istituzionale.

Tra l’altro il blocco del ricambio generazionale implica un ulteriore effetto, oserei dire di plastica sclerotizzazione, legata alla limitata mobilità del personale che, nel caso dei livelli dirigenziali, implica un altrettanta limitata veicolazione delle buone prassi e dell’innovazione.

Come se non bastasse, nel frattempo, si ipotizza la possibilità che più istituti possano vedere la potestà di uno solo direttore, oppure che questa figura possa  essere sostituita da altre, in particolare dai funzionari di polizia penitenziaria. Permettetemi di dire che non può essere la stessa cosa. Chi ha scritto la Riforma del ’75 ha architettonicamente disegnato un sistema di pesi e contrappesi e il direttore fu pensato quale punto di equilibrio tra istanze diverse. Si potrà obiettare che il mondo evolve e che anche le dinamiche penitenziarie e gli attori che le animano sono cambiati anch’essi. Non vi è dubbio, ma il mio sommesso avviso è che nelle istituzioni che esercitano una potestà nei confronti di un cittadino, tanto più se privato della libertà personale, la questione dell’equilibrio e delle garanzie continua ad essere fondamentale. D’altra parte se questa fosse una posizione di minoranza non si spiegherebbe la forte spinta alla creazione di figure di garanzia nuove e la  grande attenzione delle Corti di giustizia, in particolare quelle internazionali. Se ci sono, come ci sono, problemi di spesa la soluzione non può essere la modifica di un organigramma previsto da norme  fondate sulla sapienza carceraria. Piuttosto è meglio ridurre gli istituti sancendo l’antieconomicità delle strutture con una capienza al di sotto di una certa soglia o in ragione di una collocazione geografica costosa dal punto di vista della logistica necessaria. Se la vogliamo dire tutta l’attuale riduzione dei detenuti, così come dopo l’indulto, non ha ridotto il costo pro-capite di un detenuto, anzi, esso è aumentato perché questo si calcola dividendo il bilancio annuo dell’Amministrazione penitenziaria per il numero dei detenuti presenti. L’83% del bilancio è assorbito dai costi fissi del personale e da quelli necessari per il funzionamento delle strutture e dei mezzi[10]. Ciò significa che i tagli resi indifferibili dalla situazione generale dovrebbero tener conto di questo semplice fatto e prendere in seria considerazione la necessità di una razionalizzazione e progressiva riduzione delle sedi per poter accorpare quel personale oggi più che carente, mal distribuito. Come ho già detto questo contributo non vuole denigrare nessuna delle posizioni in campo riconoscendo che ognuna di esse è fondata da logiche e ragioni degne di rispetto ed attenzione ma, allo stesso modo, tali posizioni dovrebbero sempre tener conto dei motivi originari e profondi che hanno portato alle architetture giuridiche ed organizzative volute dalla Riforma del ’75. Procedere in modo disordinato senza ortodossa attenzione a quel Testo può determinare conseguenze tali da snaturare il senso di quelle norme.

4. Amministrazioni frammentate ed autoreferenziali

Che questo sia già avvenuto da tempo lo testimonia anche il fatto che la macchina organizzativa penitenziaria è sempre più assorbita da se stessa. Tanto significano le parole di un ex Direttore generale del personale che ha avuto modo di affermare che le vicende contrattuali ed amministrative del personale sovrastano gli interessi e le aspettative sociali legate all’ordinamento penitenziario[11]. De Vito ha storicamente registrato il fatto che con l’andar del tempo l’insieme dell’organizzazione penitenziaria si è evoluta in una frammentazione sempre maggiore caratterizzata  dalla presenza di corporazioni sempre più potenti[12].

In un altro contributo ho avuto modo di dire che oggi il tema in agenda non è più, o perlomeno non è più in via prioritaria, la contrapposizione particolarmente sentita sino agli anni ’90 tra un modello custodiale e uno trattamentale, bensì la richiesta, costante e trasversale, di tutte le categorie professionali di rendere compatibili i diritti e le aspettative del personale con le esigenze dei detenuti e, in genere, questa seconda parte ne esce perdente[13]. Per la verità è da sottolineare che questo fenomeno traslativo non è caratteristica esclusiva dell’Amministrazione penitenziaria ma credo si ritrovi in tutte le organizzazioni di servizio e anche in quelle collaterali al carcere, non meno importanti rispetto all’effettività dei precetti del ’75. Pensiamo ai tempi e alla prassi del comparto sanitario o di quello giudiziario, tanto per citare quelli più connessi con quello penitenziario.

La già citata scelta di convertire il Corpo degli agenti di custodia in una nuova forza di Polizia e l’evoluzione contrattuale tipica di quel Comparto ha segnato una situazione di differenziazione rispetto a tutti gli altri operatori penitenziari con riguardo al trattamento giuridico ed economico. Per altro verso la sindacalizzazione del Corpo ha assunto le dimensioni di una variabile che influenza l’agire amministrativo e, di riflesso, l’applicazione stessa delle norme dell’Ordinamento penitenziario.

Anche grazie a questa situazione nel quotidiano si assiste ad un dualismo all’interno dell’Amministrazione nell’ambito della quale il Corpo tende a distinguersi nel modo che abbiamo già detto. Tale atteggiamento affonda le sue radici nella poca avvedutezza dimostrata subito dopo il ‘75. Non a caso a metà degli anni ’80 Fassone parla esplicitamente di rivendicazioni di quel personale che “si muovono in un’ottica di separatismo eguale ed opposta a quella adottata dalla riforma penitenziaria”[14].

Nel tempo alla luce di quelle differenze, si è assistito ad un vero e proprio effetto trascinamento. Negli ultimi anni praticamente tutte le categorie professionali hanno ipotizzato e chiesto di poter confluire nel Corpo della polizia penitenziaria assumendo le funzioni di ruoli tecnici. Il motivo è banale e umanamente comprensibile. In un momento storico quale quello che attraversiamo, l’opportunità di potersi agganciare ad uno dei pochi settori che ancora riesce a garantirsi alcune guarentigie contrattuali risponde ad una logica razionale dal punto di vista dei singoli e delle organizzazioni che li rappresentano. Sino ad oggi questo non è successo ma tutto questo ben descrive quali sono le spinte che attraversano l’Amministrazione e che in caso di accoglimento, a mio modesto modo di vedere, ci porterebbero molto lontani dalla possibilità di concretizzare i principi riformatori del ‘75.

All’effetto trascinamento se ne aggiunge un secondo che potremmo definire effetto centrifugo. L’idea che il Corpo di polizia penitenziaria possa lasciare l’Amministrazione altro non è infatti che una delle spinte centrifughe che in questi anni hanno interessato il penitenziario.

Il caso più concreto ha riguardato l’uscita del settore sanitario che è stato assorbito dal Sistema sanitario nazionale che, a questo punto, si occupa direttamente della salute all’interno degli istituti di pena.

Anche qui ci sono stati motivi ed argomentazioni di spessore che hanno supportato tale decisione. Tralasciando alcune posizioni estremistiche che hanno molto insistito su una visione di subordinazione della vecchia medicina penitenziaria all’Amministrazione, altri, come ad esempio Gonella, hanno interpretato la riforma di questo settore come una opportunità di cambiamento complessivo del sistema penitenziario attraverso la riparametrazione di alcuni standard di vita interna. L’Autore, infatti, ha affermato che la salute, intesa secondo la definizione del’OMS non come semplice assenza di malattia ma come stato di benessere, è la chiave per umanizzare il carcere[15] e personalmente aderisco a questa visione.

Tuttavia, a distanza di anni, il passaggio da un Sistema all’altro non pare aver determinato il miglioramento che veniva paventato dai sostenitori di quella riforma[16]. Si sono viceversa determinate condizioni di maggiore difficoltà organizzativa dovute alla necessità di trovare formule di coordinamento che prima erano proprie di un’unica amministrazione mentre oggi le amministrazioni sono due e i linguaggi e i metodi si sono differenziati. Tra queste diversità si incista un variegato spettro di incomprensioni, rigidità e contrapposizioni che non aiutano a garantire sempre ed efficacemente i principi contenuti nell’ordinamento in materia di salute.

Questo esempio porta ad introdurre alcune considerazioni su quanto sta per avvenire con il decreto organizzativo del Ministero della giustizia che prevede l’uscita dall’Amministrazione penitenziaria della Direzione generale dell’esecuzione penale esterna e delle sue funzioni destinate ad accorparsi con quelle del Dipartimento della giustizia minorile.

Questa decisione cancella quell’organicità prevista dall’Ordinamento penitenziario tra gli istituti penitenziari e i servizi sociali deputati all’esecuzione penale esterna. Vero è che negli anni questa organicità ha troppo spesso stentato e che il desiderio di affrancarsi da un predominio carcerocentrico è molto sentito; vero è che l’esecuzione penale esterna ha assunto dimensioni ragguardevoli e che, quindi, è opportuno fare delle riflessioni su questo andamento; vero è che l’introduzione dell’istituto della messa alla prova anche nel settore adulti apre uno scenario nuovo, ma è altrettanto vero che in questo modo, con buona probabilità così come è già avvenuto per la sanità, sarà più difficile il dialogo tra il carcere e l’esecuzione penale esterna. Domani saranno due amministrazioni diverse a doversi coordinare con linguaggi, logiche e metodi giocoforza diversi tra loro, senza più quel legame che, non a caso, era stato previsto dal Legislatore del ’75. Un legame pensato in onore di una visione che qualificava la pena come un percorso che dal carcere metteva alla prova il condannato su un progetto proiettato all’esterno.

Ora, anche alla luce di questa scelta, il rischio è che dal carcere potrebbe essere più difficile uscire in misura alternativa. Non si tratta di una posizione pessimistica ma di una ipotetica proiezione che tiene conto anche della trasformazione della struttura della popolazione detenuta nel frattempo intervenuta. Oggi, dopo i vari interventi deflattivi posti in essere negli ultimi due anni, chi entra in carcere ha caratteristiche penali e personali mediamente più gravi di prima e questo non aiuta ad accedere alle misure alternative alla detenzione.

5. Applicare o riformare? Un italico dilemma

Al di là di quest’ultima valutazione gli esempi delle modifiche organizzative che hanno caratterizzato questi ultimi anni sono paradigmatici di come si tende a procedere in Italia. In generale credo sia difficile smentire l’esistenza di grandi riforme parzialmente applicate e poi dimenticate con l’oblio del tempo. In Italia troppe volte piuttosto che impegnarsi fino in fondo per dare compimento alle riforme si preferisce continuare a riformare quanto ancora non fino in fondo applicato Se una struttura incontra o denota delle difficoltà nell’espletamento dei suoi compiti sino ad affievolirli, invece di chiedersene i motivi e ovviarvi, si preferisce creare un’altra struttura o modificare il proprio compito o un mix di entrambe le cose.

L’istituzione dei Garanti dei diritti dei detenuti è un’altra di queste vicende. Tali figure sono state introdotte sulla base del triplo presupposto che l’Italia non fosse dotata di una figura terza di garanzia, che la magistratura di sorveglianza, indicata viceversa come tale dalla legge del ’75, non riuscisse effettivamente a svolgere questo compito e, nel contempo, sul dubbio che essendo coinvolta nelle vicende penitenziarie potesse effettivamente considerarsi terzo[17].

In genere la genericità del loro mandato lascia ampio spazio all’interpretazione del ruolo. Si va così da situazioni di supporto alle direzioni nella ricerca di risorse e di relazioni istituzionali, utili per far fronte alle molte carenze che caratterizzano il contesto carcerario, a situazioni di aspra censura rispetto a queste stesse carenze, sino a spingersi verso posizioni di critica radicale rispetto alle logiche organizzative penitenziarie.

Quest’ultimo modo di procedere rinforza la logica della contrapposizione piuttosto che quella della ricerca del miglioramento. È la logica del tutti contro tutti che genera arroccamenti assolutamente inutili e controproducenti, ben lontani dallo spirito di partecipazione sociale voluto dall’Ordinamento nella conduzione della pena concreta.

Ora mi chiedo, se si è rilevata una distanza della magistratura di sorveglianza in termini di carenze organiche e di modalità di approccio, non era meglio ovviarvi con nuove assunzioni, con processi formativi e direttive cogenti?

Tra l’altro non aver fino in fondo percorso queste strade ha effettivamente sancito e rinforzato l’allontanamento dei magistrati di sorveglianza dal carcere. Eppure anche questa deriva era già stata segnalata all’inizio degli anni ’90 da De Cataldo che ammoniva i colleghi magistrati di sorveglianza a non proseguire nel lento, quanto progressivo allontanamento, dalla frequentazione fisica del carcere sull’onda del convincimento di non dover essere influenzati, nelle loro decisioni, da quell’umanità dolente e da quei luoghi infami[18]. D’altra parte questo atteggiamento è figlio di una tendenza ormai generalizzata in po’ tutte le categorie professionali coinvolte nel penitenziario.

Pare di leggere, in questo, quella ridefinizione dei ruoli che Garland descrive a proposito del modo di affrontare la sfiducia dell’opinione pubblica rispetto agli apparati statali deputati a garantire la sicurezza[19]. Al cospetto di un carcere che negli ultimi vent’anni è cresciuto numericamente a dismisura, dotato di sempre minori risorse, sempre più malato, portatore di livelli di disagio sempre più crescenti e con minori spazi fisici a disposizione; di fronte ad un mandato istituzionale, quale quello della rieducazione/risocializzazione/reinserimento, sempre meno “gratificante” per gli operatori per l’anacronismo dovuto all’imponente fardello di problemi che i detenuti portano con sé; considerata l’ampia delega sociale e politica conferita al carcere nel tentativo di contenere i problemi irrisolti all’esterno; di fronte a tutto ciò ci si è sempre più trincerati nelle proprie rigide competenze. I giudici di sorveglianza vogliono fare i giudici, i poliziotti penitenziari i poliziotti, i medici rivendicano i confini della loro deontologia per evitare l’inquinamento securitario, gli assistenti sociali la loro esternalità, i direttori il loro essere dirigenti. L’obiettivo per tutti, più o meno consapevolmente, è quello di ridurre il coinvolgimento nell’essenza terribile della detenzione. Il rischio è generare la parcellizzazione degli interventi e la riduzione della responsabilità quando, viceversa, la rivendicazione dell’autonomia e della specialità confligge con lo spirito dell’Ordinamento, fondato su una cultura umanistica ed olistica che vede nell’uomo un tutt’uno da approcciare in modo organico, multiprofessionale che si dovrebbe esprimere attraverso la coralità e la reciprocità.

Anche il Volontariato ha modificato il senso della sua presenza in carcere. Da soggetto individuale è passato a soggetto collettivo, con la novella del Regolamento di esecuzione del 2000, sino ad assumere un ruolo di soggetto politico attraverso la creazione di centrali rappresentative nazionali e regionali in grado di interloquire direttamente con la politica. Da qui la proposizione di visioni ed iniziative, sicuramente interessanti e legittime, ma non sempre coordinate in una strategia istituzionale per la verità, spesso, debole o assente e ben felice di surrogazioni e supplenze di altri.

Nel 1985 Fassone scriveva che la crisi del personale di custodia che rilevava in quegli anni era un aspetto della più generale crisi della riforma penitenziaria[20]. Le tendenze centrifughe e scissioniste appena descritte non sono altro che la cronicizzazione di quei sintomi aggravati dal passare del tempo.

La somma di tutte queste infinitesimali posizioni, distinzioni, mancati coordinamenti è una delle cause dell’effetto scivolamento che, un po’ per volta ci ha condotto di fronte alla Cedu a causa del progressivo montare dell’indifferenza al cospetto del dramma che montava nelle nostre carceri.

E che il richiamo della Cedu sia collettivo e non particolare lo si evince chiaramente dal fatto che quelle condanne non ricadono su una singola Amministrazione ma sul Governo che è espressione del Paese nella sua interezza.

L’attenzione dei giudici europei si è fondamentalmente rivolta allo strutturale sovraffollamento che, di per sé, determina l’inumanità della condizione ma, come ormai noto ai più, la soluzione del problema spaziale non garantisce l’effettivo raggiungimento dell’obiettivo della restituzione della dignità ai detenuti. La stessa Corte fa riferimento alla necessità di garantire l’introduzione di elementi di compensazione alla mera agibilità spaziale della pena. Molti di questi elementi altro non sono che i principi contemplati nelle Raccomandazioni internazionali e, prima ancora, nel nostro Ordinamento che, nel tempo, si sono affievoliti in una quotidianità rinchiusa e sancita da orari fissi di apertura e chiusura delle celle.

6. Ora tocca a noi tutti

Che si debba e si possa cambiare lo darei per scontato. Anche se sinteticamente, penso di aver qui descritto le disfunzioni che in questi anni si sono incrostate nella quotidianità penitenziaria sino a giungere a quello stato di cose che ha infine determinato le condanne che l’Europa ci ha inflitto. Molto meno scontata e decisamente più delicata questione è come farlo.

Le sentenze della Corte europea ci danno l’opportunità di ripartire riallineando i nostri atteggiamenti, comportamenti e prassi alle norme dell’Ordinamento. Sino ad oggi la Cedu ha esaminato l’incidenza spaziale ma la sempre maggiore attenzione ai diritti umani potrebbe far sì che le Corti iniziassero a prendere in esame altre non meno importanti questioni connesse alla detenzione che sono già ben contemplate nel nostro ordinamento.

Comprendere questo significa ripartire da quel testo, rinnovarne la lettura integrandola con lo spirito delle regole internazionali in tema di detenzione e della giurisprudenza delle Corti che sempre più si occupano di diritti in carcere.

Tuttavia la loro concreta applicazione dipende da ciò che ognuno degli attori intende o è disponibile a porre in essere da oggi in poi.

Le norme di per sé non garantiscono il diritto, così come le sentenze che semmai ne sanciscono l’inapplicazione. Argutamente Rodotà ha sottolineato il fatto che l’età dei diritti non è mai un tempo pacificato, un luogo dove vivere al riparo da insidie, un serbatoio dal quale attingere senza fatiche[21]. La garanzia del diritto è costituita da una quotidianità, fatta di scelte, atteggiamenti, interpretazioni adottate in una miriade di situazioni relazionali che, per continuare ad usare le parole di Rodotà, devono caratterizzarsi per una fede di fondo appassionata, magari ingenua, che sostenga lo sforzo continuo di una costruzione dei diritti sempre incompiuta e insidiata[22].

Occorre che la politica e il legislatore smettano di pensare che le questioni socialmente irrisolte, che irrimediabilmente dopo poco diventano disagio, reazione, fastidio, possano trovare compensazione in carcere. La leva penitenziaria deve smettere di avere questa funzione. Allo stesso tempo è necessario prendere coscienza che la pena detentiva comporta dei costi insopprimibili e che non tenerne conto implica proporzionalmente la riduzione della dignità delle persone che ne vengono assoggettate. Per converso se lo Stato non è nelle condizioni di poter farvi fronte la conclusione logica è che questo è un motivo per pensare a strategie punitive diverse.

Al di là di quest’ultima considerazione occorre anche sottolineare che una vera ripartenza non si può generare senza modificare l’ottica di tutti gli operatori coinvolti. Occorre abbattere le barriere che tra loro si sono venute a creare e dietro le quali molti si sono via via arroccati nella loro specificità, intenti ad affermare o difendere la propria posizione, per passare ad una condivisione leale ed aperta di un obiettivo comune.

L’uso del condizionale è d’obbligo considerate le difficoltà che questo comporta e del quadro normativo che ormai supporta e legittima tali fratture.

Questo significherebbe uscire dalla logica dell’adempimento e dell’applicazione delle regole per le regole, per passare ad una ortodossa e minuta applicazione delle norme che sappia cogliere lo spirito e i principi essenziali che ci devono guidare nel nostro operare in modo da evitare quell’oblio del pensiero e dell’indignazione che ci ha accompagnato negli ultimi anni e che ci hanno resi complici di quell’agire lontano dalla statuizione del ’75. 

In ogni modo, l’Ordinamento penitenziario, come tutti i sistemi, è come un cubo di Rubik. Tentare di manipolarlo senza avere una visione d’insieme e senza tener conto delle conseguenze che l’azione su una parte determina sulle altre, rende il nuovo assetto precario ed inefficiente. Le caselle che lo compongono si riassociano in modo irregolare e se una delle sue facce risulta cromaticamente omogenea le altre non lo potranno essere.

In questo senso occorre una governance. In questo senso l’Amministrazione penitenziaria deve poter essere l’interlocutore autorevole della politica penitenziaria in grado di offrire conoscenza e competenza e gli scenari a tutto tondo utili nelle fasi di cambiamento e innovazione.

Nella storia del carcere italiano, non a caso all’indomani della Riforma, questo è già avvenuto.

È interessante rileggere cosa avvenne negli anni precedenti, in quello che è stato definito da Mario Fontanesi il «periodo criminologico e scientifico» e scoprire il ruolo di indirizzo che ebbe un gruppo di “riformatori” dotati dal punto di vista scientifico e culturale. Giovani criminologi, magistrati, assistenti sociali che entrarono a far parte dell’Amministrazione penitenziaria raggruppandosi nel 1968 nel costituito Ufficio studi ove «elaborarono una strategia caratterizzata da una progressiva accumulazione di conoscenze, accorte alleanze e limitate ma altrettanto simboliche sperimentazioni»[23]. Nel decennio successivo alla Riforma l’allora Direzione generale degli istituti di prevenzione e pena «ha rivestito un compito di conservazione della riforma penitenziaria» consentendo attraverso la sua governance, in anni difficili, di mantenere viva ed aperta la scommessa del legislatore del ‘75[24].

Di questo oggi si dovrebbe sentire il bisogno.

[1] H. Arendt, La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano, 2003.

[2] M. Palma, Il regime del 41bis da Strasburgo (e del Comitato europeo per la prevenzione della tortura), in F. Corleone, A. Puggiotto (a cura di), Volti e maschere della pena: opg e carcere e duro, muri della pena e giustizia riparativa, Ediesse, Roma, 2013.

[3] Vedasi Sabatini - Coletti, Il Sabatini – Coletti: dizionario della lingua italiana, Milano, Rizzoli Larousse, 2007.

[4] E. Grande, La Corte Suprema degli Stati Uniti e l’ordine alla California di ridurre il numero dei prigionieri: humanitarianism o humonetarianism? in Antigone, 2-3, 2011, pp. 13 – 25.

[5] C.G. De Vito, Camosci e girachiavi: Storia del carcere in Italia, Laterza, Bari, 2009, p. 118.

[6] E. Fassone, Gli Agenti di custodia, in Fortuna F.S. (a cura di), Operatori penitenziari e legge di riforma, Franco Angeli, Milano, 1985, pp. 23-56.

[7] C.G. De Vito, Camosci e girachiavi: storia del carcere in Italia, cit., p. 137.

[8] Vedasi di recente E. Fittipaldi, Troppe divise, L’Espresso, 2, LXI, 15 gennaio 2015.

[9] F.S. Fortuna (a cura di), Operatori penitenziari e legge di riforma: i protagonisti dell’ideologia penitenziaria, Franco Angeli, Milano, 1985.

[10] Dati riportati su www.giustizia.it con riferimento alla previsione di spesa per il 2013.

[11] F. Barbieri, Il personale dell’Amministrazione penitenziaria: le professionalità necessarie ad una riforma del sistemaAntigone intervista Massimo De Pascalis, in Antigone, Oltre il tollerabile: sesto rapporto sulle condizioni di detenzione in Italia, Torino, Harmattan Italia, 2009.

[12] C.G. De Vito, Camosci e girachiavi: storia del carcere in Italia, cit., p. 144.

[13] P. Buffa, Prigioni: amministrare la sofferenza, E.G.A., Torino, 2013, pp. 79 – 82.

[14] E. Fassone, Gli Agenti di custodia, in F.S. Fortuna (a cura di), Operatori penitenziari e legge di riforma, Franco Angeli, Milano, 1985, cit., p. 24.

[15] P. Gonella, Carcere: I confini della dignità, Jaka Book, Milano, 2014.

[16] Calcolando, ad esempio, il tasso di mortalità negli istituti di pena italiani nel periodo intercorrente tra il 1994 e il 2014, sulla base dei dati in parte raccolti nel Dossier “Morire di carcere”, reperibile su www.ristretti.ii e in parte sul sito del Ministero della giustizia www.giustizia.it, si scopre una certa costanza dell’andamento. Lo stesso tasso rilevato negli anni 2013 e 2014 lo si ritrova nel 1997. Il tasso rilevato nel quadriennio successivo al trasferimento delle funzioni sanitarie, 27 decessi ogni 10.000 detenuti, è pari a quello registrato negli anni 2003, 2004 e 2007, ma è superiore a quello registrato negli anni 1994, 1995, 1996, 1998 e 1999. Il tasso minimo si registra nel 2012 ma lo scarto rispetto alla media non è così grande da farlo ritenere sintomo di una scelta decisiva (23 decessi ogni 10.000 detenuti).

[17] Peraltro è da segnalare che la legge che istituisce il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale (L. 21 febbraio 2014, n.10) non prevede altro che l’incompatibilità nei confronti dei dipendenti pubblici mentre le delibere locali sull’argomento, in genere, fanno riferimento alle ordinarie incompatibilità politiche legate alle funzioni di assessore o consigliere. Alcune menzionano anche le professioni forensi, altre non le ricomprendono. Non risulta che l’Ordine nazionale forense abbia espresso un proprio orientamento mentre la riforma forense (L. 31 dicembre 2012, n. 247) non prevede espressamente tra le incompatibilità l’esercizio delle funzioni di Garante.

[18] G. De Cataldo, Minima criminalia: storie di carcerati e carcerieri, Manifestolibri, Roma, 1992, p. 114.

[19] D. Garland, La cultura del controllo, crimine e ordine sociale nella società contemporanea, Il Saggiatore, Milano, 2007.

[20] E. Fassone, Gli Agenti di custodia, in F.S. Fortuna (a cura di), Operatori penitenziari e legge di riforma, Franco Angeli, Milano, 1985, cit., p.34.

[21] S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, Bari, 2013, p.103.

[22] S. Rodotà, ivi, p.76.

[23] C.G. De Vito, Camosci e girachiavi: storia del carcere in Italia, Laterza, Bari, 2009, pp. 43-44.

[24] F.S. Fortuna, La Direzione Generale degli Istituti di Prevenzione e Pena tra il movimento per la attuazione della riforma e i problemi del controllo in Fortuna F.S. (a cura di), Operatori penitenziari e legge di riforma, Franco Angeli, Milano, 1985, 336.