Si schiude un nuovo orizzonte per l’esecuzione penale? Delega penitenziaria e Stati generali: brevi considerazioni a margine
Il diktat della Corte europea dei diritti dell’uomo ha generato una stagione di novelle “penitenziarie†approssimative quanto a formulazione tecnica, ma senza dubbio finalizzate al progresso dell’ordinamento. I recenti innesti normativi, tuttavia, non possono essere un punto d’arrivo, ma la premessa di un processo riformatore organico. In questo senso, il disegno di legge delega in materia penitenziaria costituisce un segnale politico di effettiva volontà di riforma, realizzabile nella misura in cui gli Stati generali dell’esecuzione penale sapranno preparare un adeguato e condiviso terreno sociale.
1. Tante sono le cose accadute sotto il cielo penitenziario nella stagione appena trascorsa: tante, importanti e in concitata successione.
Tutto ha avuto inizio con l’umiliante diktat della Corte europea dei diritti dell’uomo (sent. 8 gennaio 2013, Torreggiani ed altri contro Italia), che – avendo riscontrato sia la strutturale carenza degli spazi detentivi, dovuta all’endemico sovraffollamento, sia l’assenza nel nostro ordinamento di efficaci strumenti giuridici per interrompere una violazione in atto dei diritti dei detenuti (cd rimedio preventivo) e per assicurare un’adeguata riparazione del danno derivante dalle condizioni di inumana detenzione (cd rimedio compensativo) – ha assegnato al nostro Paese un anno di tempo, da quando la sentenza fosse divenuta definitiva, per porre rimedio a queste gravi carenze. Ne è seguito un periodo di forte fibrillazione istituzionale, in cui si sono avvicendate due sentenze della Corte costituzionale[1], un Messaggio alle Camere del presidente della Repubblica[2], tre decreti-legge[3].
Le cause che hanno provocato tale fibrillazione – una situazione penitenziaria non più tollerabile e la “scudisciata” etica, prima ancora che giuridica, assestata al nostro Paese dalla Corte di Strasburgo – conferiscono indubbiamente un sapore amaro alle rapsodiche riforme che ne sono scaturite; e l’urgenza con cui si è dovuto provvedere non ha mancato di lasciare traccia nella formulazione tecnica delle norme: spesso approssimativa, talvolta di fattura grossolana.
Nondimeno, pare innegabile che le ultime novelle “penitenziarie” abbiano segnato un rapido e significativo progresso del nostro ordinamento. Il timore, semmai, è che esse costituiscano non già la premessa per un più organico e compiuto sviluppo nella direzione intrapresa, quanto piuttosto una sorta di necessitata “risacca legislativa”, nell’eterno pendolarismo italico.
Le ragioni di pessimismo non mancano e vengono da lontano, presentando la situazione attuale inquietanti somiglianze con altre del passato. È pur vero che le ultime “folate” riformistiche sono state originate, e forse rese possibili, da una situazione d’emergenza, percepita come eccezionale ed inedita. Ma di inedito vi era soltanto il pronunciamento dei giudici di Strasburgo, non certo la condizione carceraria che ad esso aveva dato causa: un disincantato sguardo al passato, infatti, ci rimanda la realtà di un fenomeno che si ripropone con ciclica puntualità. Ed è dato, questo, che ha una precisa valenza culturale. Testimonia la tendenza del nostro potere politico a risolvere ogni reale o supposto motivo di insicurezza sociale ricorrendo allo strumento meno impegnativo, più scontato e più inefficace: aumentare il numero dei reati e l’entità delle pene, diminuendo nel contempo le possibilità di graduale reinserimento del condannato nel consorzio civile. Una politica criminale di tal fatta non può non risolversi in una risposta penale “carcerocentrica”, destinata a produrre un crescente sovraffollamento penitenziario, che fatalmente raggiunge nel volgere di pochi anni livelli intollerabili di insicurezza e di inciviltà. Nel passato meno recente soccorreva in tali evenienze l’istituto dell’amnistia, esso sì, vero e proprio “svuotacarceri”, una sorta di “sfioro” per la demografia penitenziaria quando si superavano, appunto, i livelli di guardia. Non vorremmo, insomma, ora che la strada del provvedimento clemenziale è diventata politicamente molto meno percorribile, che le recenti riforme ne costituiscano soltanto un nobile succedaneo dalla medesima funzione “decongestionante”.
2. In questa prospettiva, il disegno di legge delega per la riforma dell’ordinamento penitenziario (A.C. n. 2798), in discussione alla Camera dei deputati, costituisce un rassicurante segnale politico: sta a significare che le recenti, necessitate riforme non debbono rappresentare un punto di arrivo, bensì soltanto la premessa necessaria, ma insufficiente affinché l’esecuzione della pena possa assolvere la sua tendenziale funzione risocializzativa che la Costituzione le assegna. Il disegno di legge delega, infatti, se pur declinato in criteri direttivi che, per la vaghezza della loro formulazione, assomigliano più ad un ambizioso catalogo di buoni propositi che non a guide operative per il legislatore delegato, sembra decisamente orientare la prua verso i lidi della individualizzazione del trattamento rieducativo e del recupero sociale del condannato. Peraltro, più ancora che il complesso delle prescrizioni dettate per il legislatore delegato, ad indurre qualche speranza è la consapevolezza culturale ad esse sottesa: la necessità di una risistemazione organica dell’Ordinamento penitenziario, si legge nella Relazione accompagnatoria al disegno di legge delega, è dovuta al fatto che «in esso convivono, con inevitabili frizioni interne, l’istanza rieducativa e di risocializzazione con quella di sicurezza sociale, che fin dai primi anni Novanta si è sovrapposta alla prima, piegando alcuni istituti alla funzione di incentivazione della collaborazione con l’autorità giudiziaria ed escludendone altri dal trattamento rieducativo proprio in ragione di un incremento dell’efficacia meramente punitiva dell’esecuzione penale».
Affermazioni di non trascurabile rilievo, che trovano conferma in una spia terminologica. Nella stessa intitolazione del disegno di legge-delega, infatti, c’è una parola dalla forte carica simbolica, che sembra compendiarne ragion d’essere e finalità: «Modifiche … all’Ordinamento penitenziario per l’effettività rieducativa della pena». Effettività, questo termine costituisce per così dire la rilegatura culturale del libro della riforma e ne racchiude l’intero progetto politico: dare reale attuazione ad una funzione per gran parte e per troppo tempo soltanto enunciata. Si tratta, se male non abbiamo inteso, di una presa di posizione culturale della massima importanza. Non si negano le gravissime inadeguatezze della situazione attuale, ma se ne dà una diagnosi diametralmente opposta a quella di chi ascrive l’odierno degrado alla definitiva sconfitta di oltre mezzo secolo di funzione rieducativa della pena e ritiene che d’ora innanzi sarebbe bene abbandonare i suoi chimerici orizzonti per dedicarsi, più realisticamente, a rendere il carcere rispettoso della legalità penitenziaria. Al contrario, se l’esecuzione penale è scivolata verso abissi di intollerabile degrado – è l’implicita risposta politica – non è a causa della ineffabile funzione risocializzativa della pena, bensì della sua inadeguata, troppo flebile e discontinua realizzazione.
3. Se merita sicuro apprezzamento l’an della Delega “penitenziaria”, più chiaroscurale deve essere il giudizio sul quomodo. Ci limitiamo ad alcuni impressionistici rilievi.
In generale, come si diceva, l’attuale formulazione normativa ha un’orditura a maglie eccessivamente lasche, che necessiterebbero di una più stringente messa a fuoco per costituire – come dovrebbero – nitide e vincolanti guidelines per il delegato. Locuzioni quali «maggiore valorizzazione del lavoro» (art. 26 lett. e), «previsione di un più ampio ricorso al volontariato» (art. 26 lett. f), «adeguamento delle norme dell’ordinamento penitenziario alle esigenze rieducative dei detenuti minori di età» (art. 26 lett. i), ad esempio, sono suscettibili di una forbice attuativa troppo ampia, con il rischio persino di legittimare traduzioni normative di segno opposto.
In particolare, poi, i primi due criteri direttivi (semplificazione delle procedure a scapito del contraddittorio e facilitazione del ricorso alle misure alternative), sembrano suggerire l’idea che la concessione delle misure rieducative vada perseguita ad ogni costo, anche depauperando la garanzia giurisdizionale e minimizzando i presupposti di accesso: idea culturalmente controproducente quanto quella, opposta, di pregiudiziale chiusura ad ogni misura alternativa. Sarebbe auspicabile, quindi, rivedere la formulazione di questi due importanti criteri direttivi per renderli coerenti, oltretutto, con quello che a me sembra essere l’ideale punto di fuga di tutti gli altri (eliminazione degli automatismi, previsione di attività di giustizia riparativa, valorizzazione del lavoro, più ampio ricorso al volontariato, utilizzo dei collegamenti audiovisivi per favorire le relazioni familiari, Riconoscimento del diritto all’affettività, adeguamento delle norme alle esigenze rieducativa dei minori): offrire condizioni ed opportunità al condannato che gli consentano, ove lo scelga e responsabilmente vi si impegni, un reale percorso di riabilitazione sociale, un percorso che va attentamente monitorato dagli organi preposti alla giurisdizione rieducativi, in modo da premiarne tutti e soltanto gli effettivi progressi. Diseducative, e dunque contrarie alla vocazione costituzionale delle pene, sarebbero invece sia l’attenuazione quantitativa o qualitativa della risposta sanzionatoria sganciata da ogni positiva evoluzione dell’atteggiamento del condannato, sia – al contrario – la mancata attenuazione quantitativa o qualitativa della risposta sanzionatoria in presenza di una positiva evoluzione dell’atteggiamento del condannato. In altri termini, un sistema rispettoso del “mandato costituzionale” dovrebbe tendenzialmente bandire ogni automatismo, sia concessivo sia preclusivo dei benefici penitenziari.
Per la verità, dal secondo punto di vista, il disegno di legge delega prende una posizione molto netta e molto importante, su cui merita soffermarsi: «eliminazione di automatismi e di preclusioni che impediscono o rendono molto difficile, sia per i recidivi, sia per gli autori di determinate categorie di reati, l’individualizzazione del trattamento rieducativo e revisione della disciplina di preclusione dei benefici penitenziari per i condannati alla pena dell’ergastolo» (art. 26 lett. c). Difficile non condividerne lo spirito, ma difficile anche sottoscriverne integralmente la formulazione. Appare chiaro l’intento di procedere finalmente ad una radicale “bonifica” degli automatismi e delle preclusioni che impediscono l’accesso alle misure rieducative in ragione di una presunta maggiore pericolosità del soggetto – che poi si risolve nella sostanza in una presunzione di inemendabilità – desumibile dal titolo del reato o dalla sua qualità di recidivo. Sembrerebbero dunque maturi i tempi per recepire l’insegnamento della Corte costituzionale che, più di vent’anni or sono, ha spiegato come la previsione di ipotesi ostative alla concessione dei benefici legate alla condotta di reato, anziché alla condotta del condannato, «abbia comportato una rilevante compressione delle finalità rieducative della pena». Infatti, spiegava la Corte, «la tipizzazione per titoli di reato non appare consona ai principi di proporzione e di individualizzazione della pena che caratterizzano il trattamento penitenziario, mentre appare preoccupante la tendenza alla configurazione normativa di “tipi di autore”, per i quali la rieducazione non sarebbe possibile o potrebbe non essere perseguita» (Corte cost. n. 306 del 1993). L’eliminazione di tutte le preclusioni ostative, inoltre, restituirebbe coerenza al sistema, poiché la legge n. 94/2013, che già aveva avviato un processo di soppressione delle stesse, era intervenuta in modo disomogeneo, lasciando più di una ingiustificabile incongruenza (si pensi, ad esempio, alla detenzione domiciliare, ora accessibile anche al recidivo reiterato, tranne, irragionevolmente, per l’ipotesi di cui all’art. 47-ter, comma 01, Ord. penit.). Sarebbe, anzi, auspicabile, che il criterio direttivo venisse riformulato in modo da prevedere l’eliminazione di ogni automatismo preclusivo, ancorché non legato alla recidiva o alla particolare tipologia di reato (si pensi, ad esempio, al divieto assoluto di concessione di qualsiasi misura alternativa al condannato cui sia stata revocata la detenzione domiciliare: art. 47-ter, comma 9-bis, ord. penit.). Che si debba cancellare ogni previsione di esclusione automatica dai benefici penitenziari non può certo, però, significare che la concessione degli stessi non possa essere subordinata a presupposti più rigorosi o a presunzioni relative, in ragione della gravità ovvero della peculiarità del reato commesso. In quest’ottica non appare granché felice la locuzione «o rendono molto difficile» che appare nel menzionato criterio direttivo del disegno di Delega. Vi è il rischio che una fattispecie strutturata nel senso di vietare la concessione di certe misure alternative se prima non siano stati svolti determinati incombenti istruttori (ad esempio l’acquisizione del parere obbligatorio della Procura distrettuale antimafia) o assunte alcune informazioni (ad esempio quelle fornite dal Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica) possa essere ritenuta incompatibile con il criterio de quo, in quanto renderebbe molto difficile la individualizzazione del trattamento rieducativo.
A fronte delle prescrizioni persino troppo “ablative” previste per la generalità dei condannati, il criterio in esame adombra poi uno statuto speciale per l’ergastolano, rispetto al quale il legislatore delegante si accontenta di una non meglio precisata «revisione della disciplina di preclusione dei benefici penitenziari». Premesso che, comunque, il legislatore delegato non potrebbe non eliminare il c.d. ergastolo ostativo, che secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo integra gli estremi del trattamento inumano a norma dell’art. 3 Cedu (sent. 9 luglio 2013, Vinter e altri c. Regno Unito), non si vede per quale ragione si debba prevedere una disciplina ad hoc per il condannato all’ergastolo, anziché applicare a quest’ultimo, come agli altri condannati, un congruo innalzamento del livello dei presupposti di accesso alle misure alternative, in ragione della gravità della pena o del grado di pericolosità espresso dal reato commesso.
4. Un’ultima riflessione, scorrendo questa volta con uno sguardo d’insieme, i nove criteri direttivi della Delega. A quarant’anni dall’introduzione dell’Ordinamento penitenziario (l. 26 luglio 1975, n. 354), se ne avvia una riforma che si muove lungo linee di intervento quasi del tutto coincidenti con quelle che l’hanno sin dall’inizio innervato: quarant’anni per tornare sostanzialmente al punto di partenza. Non è un dato politicamente privo di significato. È difficile sfuggire alla sensazione di un “legislatore-Penelope”: oggi tenta pazientemente di ritessere sul telaio costituzionale l’ordito della legislazione penitenziaria, ma, se non cambierà la percezione sociale della risposta penale, la cultura della pena, questa tela sarà presto corrosa dalla prassi quotidiana e sbrigativamente disfatta alla prima “scorreria legislativa”, condotta sotto il vessillo della paura e dell’insicurezza sociale.
È verosimilmente con questa consapevolezza che il Ministro della giustizia ha voluto affiancare alla riforma legislativa in corso una iniziativa inedita: gli Stati generali dell’esecuzione penale. Per circa sei mesi la complessa problematica della pena, specie nella sua esecuzione carceraria, sarà al centro di analisi e dibattiti, coinvolgendo studiosi e operatori del settore, ma anche interlocutori espressione della società civile, interpellando i diversi portatori di interessi: saranno, infatti, istituiti Tavoli tematici intorno ai quali chiamare a riflettere sugli aspetti più rilevanti della realtà dell’esecuzione penale tutte quelle professionalità che per ragioni diverse la intersecano. L’intento è promuovere una consultazione aperta, tramite il portale del Ministero della giustizia, in modo che anche sulla base di questo “ascolto democratico”, i responsabili dei Tavoli possano elaborare proposte e idee. Una tale mobilitazione culturale e sociale, se ben gestita, dovrebbe anch’essa contribuire alla piena realizzazione della Delega, non solo perché potrebbero scaturirne interessanti suggerimenti per l’elaborazione normativa, ma soprattutto perché, per restituire effettività alla funzione rieducativa della pena, c’è bisogno di una società avvertita del contributo che può dare e ricevere nella difficile opera di recupero e di ri-accoglienza di un cittadino che se ne è allontanato. Gli Stati generali potranno costituire, quindi, una sorta di placenta culturale per la riforma, sensibilizzando l’opinione pubblica, preparandone l’habitat sociale, nella consapevolezza che nessuna novità legislativa farà mai presa sulla realtà se prima le ragioni che la ispirano non avranno messo radici nella coscienza civile del Paese.
Sempre da questo esteso interpello agli attori professionali e sociali potranno venire soluzioni strutturali ed organizzative che, anche favorendo una osmosi tra società carceraria e extracarceraria, potrebbero rendere la vita detentiva un momento non solo di espiazione, ma anche di occasione per il condannato di avvalersi delle opportunità di risocializzazione offerte. E tutto ciò, naturalmente, responsabilizzandone rigorosamente le scelte, in un contesto, però, rispettoso della sua dignità e dei suoi diritti, che ripudi ogni processo di incapacitazione vòlto ad indurre una rassegnata minorità. Dalla società civile, verosimilmente, verranno anche incalzanti sollecitazioni a farsi carico dei diritti della vittima del reato, dando piena realizzazione a quel criterio del disegno di legge delega che impone la previsione di momenti di giustizia riparativa (art. 26 lett. d) nel corso dell’esecuzione penale, anche estendendolo ad attività di mediazione tra l’autore del reato e la vittima. Bisognerebbe fare in modo che la sempre più diffusa e comprensibile esigenza di vedere tutelate le ragioni di chi subisce le conseguenze dirette e indirette del reato – spesso gravissime – si converta nella pretesa non di cieca punizione del colpevole, bensì di forme di promozione e di valorizzazione delle attività del reo volte a compensare il danno morale e materiale causato alla vittima e alla società.
Naturalmente, trattandosi di una iniziativa inedita e di grande respiro, non mancheranno ostacoli, passaggi a vuoto, inconcludenze, risultati non del tutto soddisfacenti, resistenze politiche e culturali. Talvolta si dovrà orazianamente prendere atto che maiores pennas nido.
Ma un obiettivo non meno importante, di certo, sarà conseguito: questo processo di ascolto democratico di quanti, a diverso titolo, con la realtà carceraria interagiscono o potrebbero interagire costituisce di per sé un risultato dal grandissimo valore culturale. Nel nostro quotidiano il carcere subisce una sorta di scotomizzazione civile, resta fuori – per così dire – dal campo visivo dello sguardo sociale, non si vuole ricordare o vedere che esiste, salvo poi risuscitarlo dall’ombra quando efferati fatti di cronaca ce ne ricordano o ce ne fanno invocare la necessità. Solo allora, e per breve tempo, si torna a “vedere” il carcere, come il luogo dove rinchiudere illusoriamente tutti i nostri mali e le nostre paure. Puntare a lungo il riflettore dell’attenzione collettiva sul carcere e sull’esecuzione della pena significa, invece, costringere la società a guardare, a conoscere, a capire. Significa rischiarare quell’oscura spelonca psicologica abitata dall’insicurezza, dalla paura, dall’ignoranza, che spesso sospingono verso le riforme illiberali e securitarie. Significa costringere la stampa e l’opinione pubblica a non occuparsi della realtà carceraria solo saltuariamente, in occasione dell’ultimo episodio cruento, dopo una scioccante zoomata sul dolore della vittima, in relazione al mancato rientro di un semilibero o all’ennesimo reato commesso da un recidivo; significa impegnarle a conoscere il grande problema del carcere nella sua effettiva realtà, nelle sue complesse articolazioni, senza volgarizzazioni populistiche e senza lassistiche sottovalutazioni. Riuscire a fare in modo che la collettività conosca i veri termini del problema carcere, informandola correttamente e compiutamente, significa prepararla a giudicare e a sollecitare le scelte di politica penitenziaria con maggiore consapevolezza. Significa, soprattutto, offrirle gli antidoti contro quegli allarmismi che gabellano per irrinunciabili presidi a tutela della sicurezza pubblica le restrizioni dei diritti dei reclusi.
La collettività potrà allora apprendere, forse con sorpresa, che, secondo i più accreditati studi socio-criminologici, non vi è alcuna correlazione tra il tasso di incarcerazione e il livello di criminalità e di sicurezza sociale; che secondo le indagini di vittimizzazione solo il 4-5% degli autori di reato è ristretto nelle patrie galere; che l’espiazione non carceraria della pena abbatte drasticamente l’indice di recidiva, sino quasi ad annullarla se accompagnata da una attività lavorativa; che le modalità alternative di espiazione della pena dunque riducono, non aumentano le ragioni dell’insicurezza sociale. Correttamente informata, l’opinione pubblica si renderebbe conto di quanta demagogia ci fosse dietro il termine “svuotacarceri” con cui sono stati etichettati gli ultimi provvedimenti legislativi: un termine che evocava l’idea di un cieco “sversamento” nella società del pericoloso contenuto dei penitenziari, mentre con quei provvedimenti si cercava soltanto di evitare la permanenza o l’ingresso in carcere di chi – secondo la Costituzione e il buon senso – non avrebbe meritato di restarvi o di entrarvi.
Sempre in un’ottica di crescente sensibilizzazione dell’opinione pubblica, sarebbe auspicabile che si riuscissero a creare occasioni in cui la collettività possa avvicinarsi al carcere per conoscere di quale sordida e misera materialità sia fatta la giornata del recluso, quanto disperante e demotivante sia per taluni condannati l’impossibilità di sognare un domani degno di essere vissuto. «Bisogna aver visto», ammoniva Calamandrei, prima di parlare di pena e di carcere.
Beninteso, non si invoca nessun deamicisiano, inerme buonismo. Temo che l’umanità non possa ancora per lungo tempo fare a meno dell’istituzione carceraria e che, in mancanza di altre misure, la società debba poter rispondere a gravi condotte criminose anche ricorrendo a pene lungamente privative della libertà. Ma niente – come abbiamo già scritto su queste pagine – può mai autorizzare lo Stato a togliere, oltre alla libertà, anche la dignità e la speranza.
[1] Con la prima, la Corte costituzionale – dirimendo un conflitto di attribuzioni – ribadiva che l’Amministrazione penitenziaria è obbligata ad eseguire i provvedimenti assunti dal magistrato di sorveglianza a tutela dei diritti dei detenuti (sent. n. 135 del 2013); con la seconda, affrontando la questione di legittimità costituzionale dell’art. 147 cp, nella parte in cui non prevede «l’ipotesi di rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena quando essa debba svolgersi in condizioni contrarie al senso di umanità», riconosceva espressamente la fondatezza della questione, ma ne dichiarava l’inammissibilità per essere riservata al legislatore la scelta più acconcia tra le diverse prospettabili. Non senza aggiungere, però, significativamente che non sarebbe stato «tollerabile l’eccessivo protrarsi dell’inerzia legislativa in ordine al grave problema» del sovraffollamento carcerario e delle conseguenti condizioni di detenzione contrarie al senso di umanità (sent. n. 279 del 2013).
[2] Messaggio alle Camere sulle condizioni delle carceri italiane, 8 ottobre 2013, in cui il capo dello Stato espresse una profonda indignazione per le condizioni delle nostre carceri e la vibrante raccomandazione al Parlamento affinché vi ponesse rimedio, anche ricorrendo – se del caso- a strumenti eccezionali.
[3] Dopo una prima, assai parziale risposta normativa alla “sentenza Torreggiani” (Dl 1° luglio 2013, n. 78, conv. con modif. in l. 9 agosto 2013, n. 94), imperniata soprattutto sulla rimozione di numerosi automatismi e preclusioni che rendevano particolarmente problematico realizzare un trattamento rieducativo individualizzato per numerose tipologie di condannati, il legislatore (Dl 23 dicembre 2013 n. 146, conv. con modif. in l. 21 febbraio 2014 n. 10), riprendeva –senza peraltro portarla a compimento – la sua opera di adeguamento ai dettami della Corte di Strasburgo: tra le novità più significative, la previsione di un procedimento giurisdizionale per garantire la tutela effettiva dei diritti (cd rimedio preventivo); l’introduzione della misura della liberazione anticipata speciale; l’istituzione del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute. Solo con un provvedimento ulteriore, e sempre in via d’urgenza (Dl 26 giugno 2014, n. 92, conv. con modif. in l. 11 agosto 2014 n. 117), è stato infine legislativamente confezionato l’ultimo tassello necessario per ottemperare alle prescrizioni imposte da Strasburgo: il rimedio compensativo per la detenzione patita in condizioni contrarie all’art. 3 Cedu.