La riforma penitenziaria e il fallimento del carcere
La cappa plumbea del panpenalismo e della “sbornia giustizialista” a senso unico – dal welfare al prisonfare – ha lasciato sul campo insuccessi evidenti: il carcere non ha prodotto sicurezza e nel suo operare ha violato sistematicamente i diritti fondamentali. L’Italia non è più il paese di Beccaria, ma quello di Torreggiani. Dalla condanna della Corte europea dei diritti umani, però, può nascere un rovesciamento teorico e delle prassi. A una condizione: che si abbandonino le emergenze della “democrazia emotiva” in favore di un nuovo pensiero radicale che sappia ritrovare la strada di «un diritto penale migliore e di qualcosa di meglio del diritto penale».
Quaranta anni non sono davvero pochi e consentono, più che un bilancio, una valutazione disincantata sull’impostazione teorica e sul modello di concezione della pena per adeguarsi ai principi costituzionali. D’altronde, la coincidenza tra l’anniversario di una riforma comunque importante e la condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti umani per violazione sistematica dell’art. 3 della Convenzione di Strasburgo relativa ai trattamenti crudeli e degradanti, pone un interrogativo inquietante. Dobbiamo senza infingimenti riconoscere che siamo di fronte alla bancarotta del riformismo senza riforme.
Deve far riflettere anche la circostanza che ricorrono ben quindici anni dall’approvazione del regolamento di esecuzione della riforma, il quale in gran parte risulta ancora non applicato, come emerge dalla relazione della Commissione Palma sugli interventi indispensabili per raggiungere standard di vita accettabili negli istituti penitenziari italiani.
Le celebrazioni per i 250 anni dalla pubblicazione di Dei delitti e delle pene possono fornire lo spunto per una rimeditazione dalle fondamenta del sistema, del funzionamento della giustizia e dei suoi esiti. Non può certo ridursi a un richiamo retorico. Mi è capitato di chiedermi se è legittimo affermare che l’Italia è il paese di Cesare Beccaria o se quest’onore non si possa ascrivere più legittimamente alla Norvegia per le scelte, sicuramente antipopolari ma di grande valore morale e politico, effettuate in occasione della strage orrenda compiuta da Anders Breivik, un esponente dei movimenti razzisti e xenofobi. Di fronte a un atto terribile non si è imboccata nessuna scorciatoia (alcuni giuristi proponevano di attribuire a quella carneficina il carattere di crimine contro l’umanità) per aumentare la pena. L’assassino non è stato qualificato come pazzo, ma è stato invece giudicato come responsabile e il tribunale ha comminato il massimo della pena, che in Norvegia è di ventuno anni di reclusione.
Dopo decenni di ossessione securitaria e di “sbornia giustizialista”, torna forse l’urgenza di fare i conti con l’abolizionismo, riletto non con gli occhiali dell’astrattezza ideologica, ma con la forza dei fatti e della dura replica della storia. Allo stesso modo, va declinata nella attualità la teoria del diritto penale minimo e mite, perché non sia confinata nell’empireo delle vane aspirazioni per anime belle.
Abolire il carcere?
D’altronde, se su La Repubblica del 23 gennaio 2015 appare un testo di Gustavo Zagrebelsky con un titolo netto, privo di prudenza, «Che cosa si può fare per abolire il carcere», vuol dire che il tempo, della riflessione se non della decisione, è ora. Zagrebelsky definisce la detenzione retaggio della premodernità e sostiene che il carcere non è semplicemente privazione della libertà ma rende esplicita una condizione in cui viene amputato il primo diritto dell’essere umano: il diritto al proprio tempo.
Mi piace ricordare che nel novembre del 2014 l’Ufficio del Garante dei diritti dei detenuti della Regione Toscana ha organizzato proprio su questi temi un convegno assai ambizioso e in quella sede è stato presentato il Manifesto No Prison[1] promosso da Massimo Pavarini e da Livio Ferrari. Nell’invito ritenemmo opportuno riprodurne ampi stralci: «Con l’avvento dell’era moderna, la società occidentale ha ritenuto che la pena privativa della libertà – cioè il carcere – avesse sia la virtù di minimizzare la sofferenza della reazione penale, sia la capacità di intimidire i potenziali violatori dal delinquere, nonché di educare i condannati a non recidivare».
I dati di questo fallimento sono davanti agli occhi di tutti coloro che intendono il vero senza pregiudizi ideologici: il carcere non solo tradisce la sua mission preventiva, cioè non produce sicurezza dei cittadini nei confronti della criminalità, ma nel suo operare viola sistematicamente i diritti fondamentali.
La prigione, sempre ed ovunque, viola i diritti fondamentali e compromette gravemente la dignità umana dei condannati. Certo: non tutte le carceri sono uguali sotto il profilo del rispetto dei diritti dei detenuti. Ma non esiste esempio storico di un carcere capace di limitare la sofferenza del condannato a quella sola che consegue alla privazione della libertà personale.
Il riformismo penitenziario può oggi giustificarsi solo in una strategia di riduzione del danno. Si può, se lo si vuole, contenere la sofferenza del carcere. Ma così operando non si converte il fallimento carcerario in successo. Anche il carcere migliore è nella sostanza inaccettabile.
Liberarsi dalla necessità del carcere perché pena inutile e crudele non comporta affatto rinunciare a tutelare il bene pubblico della sicurezza dalla criminalità. Anzi: per il solo fatto di rinunciare al carcere si produce più sicurezza dal pericolo criminale, stante che il carcere è fattore criminogeno esso stesso. Una società senza prigioni è più sicura, come più sicura è una società senza pena di morte.
La risposta al delitto non può che essere un intervento volto ad educare a una libertà consapevole attraverso la pratica della libertà. Questa deve essere la regola. Nei limitati casi in cui questo non sia immediatamente possibile, solo eccezionalmente, si possono prevedere risposte di tipo custodiale nei confronti della criminalità più pericolosa, ma in quanto extrema ratio a precise condizioni.
Per superare la cultura della pena e del carcere e riportare le persone che hanno violato la legge alla legalità e al rispetto delle regole è assolutamente necessario che anche le regole siano rispettose delle persone! Dalle persone non possiamo pretendere cose anche giuste ma in modo ingiusto!
Stato di diritto e giustizia di classe
Quest’orizzonte ideale, dopo anni di ossessione securitaria e di sfrenato panpenalismo, può apparire un puro esercizio di parole in libertà, ma lo sforzo è quello di realizzare un’utopia concreta. Ci può aiutare tornare all’articolo 27 della Costituzione e notare che il capoverso sul carattere delle pene (non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato) non fa riferimento alla reclusione e tanto meno al carcere. Per trovare questi riferimenti bisogna compulsare il codice penale e l’ordinamento penitenziario. Questa annotazione non è marginale o una clausola di stile ma permette di rifiutare l’esatta corrispondenza tra pena e carcere e soprattutto di respingere la centralità del carcere, come auspicato anche dal cardinale Carlo Maria Martini nel suo volume Sulla Giustizia.
Penso che ci sia un accordo universale sul fatto che la pena non debba essere esercizio di vendetta, soprattutto non debba essere smodata ricerca di vendetta dei privati, come sottolineava Aldo Moro. Passare da ciò che non deve essere a quali caratteristiche debba avere è certo più difficile, eppure il passaggio dal negativo al positivo è essenziale. Come è fondamentale approfondire il senso della pena; guai se il fine della pena si risolve semplicemente nella fine della pena!
Pregiudiziale è anche definire il carattere della giustizia. Occorre fare i conti con una legislazione d’emergenza che si è fondata su norme che violano i principi di legalità, di offensività e di proporzionalità. Le basi dello stato di diritto sono state minate.
Il risultato di una giustizia di classe, aggravata dal carattere etico ed etnico, produce il carcere inteso come discarica sociale.
Questa cappa plumbea non può determinare una paralisi, ma deve spingere a un rovesciamento teorico e della prassi.
Voglio tentare di mettere in discussione concetti dati come indiscutibili. Il primo è che la pena in carcere è perdita della libertà e la seconda è che in carcere si va perché si è puniti e non per essere puniti.
Non va trascurato il fatto che la galera non è una misura uguale per tutti i prigionieri. Il carcere del 41bis è ben diverso da un istituto a custodia attenuata; il carcere speciale non è paragonabile a quello dei minori. Comunque sia, si tratta di una istituzione totale, come lo erano i manicomi, come lo è l’ospedale psichiatrico giudiziario, come lo sono tutti i luoghi, dalle celle di sicurezza ai Cie contenitori della detenzione amministrativa, in cui i corpi dei reclusi sono sotto il dominio di altri, dell’autorità, del potere. Questo dominio può essere incontrollato o può essere subordinato alla legge. Un luogo di potere – non solo sui detenuti, ma pure tra i detenuti – è un luogo anche di violenza; violenza sui detenuti da parte di chi adotta pratiche vietate e condannate esplicitamente dall’art. 13 della Costituzione, oppure di violenza dei detenuti su se stessi: l’autolesionismo, il suicidio, tentato o realizzato, sono eventi tragici drammaticamente ricorrenti.
Però, quanto meno per i detenuti di media sicurezza, il carcere non è un luogo di sepolti vivi (Il cimitero dei vivi, lo definiva nel 1904 Filippo Turati[2]); infatti i colloqui, le telefonate e i permessi premio fino a quarantacinque giorni all’anno danno la dimensione di una apertura alla società, offrono l’opportunità di interrompere la detenzione con momenti di libertà finalizzati alla riacquisizione di relazioni sociali. La perdita della libertà non va dunque intesa in modo assoluto, ma in termini di perdita di libertà di movimento. La gravità del reato compiuto e il rischio della ripetizione del comportamento antisociale che ha determinato la sanzione impediscono la frequentazione incontrollata di luoghi e persone per un certo tempo. Invece all’interno del carcere, una struttura chiusa (si può paragonare a un convento o a una caserma?) da cui non si può uscire – almeno per un tempo significativo della condanna – se non per fine pena o per evasione, si deve poter godere di tutti i diritti costituzionali e di tutti quelli previsti dall’Ordinamento penitenziario, dal Regolamento di esecuzione e dalle leggi specifiche legate alla condizione detentiva. Una concezione siffatta del carcere dovrebbe prevedere il massimo di agibilità all’interno della struttura per usufruire degli spazi di studio, di gioco, della mensa, del supermercato. Un luogo che si affidi alla crescita personale, in termini di responsabilità e di autonomia abbandonando la logica caratterizzata dall’infantilizzazione.
La condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti umani di Strasburgo per trattamenti crudeli e degradanti, la violazione dell’art. 3 della Convenzione, costituisce la premessa della svolta ineludibile. Iniziamo dai diritti costituzionali.
I diritti civili e umani
Fondamentale e inalienabile è il diritto alla vita, compromesso dai troppi suicidi e dalle eccessive morti “naturali”, essenziale è il diritto alla salute. Si può fare un lungo elenco: dal diritto allo studio a quello al lavoro, dal diritto all’informazione a quello della comunicazione, dal diritto di voto alle elezioni alla pratica della propria confessione religiosa. I diritti sono innumerevoli, ma il problema è renderli esigibili.
L’Amministrazione penitenziaria purtroppo è abituata a non considerare il detenuto un cittadino e quindi l’atteggiamento è quello della concessione e del favore, attraverso la pratica di una premialità distorta e discriminatoria. Si è verificata nel tempo una lunga teoria di vessazioni e di angherie: ad esempio, le limitazioni incomprensibili per l’ingresso di libri, dal loro numero all’esistenza o meno della rilegatura o i divieti incostituzionali per la lettura di quotidiani e riviste. Sarà una data storica quando le biblioteche del carcere saranno sempre aperte e i detenuti potranno recarsi liberamente, sottolineo liberamente, a leggere e studiare, trasformando quelli che oggi sono depositi di libri in luoghi di lavoro.
La “sentenza Torreggiani” ha dato impulso alla definizione del diritto al reclamo (c’è ora un giudice per i detenuti) ed è compito della magistratura di sorveglianza verificare le violazioni e ripristinare le regole. Da questo punto di vista, il ruolo del Garante dei diritti delle persone private della libertà si rivela insostituibile. Infatti, anche questa figura è destinataria di reclamo e quindi titolare di azioni di tutela.
Bisogna sapere che far entrare in carcere la concezione dei diritti come un fatto normale non è semplice né scontato; anche i detenuti fanno fatica ad abbandonare l’abitudine della “domandina” e a rivendicare i diritti nella quotidianità. Il timore di ritorsioni rende assai prudenti. Per esempio, convincere i detenuti a votare non è facile, d’altronde la disaffezione è alta anche tra i cittadini liberi e non deve stupire la mancanza di fiducia. I Garanti, negli ultimi anni, si sono adoperati per superare le difficoltà burocratiche e gli oggettivi impedimenti normativi e hanno insistito per convincere all’esercizio di questo diritto sostenendo che il voto è un segno di appartenenza alla società, che è insomma l’espressione massima della cittadinanza, una sorta di esistenza in vita rispetto alla cancellazione umana e anagrafica.
Si apre quindi una prateria per l’espansione dei diritti come volano del cambiamento, senza contare il significato innovativo dei diritti previsti dalle convenzioni internazionali. Ma torniamo al valore dirompente dell’articolo 27 della Costituzione italiana, inverato dalla riforma penitenziaria del 1975, seguita nel 1986 dalla Legge Gozzini e dal nuovo Regolamento di attuazione del 2000, che si poneva idealmente e radicalmente come alternativo a quello di Alfredo Rocco del 1931.
La linea seguita non è stata sempre coerente, perché le stagioni dell’emergenza hanno comportato arretramenti spesso pesanti. Abbiamo vissuto una stagione di ripresa riformatrice, tra il 1996 e il 2001, che ha visto l’approvazione di un pacchetto di leggi innovative (dalla Legge Smuraglia sul lavoro dei detenuti alla Legge Finocchiaro per le detenute madri, dalla legge sull’incompatibilità con il carcere per i malati affetti da Aids e altre gravi patologie alla Legge Simeone-Saraceni). In seguito è calata una coltre di oscurantismo e di panpenalismo costruita su svariati “pacchetti sicurezza”, la cui ombra si è distesa fino a quando l’insostenibilità del sovraffollamento ha imposto una profonda revisione.
I provvedimenti proposti dal Governo e approvati dal Parlamento dal 2011 fino al 2015 non possono essere letti solo come misure per evitare una censura europea e che una propaganda demenziale ha bollato come “svuotacarcere”, ma costituiscono invece un allargamento dello spazio dei diritti. L’ampliamento del ricorso alla detenzione domiciliare e l’aumento dei giorni di liberazione anticipata sono indubbiamente provvedimenti legati al rimediare ai guasti dell’incarcerazione di massa dovuta alle note leggi criminogene; invece, l’espansione delle misure alternative non solo per i tossicodipendenti, la previsione della messa alla prova con sospensione del processo per i reati fino a quattro anni di pena, la possibilità di archiviazione dei procedimenti per irrilevanza del fatto, la stessa norma del risarcimento compensativo per chi ha subito una detenzione contraria ai principi dell’articolo 3 della Convenzione di Strasburgo, indicano il tentativo, ancora timido, di uscire dalla visione delle misure alternative come beneficio discrezionale dopo avere assaggiato il carcere, e si inizia a ipotizzare – pur con troppa prudenza – un sistema alternativo di sanzioni. Siamo solo all’inizio di un percorso che potrebbe far declinare in forme nuove un diritto penale minimo e mite.
Architettura versus edilizia
Con Stefano Anastasia e Luca Zevi ho curato un volume intitolato Il corpo e lo spazio della pena[3] per mettere a fuoco una relazione fondamentale per comprendere la materialità della condizione umana che si vive nelle istituzioni totali. La sudditanza a un potere che viene percepito senza limiti e a cui non ci si può opporre perché esercitato in nome della legalità e delle sue regole, si esplica in tanti passaggi. L’iniziazione avviene all’ingresso, con la sottoposizione alla perquisizione completa e intima dopo la spogliazione totale. In quel momento prevale la consapevolezza che qualcuno è padrone del tuo corpo e tu non sei più soggetto. Nei lager il processo di reificazione della persona era enfatizzato al massimo livello; il corpo diveniva oggetto del desiderio sadico e della perversione violenta. I sommersi e i salvati, il libro fondamentale di Primo Levi rappresenta la testimonianza, più alta, commovente e disperata, della perdita irrimediabile della dignità.
Il binomio diritti e dignità rappresenta dunque la nuova frontiera di una riforma umana del carcere.
La concezione delle strutture carcerarie si è caratterizzata negli ultimi decenni per l’assenza di una idea, di un progetto, di una finalità. L’edilizia ha cancellato l’architettura. Scatoloni di cemento armato rispondevano bene alla funzione di ammassare corpi rinchiusi in pochi metri quadri. Le camere di pernottamento – così sono definite dall’Ordinamento penitenziario – si sono trasformate in gabbie per bestie feroci da tenere segregate. La scelta di espellere dal centro delle città il carcere ha accentuato l’isolamento di una fortezza chiusa in se stessa, con proprie regole e con una autonoma giurisdizione, creando una sorta di zona franca sottratta al controllo democratico e senza trasparenza. Per fortuna il Piano per la costruzione di nuove carceri è stato abbandonato, vista la diminuzione del numero dei detenuti da 68.000 a 53.000; se fosse perseguita con coerenza una politica criminale indirizzata a colpire i gravi delitti del nuovo millennio, dai crimini contro la persona a quelli ambientali, dai reati finanziari a quelli informatici, dalle speculazioni edilizie alle truffe degli appalti, dai riciclaggi ai condizionamenti del diritto all’informazione, il numero dei detenuti potrebbe scendere ancora notevolmente.
La detenzione sociale ha caratterizzato questo tempo che ha sostituito il welfare con il prisonfare. I poveri, i tossicodipendenti, gli stranieri per l’opera di inserimento sociale hanno bisogno di altri luoghi, capaci di sperimentare la scommessa della reintegrazione. Una concezione che si affidi alla costruzione di comunità di vita, non autoritarie, olivettiane piuttosto che terapeutiche.
Acutamente, Stefano Anastasia contesta la pretesa «di produrre recupero (dello svantaggio) sociale attraverso l’esclusione sociale»[4], e aggiunge: «è possibile includere attraverso l’esclusione? Non è questo paradosso che ha condotto al fallimento gli ammirevoli progetti di trasformare il carcere in un servizio sociale territoriale?»[5]. Anastasia nega che il diritto penale possa avere la pretesa di fare del bene ai condannati perché, in ultima analisi, «resta, sostanzialmente, il diritto del poi, che interviene quando il vaso è rotto, cercando di mettere insieme i cocci»[6]. La sua lucida e disincantata conclusione è che deve essere inteso come uno strumento di minimizzazione della violenza e che quindi occorra «praticare giorno per giorno, palmo a palmo, la lotta per i diritti dei detenuti e per l’umanità della pena»[7].
Massimo Pavarini nega che la privazione della libertà si possa fermare fino al punto di non violare o minacciare altri diritti del condannato e quindi afferma con durezza che «Qualsiasi limitazione della libertà personale comporta inevitabilmente la compromissione di altri diritti. Il sovraffollamento carcerario ha svelato quel fatto vergognoso che non si può più occultare, rendendo evidente quello che teoricamente lo è sempre stato, ovvero che le carceri sono luoghi di distruzione di corpi umani. Sono luoghi di annientamento, più prossimi a campo di sterminio che a campi di concentramento. Questa è la realtà. Si guardino i tassi di suicidio, i tassi di autolesionismo, l’infettività che il carcere comporta. Abbiamo oggi i dati per misurare l’impatto del carcere sui diritti fondamentalissimi della persona, a partire dal diritto alla vita. Si può immaginare cosa accada del resto»[8]. La sua conclusione offre però una speranza, una via d’uscita di sicurezza: «Questa constatazione può portare a un radicalismo abolizionista, ma può portare anche a un’attenta politica riduzionista di questa violenza, e questa seconda strada è oggi un percorso possibile e utile»[9].
Diversa e certamente istruttiva è la descrizione del penitenziario svizzero di Friedrich Dürrenmatt nel suo volume Giustizia con una ironica e divertente conclusione: «S’incollano sacchetti, s’intrecciano cesti, si rilegano libri, si stampano brossure, nella sartoria si fanno confezionare abiti su misura persino i consiglieri del governo; inoltre si diffonde per l’edificio un caldo profumo di pane, la panetteria è famosa, i suoi panini con salsicce mirabili (le salsicce sono fornite dall’esterno), se si è solerti e cortesi ci si può meritare pappagalli, piccioni, apparecchi radio, per l’istruzione superiore ci sono le scuole serali, e non senza invidia può balenare l’idea, lo si capisce d’un tratto, che questo è il mondo che funziona, non il nostro»[10].
Il welfare in carcere o nella società?
I nodi teorici sono evidenti e obbligano a scelte coerenti.
È vero che la scelta correzionalista si lega all’ideologia del welfare state e che la finalità rieducativa della pena e il conseguente trattamento penitenziario si fondano sui diritti sociali universali. La crisi di questa ideologia e di questa prassi, incarcerare per salvare, lascia il campo a un carcere dei diritti civili. Ma anche i diritti devono essere universali per essere tali; soprattutto, se al carcere venisse tolta la funzione di ricovero della devianza e di surrogato del sistema di protezione sociale, l’orizzonte ideale dell’art. 27 della Costituzione per cui nessuno è perduto per sempre manterrebbe il suo valore e confermerebbe l’ancoraggio ideale per sostenere l’illegittimità dell’ergastolo e del fine pena mai.
Non posso non ricordare che Alessandro Margara, riferimento culturale per tante generazioni che si sono occupate del carcere e del suo cambiamento, ha sostenuto che il fallimento della Riforma penitenziaria risiede nel suo tradimento, o meglio nel rifiuto dei punti fondamentali perpetrato immediatamente dopo la sua approvazione. Il carcere della Riforma non ha mai visto la luce. Va anche ricordato che allo stesso Margara va attribuito un lavoro di riscrittura dell’ordinamento penitenziario che è stato tradotto in una proposta di legge presentata alla Camera nel 2006 (n. 29, prima firma Boato).
Occorre essere consapevoli che le posizioni teoriche non devono costituire un limite al cambiamento anche parziale. La chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari prevista per la fine di marzo 2015 non può essere sottovalutata o archiviata come cosa scontata o banale. Il superamento di un luogo dell’orrore, che è insieme manicomio e carcere, è un esempio di abolizionismo che va misurato nella sua portata civile e storica.
Su questa scia si possono mettere in campo modificazioni profonde della detenzione dei minori e delle donne, non per esaltare la minorità e una forma di paternalismo compassionevole o di solidarismo peloso, ma per far emergere le caratteristiche specifiche di questi soggetti, offrendo concrete opportunità di vita.
Obiettivi antichi guardando al futuro
Non va sottaciuta la questione sempre aperta di un nuovo codice penale che abroghi il Codice Rocco. La responsabilità di non avere messo tra le priorità della democrazia repubblicana l’abbandono dello strumento fondamentale della costruzione dello stato etico, del regime fascista insomma, è di una gravità incommensurabile. Invece della riserva di codice si è sviluppato l’affastellamento di leggi speciali ed emergenziali che hanno dato l’impronta a quella che Glauco Giostra ha definito democrazia emotiva. Così non deve stupire che un ministro della giustizia abbia potuto impunemente fare l’elogio di Alfredo Rocco nell’aula del Senato, sostenendo che quel giurista era un tecnico, per altro criticato in maniera sferzante da Piero Gobetti. È grave ignorare il suo ruolo politico nel partito fascista e prima quello di leader del movimento nazionalista; è un segno dei tempi senza memoria.
Tuttavia, l’occasione degli Stati generali del carcere, annunciati dal ministro Orlando, potrà rivelarsi determinante per tracciare le linee di una grande riforma. Pregiudiziale è in questi mesi l’approvazione delle leggi sulla introduzione del reato di tortura, l’affermazione del diritto all’affettività e l’istituzione del Garante nazionale dei diritti dei detenuti.
Sullo sfondo rimane la questione dell’ergastolo, che Aldo Moro condannava in termini inequivoci come una pena addirittura più crudele della pena di morte: «Quando si dice pena perpetua si dice una cosa estremamente pesante, estremamente grave, umanamente non accettabile»[11]. Invece, gli ergastolani hanno raggiunto la cifra di 1584, con una impressionante progressione rispetto ai 408 del 1992; per far comprendere come hanno ben scavato gli imprenditori della paura, va ricordato che gli omicidi volontari sono passati dalla punta di 1633 del 1990 ai 528 del 2012.
Mino Martinazzoli, nel commentare le lezioni di Moro sul senso della pena, richiamava l’utopia giovanile dello statista secondo cui occorreva cercare non tanto un diritto penale migliore quanto qualcosa di meglio del diritto penale.
Un pensiero così alto da far vergognare per le diatribe di basso livello che hanno occupato le cronache di un’infinita stagione giustizialista.
L’urgenza di ricostruire stato di diritto, democrazia e garantismo obbliga ora alla ricerca di una egemonia dell’intelligenza.
[1] Disponibile on-line alla pagina www.noprison.eu.
[2] Discorso pronunciato alla Camera il 18 marzo 1904.
[3] S. Anastasia, F. Corleone, L. Zevi, Il corpo e lo spazio della pena, Ediesse, Roma 2011.
[4] S. Anastasia, Metamorfosi penitenziarie. Carcere, pena e mutamento sociale, Ediesse, Roma 2013, p. 131.
[5] Ibidem.
[6] Ibidem.
[7] Ibidem.
[8] M. Pavarini, Dalla Repubblica della decarcerizzazione alla distribuzione selettiva della sicurezza, in Fondazione Giovanni Michelucci e Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Toscana (a cura di), Il carcere al tempo della crisi, Consiglio regionale della Toscana, 2014, p. 110.
[9] Ibidem.
[10] F. Dürrenmatt, Giustizia, Adelphi, Milano 2011, p. 48.
[11] Moro, A., Lezioni di Istituzioni di diritto e procedura penale (tenute nella Facoltà di Scienze Politiche dell’ Università degli Studi di Roma), raccolte e curate da Francesco Tritto, presentazione di Giuliano Vassalli, Cacucci, Bari 2005.