Magistratura democratica

La riforma dell’ordinamento penitenziario come narrazione giuridica del carcere negli anni della "scoperta" della Costituzione

di Claudio Sarzotti

L’analisi della riforma penitenziaria come prodotto letterario, come racconto di quel che il carcere rappresentava nella cultura Sessanta e Settanta e immaginazione di quello che avrebbe dovuto essere attraverso l’attuazione dei principi costituzionali. Una narrazione con le sue tecniche, i suoi protagonisti – amministrazione, detenuti, giudici – e i suoi messaggi. Una “storia” del carcere da leggere con attenzione per dare solidità al progetto del futuro.

1. Il diritto come racconto di un’epoca

Una vecchia massima di un pandettista tedesco dell’ottocento, Julius Von Kirchmann, spesso citata dai giuristi, recita più o meno così: «Bastano due tratti di penna del legislatore per mandare al macero intere biblioteche». Ed è questo adagio che mi è venuto in mente quando recentemente ho avuto occasione di svolgere un lavoro di risistemazione dell’archivio librario dell’associazione Antigone donato alla Biblioteca Norberto Bobbio dell’Università di Torino: cosa conservare dei testi giuridici e della dottrina che commentano normative ormai superate dal punto di vista del diritto vigente? A che fine conservare la memoria di un diritto positivo che, per definizione, vale finché è in vigore?

Questa risposta è stata data dagli storici del diritto, che hanno spesso ricostruito la sua storia per celebrare il presente con il passato, nel senso che «gli argomenti storici rilevanti sono identificati a partire dal ventaglio di concetti e problemi giuridici contemporanei. Ne deriva una prospettiva deformata dell’ambito storico, in cui gli oggetti e le questioni sono ritagliati a partire dal modo di vedere e di concepire il diritto odierno. Così il presente si impone al passato; ma per converso il passato è imprigionato in categorie, problematiche ed angosce del presente, perdendo il suo spessore e la sua specificità, la sua maniera di immaginare la società, di ordinare i temi, di porre le questioni e di risolverle»[1].

Il linguaggio del diritto positivo non esprime quindi solamente una certa prescrizione relativa ad un fatto sociale che il legislatore intende regolare, ma un immaginario collettivo, un modo di concepire la realtà che è specifico del momento storico in cui quella normativa è stata emanata. Sono convinto, quindi, che per celebrare il quarantennale della riforma dell’ordinamento penitenziario sia alquanto illuminante leggere quel testo normativo come un racconto di quel che il carcere rappresentava nella cultura giuridica (e non solo) degli anni Sessanta-Settanta, cercando di mettere in evidenza tutta la distanza che separa quella rappresentazione da quella odierna e avendo ben presente che l’analisi del linguaggio del legislatore che verrà svolta in questa sede è necessariamente limitata dall’assenza di riferimenti empirici al processo d’implementazione della legge stessa, attraverso il quale il diritto formale dovrebbe tradursi in diritto vivente[2].

Una lettura di questo tipo del linguaggio della legge si inserisce tra l’altro nell’ambito di quella corrente delle teorie giuridiche tardo moderne denominata Law and Literature e, in particolare, in quel sottofilone chiamato Law as Literature che considera «il diritto come prodotto letterario, come narrazione, costruzione di storie, e si propon[e] di applicare le tecniche e i metodi della teoria e dell'analisi letteraria ai testi giuridici»[3]. In questa prospettiva, il diritto può essere considerato un modo specifico di narrare storie (il cd storytelling), una forma particolare di “pratica narrativa” che, condizionata dal contesto istituzionale in cui si sviluppa, può essere analizzata come un testo rilevante per ricostruire una cultura, una forma di vita esistente in specifici contesti spazio-temporali. Se questi sono i presupposti, diventa praticabile, da un lato, un uso artistico del linguaggio giuridico, nel senso che esso può essere piegato ad una finalità non prescrittiva ma espressiva, ad esempio per celebrare un testo normativo[4], per narrare di personaggi dimenticati dalla storia ufficiale[5], per enfatizzare l’elemento drammatico di determinate vicende giudiziarie[6]. D’altro lato, diventa possibile costruire una vera e propria teoria delle narrazioni giuridiche che distingue tra racconti giuridici ufficiali e non ufficiali, e suddivide ulteriormente la prima categoria tra testi normativi, interpretativi e applicativi[7]. Rispetto a quest’ultima tripartizione, è evidente che i testi applicativi, rappresentati ad esempio dalle pronunce giurisprudenziali che “chiudono”[8] procedimenti giudiziari, si prestano maggiormente ad un’analisi letteraria, in quanto «le storie giudiziarie possono (…) essere lette come narrazioni più ampie di una cultura che ne “imprime” i significati e ne orienta le soluzioni, con la finalità implicita o latente di garantire il “mantenimento” di un ordine sociale più complesso»[9]. Ma anche i testi normativi in senso stretto possono essere sottoposti a tale metodologia di ricerca, in quanto anche il linguaggio del diritto posto dal legislatore può essere analizzato come la narrazione del contesto che esso vorrebbe sottoporre alla grammatica prescrittiva della legge e da tale narrazione si possono ricavare elementi illuminanti sulla cultura e sugli elementi socio-economico-politici del contesto spazio-temporale dal quale quella narrazione è scaturita. La parola del legislatore, infatti, da questo punto di vista è, in misura molto maggiore di quella dell’autore dell’opera letteraria, rappresentativa dello spirito del tempo proprio perché scaturisce da un dibattito pubblico che coinvolge più attori sociali ed è (o dovrebbe essere) espressione delle varie sensibilità politico-culturali presenti in quel contesto storico[10].

2. La riforma dell’ordinamento penitenziario e la “scoperta” della Costituzione

Potrò delineare in questa sede solamente alcune linee di possibili letture socio-letterarie del testo della riforma del 1975. Linee di lettura che rappresenteranno la base teorica per l’organizzazione delle celebrazioni del suo quarantennale che verranno predisposte nell’ambito della costituenda rete museale per la «Storia della penalità in Piemonte»[11] che cercherà di raccontare e rievocare un testo normativo attraverso il linguaggio di una pluralità di forme artistiche che potranno andare dal teatro alla pittura, dal cinema alla fotografia.

Si è detto come il linguaggio del diritto evochi anche un immaginario collettivo, un certo atteggiamento nei confronti dei temi e dei problemi sociali che vuole affrontare e un certo modo di prospettare gli interventi normativi rispetto a quei temi e a quei problemi. Da questo punto di vista vi è un primo elemento che emerge chiaramente del testo della riforma e che la ricollega alla cultura giuridica degli anni Sessanta e Settanta: si tratta di quel fenomeno culturale che è stato chiamato la “scoperta” della Costituzione[12]. Un fenomeno che, come noto, ebbe la sua massima espressione nell’ambito della cultura professionale della magistratura, ma che certo non lasciò immune il potere legislativo nella stagione delle grandi riforme, delle quali quella carceraria fa certamente parte. L’idea di fondo che sorregge tale impostazione è che la Costituzione «per i suoi esigenti parametri assiologici di validità si pone in permanente tensione e in virtuale antinomia con l’intero diritto vigente» e che essa debba essere il punto di riferimento «al tempo stesso interno al diritto, quale suo criterio normativo di unificazione e di invalidazione, e ad esso irriducibilmente esterno in quanto suo fondamento assiologico ed etico-politico»[13]. Il legislatore del 1975 è quindi tutto proteso ad enfatizzare l’obiettivo di costituzionalizzare l’esecuzione penale, operazione che, come noto, fu particolarmente lunga e travagliata in molti settori dell’ordinamento giuridico italiano, ma che nel settore penitenziario doveva scontare quella che Guido Neppi Modona ha chiamato la “sostanziale continuità” della storia dell’istituzione carceraria. Continuità manifestatasi, nel periodo che intercorre tra la Costituzione del 1948 e la riforma del 1975, nella mancata epurazione dell’apparato amministrativo di matrice fascista, nel «non cambiare i punti fondamentali degli assetti preesistenti dell’organizzazione penitenziaria»[14] e nella formalistica linea interpretativa della Corte costituzionale che riteneva di non poter sottoporre all’esame di costituzionalità il regolamento carcerario del 1931 a causa appunto della sua natura regolamentare[15]. Il paradosso fu che i pochi segnali di adeguamento al dettato costituzionale dell’ordinamento penitenziario giunsero proprio dal potere esecutivo attraverso alcune circolari ministeriali, il cui contenuto peraltro si rivelò molto oscillante nell’impostazione e quindi non fondato su durevoli scelte di politica penitenziaria[16].

E che l’ispirazione costituzionale trapeli chiaramente dalla riforma lo si può evincere sin dalla partizione del testo. Come noto, «[c]omune ai testi legali normativi (…) è l’intento di disporre la materia secondo gerarchie chiaramente definite e riconoscibili, dalle formulazioni di valore generale alla loro applicabilità ai casi particolari»[17]. Questa struttura gerarchica del testo legislativo, questa partizione ben ordinata in libri, titoli, capi, sezioni, paragrafi, articoli è tipica soprattutto nei testi normativi di più lunga durata e, in particolare, dei frames narrativi più celebrati e diffusi nel diritto positivo moderno: le carte costituzionali e i codici[18]. Se guardiamo alla partizione della riforma del 1975 scorgiamo immediatamente la struttura gerarchica e l’ambizione onnicomprensiva del modello costituzional-codicistico: due titoli rispettivamente dedicati al trattamento penitenziario e all’organizzazione penitenziaria, a loro volta suddivisi in più capi che contengono tutti i 91 articoli della riforma[19]. Il legislatore del 1975 è consapevole che quel testo normativo deve costituzionalizzare l’esecuzione penale ancora normata dal regolamento penitenziario Rocco del 1931, nonostante l’art. 27 Cost. avesse posto dei principi con esso incompatibili, e per far ciò ha necessità di una prospettiva ampia che abbracci tutti gli aspetti dell’universo penitenziario con l’ambizione di produrre una regolamentazione di lunga durata della materia[20]. Del resto la stessa travagliatissima gestazione della riforma che lo storico più accreditato della storia del carcere repubblicano, Christian G. De Vito, fa partire dal disegno di legge «Ordinamento penitenziario e prevenzione della delinquenza minorile» presentato nel giugno 1960 dall’allora Guardasigilli democristiano Guido Gonella[21], dimostra come il testo della riforma rappresenti il deposito di una riflessione politico-culturale indicativa di un intero periodo della storia della cultura giuridica italiana.

E questo atteggiamento viene confermato dall’analisi dell’incipit del testo. Come noto, l’incipit di un testo letterario è particolarmente significativo in quanto «è come una soglia che separa il mondo reale in cui viviamo dal mondo immaginario del romanzo»[22]. Nel caso di un testo giuridico, dove prevale la struttura gerarchica del discorso, esso è anche ciò che è posto ai vertici della piramide normativa. Ecco allora che deve essere considerata rilevante la scelta del narratore-legislatore di richiamare espressamente sin dall’art. 1 «ben quattro princìpi costituzionali (la conformità della pena ai princìpi di umanità; la presunzione di non colpevolezza; il principio di uguaglianza e quello di imparzialità)»[23].

Se prendiamo in esame lo stesso articolo possiamo osservare che il legislatore dapprima, al comma 1, menziona solo uno dei due principi che l’art. 27, co. 3 Cost. enuncia come quelli che dovrebbero ispirare le finalità delle sanzioni penali: «Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona». Rispetto alla formulazione dell’art. 27 Cost., a parte l’abbandono della scelta dei Costituenti di esprimere i divieti con formule negative[24], si deve notare che il senso di “umanità” è qui ulteriormente rafforzato con il riferimento alla dignità della persona condannata, principio che è desumibile da altri articoli della Costituzione (artt. 2, 3, 13 e 36). È stato giustamente osservato come la scelta di fare riferimento qui ad un ulteriore principio costituzionale possa «rivelarsi incisiva se si riflette che talune prassi penitenziarie non scendono probabilmente al di sotto della soglia dell’inumanità, ma certo attentano al senso di dignità»[25]. Ma al di là di questo aspetto normativo, deve essere sottolineato l’atteggiamento prudente e compromissorio (nel senso positivo del termine) del legislatore che enfatizza da subito quel profilo umanitario della pena che sin dal dibattito alla Costituente fu quello meno divisivo; il principio di umanità era in grado, infatti, di mettere agevolmente d’accordo l’anima laica e quella cattolica della cultura giuridica delle forze politiche dell’epoca. L’elemento più conflittuale, il richiamo al termine rieducazione, invece da taluni costituenti di matrice cattolica era stato considerato pericoloso in quanto troppo compromesso con la Scuola Positiva del diritto penale e quindi in potenziale conflitto con il rispetto del principio della libertà della persona condannata[26]. Il termine rieducazione, inoltre, rievocava i tristemente famosi campi, gulag, lager etc. con cui i regimi totalitari avevano da sempre mascherato la volontà di annientamento e di neutralizzazione dei dissidenti politici. Non è dunque un caso che il legislatore, a distanza di più di vent’anni dalla Costituzione, pur intitolando l’art. 1 della riforma «Trattamento e rieducazione», non utilizzi più per l’intero corpo testuale il crudo sostantivo “rieducazione”, ma espressioni che lo moderano come “trattamento rieducativo” o “azione rieducativa”. E proprio all’art. 1 che definisce cosa s’intenda per rieducazione, il legislatore del 1975 precisa che per trattamento rieducativo si fa riferimento ad un’azione che tenda, «anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale» dei condannati. Il che significa, da un lato, riconoscere che il carcere separato dalla società dei liberi può svolgere una funzione rieducativa solamente se pone le basi per il processo di reinserimento del condannato; dall’altro, superare da parte dello Stato l’atteggiamento paternalistico insito nel concetto tradizionale di rieducazione, prefigurando quella nozione di trattamento sviluppatasi più recentemente che lo concepisce come offerta di servizi di reinserimento liberamente accettata da parte del recluso[27].

3. I personaggi protagonisti del campo giuridico del penitenziario

«Le storie sono generalmente costruite sui personaggi. Finito un libro, talvolta ne dimentichiamo la trama, ma ci restano nel cuore i suoi protagonisti»[28]. Quali sono i personaggi protagonisti della riforma del 1975? Quando parliamo di personaggi nei testi giuridici ovviamente non facciamo riferimento a persone in carne ed ossa prodotte dalla fantasia dello scrittore[29], ma a figure socio-istituzionali che rappresentano ruoli formali ben consolidati nella particolare narrazione del mondo che viene prodotta dal diritto. Di tali figure, alcune sono presenti in pressoché tutti i testi normativi di tipo giuridico, altre sono peculiari al contesto socio-istituzionale sul quale interviene la specifica normativa. Della prima categoria fanno parte figure come quella del legislatore, del giudice, della Pubblica Amministrazione chiamata ad attuare la norma; della seconda, nello specifico della riforma del 1975, figure come quelle del detenuto, del personale addetto alla custodia, della scienza penitenziaria. Con la lista dei personaggi, tra l’altro, è possibile anche definire il campo entro il quale si svolge la storia, utilizzando la nozione di campo elaborata di Pierre Bourdieu, con la quale già in altra occasione ho avuto modo di affrontare il tema della riforma dell’ordinamento penitenziario[30].

Sulla figura del legislatore occorre fare una precisazione: il legislatore può essere considerato un personaggio della storia? Non ne è forse l’autore stesso, essendo il soggetto che produce il testo? In effetti se andiamo ad esaminare gran parte dei testi normativi, la figura del legislatore può essere comparata a quella del narratore onnisciente che si pone come osservatore al di sopra delle parti, che conosce e descrive le situazioni e i personaggi con maggior profondità di quanto possano fare essi stessi e che esprime liberamente valutazioni e giudizi secondo i propri principi. In narratologia si afferma che si tratta di un narratore extradiegetico-eterodiegetico nel senso che non solo il narratore non compare nella storia narrata, ma anche l’atto del narrare si situa al di fuori dello spazio del racconto stesso[31].

Se questa è la posizione del legislatore nella narrazione giuridica, diventa interessante per il sociologo del diritto andare ad analizzare come il narratore onnisciente costruisca i tratti dei personaggi del racconto e le relazioni che devono intercorrere tra di essi. Il contenuto narrativo del testo normativo in questa prospettiva è assai significativo per ricostruire dinamiche socio-istituzionali complesse e spesso con radici storiche molto profonde; radici che lasciano tracce nelle parole della legge. Se prendiamo in esame il testo della riforma del 1975 in questa prospettiva, vediamo emergere immediatamente un elemento che è stato sottolineato anche da alcuni commentatori che hanno prodotto a loro volta delle narrazioni interpretative di natura giuridica: l’atteggiamento del legislatore nei confronti dell’amministrazione penitenziaria. È quanto mai significativa da questo punto di vista l’analisi del testo prodotta da Elvio Fassone: «il quadro complessivo è quello di una netta presa di coscienza, da parte del Parlamento, dell’entità del problema penitenziario e dei contenuti garantistici che esso implica. (…) [I]n questa pretesa di disciplinare per legge la materia, e di disciplinarla con eccezionale minuzia, traspare sia una rivendicazione di prerogative parlamentari quando sono in gioco interessi fondamentali della persona, sia un latente antagonismo con l’amministrazione, che di essi non è stata esemplare garante»[32]. Questo “latente antagonismo” spiega una caratteristica testuale della riforma che potrebbe a tutta prima essere considerata una contraddizione del legislatore. Abbiamo visto nel paragrafo precedente come l’intento normativo fosse quello di adeguare l’ordinamento penitenziario ai principi costituzionali e che per raggiungere tale obiettivo si sia fatto ampio riferimento, nei primi articoli della riforma, ad enunciati estremamente generali ed astratti. Tale parte del testo normativo appare alquanto dissonante rispetto alla parte quantitativamente più corposa della riforma che, invece, consiste in una dettagliata descrizione (con relative prescrizioni) degli aspetti più minuziosi della vita all’interno di un’istituzione totale: dalle caratteristiche di arredo e luminosità delle celle alle modalità delle perquisizioni personali, dal vestiario dei detenuti alle loro dotazioni per l’igiene, arrivando a regolare l’uso del rasoio elettrico! Tale apparente contraddizione si spiega proprio con l’atteggiamento di diffidenza con cui il narratore-legislatore tratteggia implicitamente la figura dell’amministrazione penitenziaria percepita in sintesi come un apparato che non ha per nulla assimilato la svolta culturale dei principi costituzionali dell’art. 27, principi che pongono al centro dell’istituzione penitenziaria la figura del detenuto-soggetto di diritto. Vi sono evidentemente solide ragioni storiche che spiegano tale diffidenza. Chi ha studiato la storia del carcere moderno in Italia non ha potuto non sottolineare «la forma e la continuità, sul terreno burocratico, organizzativo e amministrativo, delle strutture penitenziarie, che sembrano vivere di un’esistenza propria, di una forza di inerzia che trae ragione dal meccanismo che regola la gestione degli istituti carcerari, sia nei rapporti tra custodi e custoditi, sia nelle relazioni interne tra le gerarchie amministrative»[33]. Una continuità burocratica che ha segnato tutti i passaggi di rottura istituzionale della storia del Belpaese e rispetto alla quale, come ho già ricordato, non ha fatto eccezione l’avvento del periodo repubblicano dopo la caduta del regime fascista. A fronte di questa resistenza dell’amministrazione penitenziaria nel far proprie le scelte dei Costituenti, il legislatore del 1975 adotta una strategia narrativo-normativa, rivelatasi peraltro sostanzialmente velleitaria, tesa a ridurre quanto più possibile la sfera di discrezionalità del destinatario del messaggio normativo nell’intento di fornire maggior cogenza alle prescrizioni inserite nella riforma.

Il narratore-legislatore quindi disegna la figura dell’amministrazione come un personaggio sostanzialmente infido rispetto all’intento riformatore della legge, a cui occorre rivolgersi direttamente per evitare che frapponga a tale intento delle strategie dilatorie in grado di vanificare ogni elemento innovativo della legge stessa. Le tracce lasciate sul testo normativo da tale punto di vista sono innumerevoli, ma in particolare va sottolineato un radicale mutamento di prospettiva nel racconto del mondo carcerario rispetto al precedente regolamento penitenziario del 1931. Il regolamento espressione della cultura giuridica dominante in epoca fascista, infatti, poneva al centro della scena proprio l’amministrazione penitenziaria come personaggio-protagonista a cui spettava il compito di far eseguire gli obblighi imposti alla persona detenuta. Ciò derivava dalla natura giuridica stessa del testo normativo che, essendo di tipo regolamentare, rappresentava una norma interna all’organizzazione della Pubblica Amministrazione che ribadiva «il tradizionale privilegio di disciplinare autonomamente i suoi interna corpora e di farsi arbitra di delineare lo stato giuridico del cittadino che entra in rapporto con essa»[34]; rapporto ancor più sbilanciato a favore della parte pubblica nel caso del detenuto, il cui status giuridico di soggetto titolare di tutti i diritti compatibili con la sua condizione di reclusione non era all’epoca per nulla riconosciuto[35]. Quindi la narrazione del legislatore del 1931 è tutta incentrata sulla descrizione dei comandi e dei divieti a cui il recluso deve sottostare nella sua vita detentiva a partire dall’art. 1 che istituisce l’obbligo del lavoro («in ogni stabilimento carcerario le pene si scontano con l’obbligo del lavoro»). Ma è in particolare il capitolo III intitolato «Norme di condotta dei detenuti» che è letteralmente intessuto di ordini e proibizioni: dal dovere di obbedienza assoluta agli operatori penitenziari («i detenuti debbono obbedire prontamente e rispettosamente senza fare osservazioni di sorta agli impiegati, agli agenti di custodia ed alle persone addette allo stabilimento», art.79) a come i detenuti devono passeggiare nell’ora d’aria («i detenuti devono passeggiare in buon ordine, soli o a tre a tre, ovvero star seduti, e parlare a voce bassa», art. 76, co. 4); dall’obbligo di non lasciare il proprio posto («il detenuto non può lasciare il posto assegnatogli senza essere accompagnato da un agente di custodia», art. 80, co. 1) a quello di comunicare con chiunque se non a bassa voce («sono assolutamente proibiti i canti, le grida, le parole scorrette, le domande e i reclami collettivi, e ogni discorso in linguaggio convenzionale o comunque non intellegibile», art. 86). Si arriva sino all’inversione del principio di legalità, valevole per ogni libero cittadino, per il quale tutto ciò che non è espressamente vietato è permesso: «i giuochi ed ogni altra occupazione non espressamente consentiti dai regolamenti sono proibiti» (art. 93)».

Nella riforma del 1975 questa prospettiva narrativa è ribaltata, in quanto per la gran parte il testo non si rivolge più alla persona condannata, ma direttamente all’amministrazione penitenziaria come soggetto che è tenuto a realizzare, a garantire, ad assicurare, a consentire. Tale impostazione emerge sin dall’art. 1 («Il trattamento penitenziario deve essere conforme … e deve assicurare …», «il trattamento degli imputati deve essere …»), ma ritorna in moltissimi altri articoli: «gli istituti penitenziari devono essere realizzati (…) devono essere dotati …» (art. 5); «i locali nei quali si svolge la vita dei detenuti e degli internati devono essere … devono essere tenuti …» (art. 6); «l’abito fornito agli imputati deve essere …» (art. 7); «è assicurato ai detenuti e agli internati l’uso adeguato …» (art. 8); «ai detenuti e agli internati è assicurata … devono sempre avere a disposizione …» (art. 9); «gli istituti devono inoltre essere forniti …» (art. 12); «il trattamento penitenziario deve rispondere ai particolari bisogni … deve essere favorita la collaborazione dei condannati …» (art. 13); «il numero dei detenuti e degli internati negli istituti e nelle sezioni deve essere limitato …» (art. 14); «la finalità di reinserimento sociale dei condannati e degli internati deve essere perseguita …» (art. 17); «l’organizzazione e i metodi di lavoro penitenziario devono riflettere quelli …» (art. 20). E si potrebbe continuare. In altri luoghi del testo ci si limita a descrivere la condotta o la situazione desiderata senza utilizzare operatori deontici dando per implicito l’obbligo dell’amministrazione di attivarsi per rispettare quelle indicazioni: «i detenuti e gli internati sono chiamati o indicati con il loro nome» (art. 1); «ciascun detenuto o internato dispone di adeguato corredo …» (art. 6); «ciascun soggetto è fornito di biancheria …» (art. 7).

A contrario, sono molto più rare le situazioni in cui il narratore-legislatore si rivolge al detenuto ponendogli direttamente degli obblighi. Lo stesso art. 32, quello in cui maggiormente permane un’inflessione imperativistica nei confronti dei reclusi, nel senso che prevede che «essi devono osservare le norme e le disposizioni che regolano la vita penitenziaria … devono avere cura degli oggetti messi a loro disposizione … sono tenuti»a risarcire eventuali danni arrecati a tali oggetti, si apre col primo comma nel quale viene garantita all’entrata in istituto, «e, quando sia necessario, successivamente», l’informazione relativa alle «disposizioni generali e particolari attinenti ai loro diritti e doveri, alla disciplina e al trattamento». A conferma di tale impostazione, esistono altri luoghi della riforma in cui l’operatore deontico “potere” si riferisce al soggetto recluso e non all’amministrazione penitenziaria come avveniva nel regolamento del 1931: «i detenuti e gli internati possono essere ammessi a far uso di corredo …» (art. 7); «può essere consentito l’uso di rasoio elettrico personale» (art. 8); «ai detenuti e agli internati è consentito l’acquisto …» (art. 9). Sino ad arrivare a prevedere per il detenuto dei veri e propri poteri di controllo, come nell’appena citato art. 9, dove sue rappresentanze, seppure designate mensilmente solo per sorteggio[36], «controlla[no] l’applicazione delle tabelle e la preparazione del vitto».

A tutto questo va aggiunto che il racconto della riforma prevede l’entrata in scena di un personaggio relativamente nuovo[37] nel campo giuridico del penitenziario: la magistratura di sorveglianza. La riforma del 1975, infatti, prima istituisce all’art. 68 gli Uffici di Sorveglianza e, nell’articolo successivo, racconta di un magistrato di sorveglianza che «vigila sulla organizzazione degli istituti di prevenzione e di pena e prospetta al Ministro le esigenze dei vari servizi, con particolare riguardo alla attuazione del trattamento rieducativo” ed “esercita, altresì, la vigilanza diretta ad assicurare che l'esecuzione della custodia degli imputati sia attuata in conformità delle leggi e dei regolamenti». Tale personaggio si colloca perfettamente nella linea narrativa che ho descritto, in quanto rappresenta la figura che con la sua terzietà, da un lato, ribadisce la piena qualità di soggetto di diritto del recluso e, dall’altro, impersona l’istanza indipendente dal potere dell’amministrazione penitenziaria in grado di attenuare il suo tradizionale dispotismo nei confronti della popolazione reclusa. Che questo controllo giurisdizionale sia rimasto molto “sulla carta”[38], per una serie di ragioni che qui non è possibile approfondire, non deve sminuire il significato storico dell’ingresso sulla scena del dibattito pubblico relativo al carcere di un personaggio come quello del giudice che, almeno potenzialmente, può mettere sul banco degli imputati la stessa amministrazione penitenziaria, in un capovolgimento dei ruoli rispetto alla popolazione detenuta che si era verificato solamente nel mondo virtuale dei prison movies[39].

4. Il profilo del personaggio-detenuto

Ma qual è il profilo del recluso che emerge dal racconto della riforma? Si tratta di un recluso assai diverso da quello con cui ci siamo ormai assuefatti nel corso del XXI secolo in seguito al progressivo diffondersi della cd detenzione sociale. Una storia della popolazione detenuta dell’Italia unita non è ancora stata scritta e il campo di ricerca appare qui vastissimo e ampiamente inesplorato, tuttavia, alcuni elementi si possono desumere dalle dinamiche socio-culturali più complessive. In tale prospettiva, occorre sottolineare, che il legislatore degli anni Settanta aveva come riferimento una popolazione reclusa che, seppure caratterizzata come quella di oggi (e, considerando la storia del carcere, potremmo dire da sempre) dall’appartenenza a gruppi sociali marginali e collocati ai livelli più bassi della gerarchia sociale, costituiva un aggregato di individui con forti elementi di solidarietà interna[40]; con relativamente solidi legami con la realtà esterna dovuta, se non altro, al fatto che pressoché tutti i reclusi erano cittadini e radicati socialmente in Italia; con un diffuso atteggiamento rivendicativo nei confronti dell’istituzione penitenziaria che, in alcuni settori più politicizzati, poteva arrivare alla vera e propria ostilità ideologica fondata sulla denuncia del suo carattere classista. Il carcere “pacificato”[41] degli anni Cinquanta, infatti, si era trasformato nel carcere delle rivolte che, a partire dal biennio 1968-1969, segnarono profondamente anche il dibattito sulla riforma. Riforma che, peraltro, rispetto alla ricostruzione del personaggio-detenuto, pare non risentire troppo di tale emergenza che segnerà invece il periodo immediatamente successivo alla sua approvazione[42]. Come detto, infatti, il recluso non solamente viene tratteggiato quale soggetto titolare di diritti che l’amministrazione deve garantirgli, ma anche quale individuo che deve essere considerato pienamente adulto[43] e che anzi la vita detentiva deve contribuire a responsabilizzare. Il racconto della riforma sembra affrontare punto per punto quegli elementi che la scienza penitenziaria[44] ha indicato come gli effetti perversi della prigionizzazione dell’individuo di clemmeriana memoria, proponendo per ognuno di essi delle contromisure di carattere pratico e organizzativo.

Alla spersonalizzazione e alla perdita d’identità prodotti dai rituali di degradazione tratteggiati per tutte le istituzioni totali da Goffman, si adottano precauzioni come l’essere chiamati col proprio nome (art. 1), il poter disporre di oggetti e corredo di proprietà «che abbiano particolare valore morale e affettivo» (art. 7), il poter mantenere il controllo del proprio aspetto attraverso il taglio dei capelli e della barba che «può essere imposto soltanto per particolari ragioni igienico-sanitarie»(art. 8).

Al principio dell’isolamento che da sempre era stato un caposaldo del sistema carcerario moderno[45], si risponde con l’adozione di un regime di reclusione in cui i momenti di vita in comune sono numerosi: dalla definizione delle celle come «locali di pernottamento» (art. 6) e quindi pensate come luoghi nei quali non si trascorre che le ore notturne, alla permanenza all’aperto che deve essere effettuata di regola “in gruppi” (art. 10); dalle strutture penitenziarie che devono essere dotate “di locali per lo svolgimento di attività in comune» (art. 5) e di «attrezzature per lo svolgimento di attività lavorative, di istruzione scolastica e professionale, ricreative, culturali e di ogni altra attività in comune» (art. 12) alla partecipazione a commissioni in cui i reclusi svolgono funzioni di controllo e di cogestione di particolari attività della vita carceraria, quali il servizio biblioteca (art. 12), la qualità e la preparazione del vitto (art. 9), l’organizzazione di attività culturali, ricreative e sportive (art. 27).

Al processo di deculturazione a cui è tipicamente sottoposta la cd subcultura carceraria, si rimedia con una concezione molto avanzata dell’istruzione in carcere che capovolge l’impostazione tradizionale del regolamento del 1931 in cui svolgeva, insieme al lavoro e alla religione, il ruolo di salutare medicamento rispetto ai deficit del condannato percepito come ignorante, ozioso e miscredente. Una concezione che, in sintesi, ha «preso atto che l’istruzione ha poca efficacia risocializzante, specie in persone adulte, se non tende a risolversi in capacità critica, e quindi in cultura»[46]. In tale prospettiva, ecco che «la formazione culturale e professionale» è esplicitamente valorizzata e distinta dall’istruzione scolastica (art. 19), le attività culturali hanno un ulteriore specifico richiamo e sono promosse da una commissione a cui partecipano gli stessi detenuti (art. 27), si precisa il diritto dei reclusi «a tenere presso di sé i quotidiani, i periodici e i libri in libera vendita all’esterno e di avvalersi di altri mezzi di informazione» (art. 18)[47], ogni istituto deve essere dotato di “biblioteca costituita da libri e periodici” e tale servizio è l’unico in cui si prevede la partecipazione di rappresentanti dei detenuti per la sua gestione (art. 12).

Il progressivo allontanamento dal proprio contesto sociale del recluso prigionizzato viene contrastato con il coinvolgimento pieno della società esterna nel processo di risocializzazione e si tendono quanto più possibile a favorire i contatti con l’esterno. Emerge qui, più che su altri temi, un non-detto della narrazione del mondo carcerario: la strutturale difficoltà a conciliare il carcere con la funzione risocializzativa della pena[48]. È del tutto evidente che voler risocializzare il condannato dovendo separarlo, anche materialmente, dal contesto in cui ha sin lì vissuto appare una contraddizione non facilmente eludibile. In ogni caso, il narratore-legislatore del 1975 immagina al proposito delle misure, potremmo dire, di riduzione del danno: in ben 9 articoli dedica citazioni al mantenimento dei legami familiari del recluso; inserisce un intero articolo sulla «partecipazione della comunità esterna all’azione rieducativa» dove racconta che «sono ammessi a frequentare gli istituti penitenziari (…) tutti coloro che avendo concreto interesse per l’opera di risocializzazione dei detenuti dimostrino di poter utilmente promuovere lo sviluppo dei contatti tra la comunità carceraria e la società libera»; tra questi esterni, istituisce la figura dell’assistente volontario che può partecipare alle attività di «sostegno morale» e «di futuro reinserimento sociale» dei reclusi (art. 78) e quella del Consiglio di aiuto sociale nel quale sono rappresentati sia gli enti locali che altri soggetti della società civile (art. 74); i trasferimenti, e quindi la stessa scelta dell’istituto penitenziario in cui scontare la pena, devono tener conto della prossimità del luogo di residenza del condannato (art. 42); l’attività di istruzione scolastica può avvenire attraverso la frequenza di corsi «per corrispondenza, per radio e per televisione» (art. 19), quindi attraverso quegli strumenti di comunicazione con l’esterno che per il carcere avevano costituito per molto tempo una specie di tabù. Ecco quindi emergere nella narrazione della riforma un altro personaggio, la società esterna al carcere, dipinto come un soggetto che deve prendere coscienza del suo ruolo essenziale nella risocializzazione del condannato, attraverso il superamento della concezione secondo la quale unico responsabile del reato è l’individuo che lo ha commesso e non invece anche il contesto sociale che ha reso possibili le condizioni che hanno condotto l’individuo a delinquere. Tema molto dibattuto in quegli anni e, come vedremo nelle conclusioni, quasi totalmente rimosso dalla cultura giuridica interna ed esterna del XXI secolo in seguito alla svolta securitaria registratasi a partire dagli anni Ottanta.

Conclusioni

A quali conclusioni è possibile giungere dall’esame “letterario” della riforma del 1975? In estrema sintesi: la narrazione che emerge da tale riforma fa parte a pieno titolo di quella che è stata chiamata l’epoca dell’assistenzialismo penale[49]. Non esistono ricerche che si siano poste la questione dell’applicabilità alla situazione italiana di questa ricostruzione storica delle politiche sulla penalità elaborata per il mondo anglosassone[50], ma certamente l’analisi della narrazione che emerge dalla riforma dell’ordinamento penitenziario può rappresentare un indizio significativo nella direzione di una risposta affermativa a tale domanda. Con qualche discrasia temporale, i fenomeni politico-culturali infatti impiegano qualche tempo ad attraversare l’Oceano Atlantico[51], ritroviamo nel racconto della riforma molti elementi essenziali dell’assistenzialismo penale. Tra tutti quelli che si potrebbero indicare[52], per l’economia del discorso, ne voglio sottolineare solamente uno: la cultura della non colpevolezza. Si tratta, come noto, di una espressione di Mary Douglas che designa quel particolare atteggiamento nei confronti del crimine prevalente in società fondate su forti vincoli di mutuo-aiuto e di reti comunitarie sorrette dalla fiducia reciproca tra i membri. In queste società si tende a non enfatizzare la responsabilità individuale per i danni prodotti dalla violazione delle regole, ma piuttosto ad elaborare dei meccanismi restitutivi e risarcitori su cui le vittime possono fare affidamento. Di qui il prevalere di un racconto del crimine che ne fa emergere gli aspetti di responsabilità collettiva che ogni atto deviante porta con sé.

Il racconto che il narratore-legislatore del 1975 fa del mondo carcerario e dei personaggi che lo popolano parte proprio da questo presupposto di responsabilità collettiva verso il condannato. Invece di concentrare l’attenzione sugli obblighi e sui doveri che incombono sull’individuo che ha commesso il reato, il narratore si rivolge in primo luogo all’amministrazione penitenziaria come soggetto che è tenuto ad operare nella logica di un tempo della pena utilizzato per la sua risocializzazione, alla magistratura di sorveglianza come un organo di garanzia e di tutela contro possibili arbitrii e discriminazioni, alla società esterna come contesto che deve assumersi pienamente la responsabilità collettiva del disagio sociale che il comportamento deviante ha rivelato. Questa narrazione è figlia di un periodo storico in cui, come ha efficacemente intuito Massimo Pavarini, tutto il sistema politico del cd arco costituzionale, al di là delle contrapposizioni ideologiche degli schieramenti, era consapevole dei nessi esistenti tra questione criminale e questione sociale (che nello specifico della storia italiana è andata a sovrapporsi e ad affiancarsi a quella meridionale). Questo ha consentito, «per lungo tempo e diversamente da quanto è dato registrare in altre realtà nazionali, [che] i sentimenti collettivi di insicurezza hanno avuto modo di esprimersi come domanda politica di cambiamento e di più intensa partecipazione democratica. Vale a dire che la comunicazione sociale attraverso il vocabolario della politica ha favorito una costruzione sociale del disagio e del conflitto al di fuori delle categorie morali della colpa e della pena»[53]. Oggi, che tale comunicazione sociale e tale vocabolario politico sono ormai un ricordo del passato, guardiamo al racconto della riforma del 1975 con la nostalgia riservata alle narrazioni di quella società del dopoguerra che aveva promesso a tutti inclusione e benessere economico, ben consapevoli che solo recuperando quello spirito del tempo sarà possibile dare piena attuazione ai principi a cui la nostra Costituzione si è ispirata nel regolare l’esecuzione della sanzione penale.

[1] M. Hespanha, La cultura giuridica europea, il Mulino, Bologna, 2013, p. 19 (il corsivo è mio).

[2] Tale processo, come noto oggetto di studio specifico della sociologia del diritto, è quanto mai significativo nel caso delle norme giuridiche che regolano il mondo penitenziario, da sempre refrattario a rispondere alla limpida grammatica del diritto.

[3] E. Cantarella, Premessa, in E. Cantarella, L. Gagliardi (a cura di), Diritto e teatro in Grecia e a Roma, Roma, LED, 2007, p. 10.

[4] Si pensi allo spettacolo teatrale-televisivo La più bella del mondo che Roberto Benigni ideò e mise in scena nel dicembre 2012 per celebrare la Costituzione italiana leggendo e commentando 12 dei suoi articoli.

[5] È il caso ad esempio dell’ultima opera teatrale di Dario Fo e Piero Sciotto, Ciulla il grande malfattore, Guanda, Milano, 2014, in cui si rievoca la vicenda di Paolo Ciulla, anarchico e falsario siciliano di fine ottocento, attraverso un ampio uso dei verbali del processo penale («Non abbiamo toccato affatto i verbali del processo, un formidabile pezzo di teatro» ha dichiarato in un’intervista al quotidiano La Stampa lo stesso Fo).

[6] A tal proposito, mi permetto di rinviare ad una pièce teatrale La carogna da dentro a me (Torino, Edizioni Gruppo Abele, 2012 con postfazione di M. Palma), che ho tratto, in modo pressoché letterale, da una sentenza penale sulle torture subite da due detenuti in un carcere del Nord Ovest italiano nel dicembre 2004.

[7] Il riferimento è qui ad un primo abbozzo di tale teoria elaborato da Maria Paola Mittica in Raccontando il possibile. Eschilo e le narrazioni giuridiche, Milano, Giuffrè, 2006, in particolare p. 38 ss. La tripartizione qui citata è peraltro ripresa dal lavoro di analisi del linguaggio giuridico di Bice Mortara Garavelli, Le parole e la giustizia. Divagazioni grammaticali e retoriche su testi giuridici italiani, Einaudi, Torino, 2001, p. 25 ss.

[8] Questa chiusura, come è noto a sociologi e antropologi del diritto, è spesso solo formale, in quanto anche le sentenze passate in giudicato non sono che capitoli di una narrazione che danno vita a loro volta ad ulteriori racconti giuridici ufficiali e non ufficiali.

[9] F. Di Donato, F. Scamardella, Epistemologia e processo: un approccio di Socio-clinical Law per l’analisi narrativa di casi giudiziari, “Sociologia del diritto”, 3, 2013, p. 94. Cfr. anche sempre di Flora Di Donato, La costruzione giudiziaria del fatto. Il ruolo della narrazione nel processo, Milano, F. Angeli, 2008.

[10] Questo elemento peraltro era molto più presente nel periodo storico di cui stiamo parlando, ovvero la cd Prima Repubblica, di quanto non sia avvenuto negli ultimi anni con un sistema politico sempre più omologato al chiacchiericcio del circuito mediatico. Chiunque abbia anche solo sommariamente avuto modo di comparare i resoconti dei lavori parlamentari degli anni ’60 e ’70 con quelli del XXI secolo sa perfettamente di cosa sto parlando.

[11] Si tratta di una rete museale di prossima costituzione presso la Regione Piemonte che mette in comunicazione alcune realtà museali che riguardano la storia della penalità (dal Museo della memoria carceraria di Saluzzo al Museo di Antropologia Criminale Cesare Lombroso di Torino, dal Museo del carcere Le Nuove di Torino al Forte di Fenestrelle) e che ha deciso di dedicare al quarantennale della riforma dell’ordinamento penitenziario le sue attività espositive, convegnistiche etc. per l’anno 2015.

[12] Cfr. L. Ferrajoli, La cultura giuridica nell’Italia del Novecento, Roma-Bari, Laterza, 1996, p. 68 e ss. Si tratta della ricostruzione più completa ed affidabile delle vicende della cultura giuridica italiana del XX secolo da cui attingerò ampiamente nel corso del presente lavoro. Tra l’altro, tale ricostruzione avrebbe potuto fare da quadro teorico ad una ampia gamma di studi di dettaglio sulla cultura giuridica italiana (sia interna che esterna), studi che peraltro non sembrano essere molto praticati dagli storici e dai sociologi del diritto italiani.

[13] Ivi, pp. 69-70.

[14] C. G. De Vito, Camosci e girachiavi. Storia del carcere in Italia, Laterza, Bari-Roma, 2009, p. 29.

[15] Per simile impostazione giurisprudenziale cfr. per tutte, la sentenza della Corte Cost. n. 72 del 1968 in relazione all’art. 142 del Regolamento penitenziario del 1931, nella quale si afferma esplicitamente che tale regolamento «non è un atto avente forza di legge. Esso è infatti intitolato regolamento concernente il funzionamento degli istituti di prevenzione e pena, ma quel che al caso più importa, è che la natura rivelata dalla denominazione, trova conferma nel preambolo del decreto» (cfr. http://www.giurcost.org/decisioni/1968/0072s-68.html).

[16] Per segnalare tale alternanza di impostazione che si sono susseguite in breve decorso di tempo si possono indicare la circolare del ministro democristiano Adone Zoli del 1951 che eliminò una considerevole serie di divieti del regolamento del 1931 e, tre anni dopo, quella “restauratrice” del Guardasigilli del Governo Scelba, Michele De Pietro, che segnò un deciso passo indietro rispetto alla sfera dei diritti delle persone recluse (cfr. C. G. De Vito, op. cit., pp. 26 ss.).

[17] B. Mortara Garavelli, op.cit., p. 76.

[18] Come noto, il processo di codificazione e quello di costituzionalizzazione del diritto moderno sono strettamente legati (cfr. per tutti. G. Tarello, Storia della cultura giuridica moderna. Assolutismo e codificazione, il Mulino, Bologna, 1976, p. 22 ss.). Ci sarebbe da riflettere, inoltre, sul fatto che così come per la storia della letteratura il romanzo ha rappresentato il modello per antonomasia delle forme espressive ottocentesche, la costituzione e il codice hanno svolto questo ruolo per il linguaggio giuridico di quel periodo. E non è probabilmente casuale che tutte e tre queste forme di linguaggio siano entrate in crisi con lo scolorire della modernità.

[19] L’analisi viene qui limitata al testo originale del 1975 senza tener conto delle successive modifiche (molto importanti soprattutto quelle del 1986 da parte della cd legge Gozzini) e aggiunte di articoli bis, ter, quater etc. Quando ci avviciniamo all’oggi tra l’altro il linguaggio del legislatore diventa involuto, poco chiaro, inutilmente prolisso allo stesso modo come è avvenuto per la nostra Costituzione (si veda il «nuovo” articolo 111 sul giusto processo«).

[20] Elvio Fassone fa rientrare in questa prospettiva anche la scelta di aver utilizzato lo strumento normativo «di una legge discussa e votata dal Parlamento, con ripudio non solo della precedente disciplina regolamentare, ma anche della tecnica non inconsueta della legge delega» (Id., La pena detentiva in Italia dall’800 alla riforma penitenziaria, il Mulino, Bologna, 1980, p. 147).

[21] Cfr. C. G. De Vito, op. cit., pp. 46-47.

[22] M. T. Serafini, Come si legge (e scrive) un racconto, Bompiani, Milano, 2009, p. 30.

[23] E. Fassone, op.cit., p. 147.

[24] Come ha osservato B. Mortara Garavelli, op. cit., p. 150, il Costituente ha quasi sempre utilizzato la formula negativa (come appunto nell’art. 27, «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità …») piuttosto che i verbi vietare o proibire.

[25] E. Fassone, op. cit., p. 158.

[26] In particolare, sono significativi gli interventi di Aldo Moro e Giovanni Leone che temevano che un richiamo esplicito alla funzione rieducativa della pena potesse legittimare la scuola positivistica del diritto penale e mettere in secondo piano l’impianto retributivistico e in senso lato liberale del codice penale Rocco Cfr. E. Fassone, op. cit., p. 126, nota 187.

[27] Si tratta di una concezione che supera almeno in parte anche il cd modello del deficit che partiva dal presupposto della persona condannata come soggetto debole e privato delle risorse necessarie per sfuggire alle “tentazioni” della strada del crimine.

[28] M.T. Serafini, op. cit., p. 34.

[29] Di qui lo scandalo che nella nostra cultura giuridica interna ed esterna ancora producono le cd leggi ad personam.

[30] Non posso su questo che rimandare alle considerazioni svolte in C. Sarzotti, Campo giuridico del penitenziario: appunti per una ricostruzione, in E. Santoro (a cura di), Il diritto come questione sociale, Torino, Giappichelli, 2010, pp. 181-238.

[31] Questa classificazione, ormai classica, è stata elaborata dal narratologo strutturalista francese Gérard Genette (cfr. Id., Figure III. Discorso del racconto, Torino, Einaudi, 1976).

[32] E. Fassone, op. cit., p. 148.

[33] G. Neppi Modona, Carcere e società civile, in Storia d’Italia, Documenti, vol. V, t. II, Torino, Einaudi, 1973, p. 1907.

[34] E. Fassone, op. cit., p. 152.

[35] Come noto, tale status sarà riconosciuto molto più recentemente e in via definitiva solamente con la celebre pronuncia della Corte Costituzionale n. 26 del 1999, redattore Gustavo Zagrebelsky (cfr. http://www.giurcost.org/decisioni/1999/0026s-99.html).

[36] Come noto, venne adottato il metodo del sorteggio e non dell’elezione dei rappresentanti per evitare di fornire elementi per la costruzione di gerarchie interne alla popolazione reclusa. Cfr. E. Fassone, op. cit., p. 224.

[37] Esisteva già con il codice penale Rocco la figura del giudice di sorveglianza le cui funzioni erano dettagliatamente previste dall’art. 4 del regolamento penitenziario del 1931.

[38] È un fatto molto significativo che la pronuncia giurisprudenziale che in questi anni ha influenzato maggiormente l’operato dell’amministrazione penitenziaria sia giunta da un organo giurisdizionale sovranazionale come la Corte europea dei diritti dell’uomo con la nota sentenza Torreggiani del gennaio 2013 e che ancora oggi ci si ponga il problema in dottrina e in giurisprudenza dell’inottemperanza dell’amministrazione penitenziaria ai provvedimenti dei giudici (cfr. per tutti A. Marcheselli, La tutela dei diritti dei detenuti alla ricerca di una effettività. Una ordinanza “rivoluzionaria” della Corte costituzionale, in “Rassegna Penitenziaria e Criminologica”, 3, 2010, pp. 95-106).

[39] L’analisi di questo genere cinematografico ha infatti mostrato come esso si fondi su un capovolgimento dei ruoli vittima-carnefice, in cui il recluso diventa vittima di un sistema penitenziario corrotto e sprezzante della legalità. Cfr. C. Sarzotti, G. Siniscalchi, Il carcere e la dis-misura della pena. Una ricerca sulle locandine cinematografiche dei prison movies, in A. C. Amato Mangiameli, C. Faralli, M. P. Mittica (a cura di), Arte e limite. La misura del diritto, Roma, Aracne ed., 2012, pp. 341-367; Id., Le locandine dei prison movies. Messaggi normativi e sentimenti giuridici, in C. Faralli, V. Gigliotti, P. Heritier, M.P. Mittica (a cura di), Il diritto tra testo e immagine. Rappresentazione ed evoluzione delle fonti, Milano-Udine, Mimesis, 2014, pp. 191-212.

[40] Solidarietà rafforzata, tra l’altro, dall’assai diffusa provenienza dalle regioni meridionali dello Stivale, come ricorda Massimo Pavarini analizzando i dati statistici carcerari del secondo dopoguerra. Cfr. Id., La criminalità punita, in Storia d’Italia, Annali 12, La criminalità, Torino, Einaudi, 1997, p. 1024.

[41] Il termine è coniato da C. De Vito, op. cit., p. 34 ss.

[42] Come noto, la svolta securitaria sulle politiche penitenziarie avvenne addirittura prima dell’emanazione della riforma a partire dai fatti sanguinosi della rivolta al carcere di Alessandria del maggio 1974 per poi prendere definitivamente piede negli anni di piombo e degli istituti di massima sicurezza per detenuti politici. Cfr. ivi, p. 76 ss.

[43] Ciò in contrapposizione a quel processo di infantilizzazione che è uno degli aspetti centrali degli effetti di prigionizzazione sulle persone recluse teorizzati sin dalle ricerche di Donald Clemmer. Tale processo è stato analizzato anche dal punto di vista delle narrazioni letterarie e cinematografiche sul mondo del carcere, cfr. J. Alber, Narrating the Prison: Role and Representation in Charles Dickens’ novels, twentieth-century fiction and film, Youngstown, N.Y., Cambria Press, 2007, p. 167 ss.

[44] Tale scienza può essere considerata un personaggio occulto, in quanto non compare quasi mai sulla scena (se non nelle figure degli esperti che possono coadiuvare gli operatori nell’attività di osservazione e trattamento ex art. 80, 4° co.), ma con le sue acquisizioni ispira indirettamente il racconto del narratore-legislatore.

[45] La diatriba tra il sistema detentivo filadelfiano e quello auburniano, che affaticò per decenni i penitenziaristi ottocenteschi, aveva «tuttavia una base comune senza la quale nessun sistema penitenziario è possibile: questa base è l’isolamento dei detenuti[, in quanto] la comunicazione tra di loro rende impossibile la riforma morale di questi uomini e costituisce anzi causa di una preoccupante corruzione», come aveva ben intuito Alexis Tocqueville (tr. it. Id. Il sistema penitenziario negli Stati Uniti, in E. Santoro, a cura di, Carcere e società liberale, Torino, Giappichelli, 2004, p. 159).

[46] E. Fassone, op.cit., p. 168.

[47] Sono ancora presenti nella memoria di alcuni agenti di polizia penitenziaria le pratiche di censura della stampa quotidiana precedenti la riforma. Vi erano, infatti, in molti istituti, agenti addetti alla lettura dei quotidiani che avevano il compito di tagliare materialmente gli articoli che apparivano sconvenienti per il loro contenuto politico, di cronaca nera, di riferimenti anche vagamente erotici. Al recluso giungevano in tal modo pagine di quotidiani “colabrodo”, con ampie finestre vuote ritagliate dall’agente censore!

[48] A tal proposito, Elvio Fassone ha parlato giustamente di una «consapevolezza che il legislatore vorrebbe negare con pudore, e che però finisce con l’ammettere in spiragli freudiani» (op. cit., p. 215).

[49] Il riferimento è qui alla ricostruzione più completa e convincente di tale fenomeno storico svolta da David Garland, La cultura del controllo. Crimine e ordine sociale nel mondo contemporaneo, Milano, il Saggiatore, p. 94 ss.

[50] Si pone la domanda, senza peraltro fornire una risposta, Adolfo Ceretti nella prefazione alla traduzione italiana del lavoro di Garland (cfr. op. cit., p. 34).

[51] E, infatti, mentre in Italia l’assistenzialismo penale toccava il suo apice con la riforma dell’ordinamento penitenziario proprio in quegli anni esso entrava in crisi negli Stati Uniti (cfr. D. Garland, op. cit., p. 128 ss.).

[52] Tra gli altri, diffidenza nei confronti della pena detentiva e, allo stesso tempo, un atteggiamento fiducioso rispetto alle capacità risocializzative delle pene alternative; la tendenza del dibattito pubblico a privilegiare i saperi esperti rispetto agli istinti emotivi del circuito mediatico; un ethos delle élite politico-sociali favorevole all’intervento pubblico nell’economia e a politiche di redistribuzione del reddito concepiti come strumenti di riduzione dei fenomeni criminali.

[53] M. Pavarini, op. cit., p. 1030.