L'altro carcere
Per l’Autore il carcere è, prima di tutto, una questione sociale. In quest’ordine di idee, il modello di carcere cui si aspira non è disgiunto dal modello di “città †da costruire, ostile oppure solidale. (NdR)
Il discorso sul carcere speciale va portato avanti, ma senza perdere di vista il vergognoso panorama penitenziario quale ancora si presenta a oltre due anni dalla legge di riforma. Alcune rifrangenze negative sono presenti e immediate, come si è visto a proposito della funzione “deterrente” degli istituti speciali. Altri condizionamenti, non meno negativi, possono intravedersi in prospettiva. Deve bene preoccupare l’osservazione di Bricola, che nel raffronto tra due linee di tendenza – «assimilazione della politica penitenziaria alla politica dell’ordine pubblico» con la riaffermazione del carattere violento e terroristico del carcere, e tendenza «verso la depenalizzazione e la previsione per i reati minori di pene alternative alla detenzione» – intravede «il corollario secondo cui il carcere di massima sicurezza dovrebbe essere se non l’esclusiva, la principale forma di carcere del più o meno prossimo futuro»[2]. L’osservazione è tanto più da condividere ove si consideri che è nella logica di tutte le istituzioni cosiddette totali la tendenza a uniformarsi in concreto ai livelli corrispondenti alle massime chiusure repressive e alle maggiori comodità di una gestione custodialistica.
Senonché il reale problema è rappresentato già oggi dal carcere, tutto il carcere, così com’è e come s’intende che permanga, stanti le ormai conosciute carenze di volontà politica e, più in generale, di attitudine “culturale”; al di là delle vere o presunte ragioni dell’emergenza e del modo in cui si ritiene di farvi fronte. L’essere, oggi, il carcere “speciale” al centro della polemica può rappresentare un alibi per noi stessi, il rischio di eludere una contraddizione che involge tutt’intero il problema.
Percorrendo la terra di Sardegna verso l’Asinara, leggevo un servizio giornalistico sui “ragazzi” rinchiusi a Cagliari in un braccio del carcere del Buoncammino; «un’ora d’aria al giorno e celle come gabbie», secondo la testimonianza del parlamentare comunista Maria Cocco[3]. Abbiamo deplorato nelle carceri speciali la «privazione delle attività in comune»: ma quale attività comunitaria è promossa o resa possibile nell’“altro carcere”?
Quali aperture verso l’esterno consente “l’ideologia del trattamento” nel vigore della legge di riforma? Quali interventi “sociali” dall’esterno? E dimenticheremo i manicomi giudiziari, gli incrollabili bastioni della doppia repressione psichiatrica e carceraria? Vogliamo rischiare di allarmarci secondo il clamore suscitato caso per caso dal “lager” di turno, salvo a dimenticare di volta in volta, senza una visione d’insieme, una visione politica? “Un compagno”, questa volta anonimo, ha scritto a Il manifesto (27 ottobre 1977): «Guardiamo al tipo di attenzione prestata (per lo più proprio nel senso letterale del termine) al carcere in occasione dell’istituzione dei carceri speciali. È ingenuo e ipocrita denunciare i criteri speciali senza mettere in discussione il carcere in quanto tale, nella sua funzione essenziale, nella sua stessa nozione oltre che nel suo specifico modo di essere nella realtà italiana. Tra il carcere e il carcere speciale non c’è soluzione di continuità».
Antonia Bernardini, Petra Krause, l’Asinara… e man mano si arretra nel tentativo di difendere i margini di legalità offerti da una riforma monca, contraddittoria, non voluta, rinnegata ogni giorno.
Erano il 3, il 4 o il 5% i non rientrati dai permessi? E chi contava il 95, 96, 97% dei rientrati? Acqua passata. Ma chi tiene conto degli impiccati nelle carceri di questa repubblica? Chi lotta e vuole continuare a lottare contro una società che continua a emarginare, segregare e reprimere chi già è perdente in partenza; i segnati dalla condizione economica, dalla diversità culturale, dal dissenso ideologico?
Ecco che il discorso si sposta, inevitabilmente, fuori del carcere, e qui, al di là del tema di questo convegno, nel cuore politico del problema, ciascuno rivendica per sé la parzialità della sua scelta, la non neutralità, la faziosità, anche di fronte alla grande scommessa del nostro tempo; sfruttamento o emancipazione, esclusione o partecipazione, integrazione o emarginazione.
[*] Si tratta di uno stralcio dal più ampio Il carcere controriformato, intervento nell’ambito del convegno dal titolo «La realtà del carcere a due anni dalla riforma» promosso da Magistratura democratica e dalla Giunta regionale toscana, nel dicembre 1977, svoltosi a Firenze. Gli interventi introduttivi possono trovarsi in Magistratura democratica, Il carcere dopo le riforme, Milano, 1979.
[1]Igino Cappelli (1931-1993), in magistratura dal 1955, consigliere della Corte di cassazione. Dal 1970 al 1982 è stato magistrato di sorveglianza a Napoli. Nelle sue competenze sono rientrati in particolare il carcere di Poggioreale, il penitenziario di Procida, i manicomi giudiziari di Sant’Efremo e Pozzuoli. Autore de Gli avanzi della giustizia. Diario del giudice di sorveglianza, Editori Riuniti, 1988.
[2] F. Bricola, Il carcere riformato, p. 11.
[3] l’Unità, 11 settembre 1977.